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Foucault interprete d’arte

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Relazione d’esame per Filosofia della Storia 2011/2012

Di Rocco Pellino

Numero matricola: 0000648056

 

Obiettivo del presente lavoro sarà la presa in esame dei contributi foucaultiani alla teoria dell'arte in ambito moderno e contemporaneo, tematizzando, nello specifico, la sua lettura del Surrealismo attraverso Magritte. Ci occuperemo, inoltre, della profonda analisi condotta da Foucault sui criteri rappresentazionali caratterizzanti rispettivamente la pittura barocca (esemplificata da Velasquez) e quella contemporanea a partire dalle acquisizioni astrattiste e costruttiviste.

Vorrei, innanzitutto, partire dall'esplicitazione di due domande programmatiche, che valgano ad esprimere la direzione argomentativa di questa ricerca:

 

- Qual è la specifica originalità del contributo foucaultiano all’interpretazione dell’arte contemporanea (Magritte, Klee, Kandinskij)?

- Quale particolarità emerge dalle ricerche di Foucault, a proposito del valore artistico e culturale dell’arte dell’Età Classica (Las Meninas)?

 

Nella progressiva chiarificazione di tali interrogativi vedremo (pur brevemente) quale ruolo assuma l'analisi della pittura di un dato periodo storico, all'interno del processo di indagine, cosiddetto archeologico, foucaultiano. Daremo quindi una rapida definizione del metodo archeologico e del metodo genealogico, che la critica tende a far corrispondere rispettivamente al Foucault degli anni '60 e a quello degli anni dai '70 in poi. Nel far questo ci avvarremo, tra l'altro, della guida dell'utile studio di Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. [1]

 

I.

Nota lo storico, ed amico di Foucault, Paul Veyne, che i testi di quest’ultimo sono pieni di eventi storici: tali eventi sono raccolti ed esemplificati dalle pratiche discorsive attraverso le quali si manifestano (in un dato sistema storico e sociale) e manifestano la propria irriducibile singolarità; l’impossibilità di essere ricondotti entro una griglia scandita da concetti universali dati a priori.

 

supponiamo che la follia non esista, o meglio che sia soltanto un falso concetto (anche se ad essa corrisponde una realtà). “Ammesso questo, quale storia si può fare dei diversi eventi e delle diverse pratiche che, almeno in apparenza, hanno a che fare con quel qualcosa che si suppone essere la follia?”, e che fanno sì che essa finisca per esistere come follia autentica ai nostri occhi (…): la follia e tutte le cose umane non hanno altra scelta, a meno di essere singolarità.[2]

 

In tal modo, osserva Veyne, saranno gli universali stessi che dovranno passare dalla griglia di verifica costituita dagli evanescenti confini delle pratiche discorsive entro le quali questi sembrano poter essere richiamati e coinvolti in un’indagine che lo storico definisce «un’antropologia empirica». Sarà dai dettagli (storici) che si potranno inferire considerazioni più o meno fondate sul valore e sulla trasformazione storica delle categorie culturali di una formazione sociale. Tali dettagli saranno da rinvenire, per la maggior parte, nelle tracce, più o meno leggibili, che sono state lasciate dai discorsi e dalle rappresentazioni che hanno vissuto socialmente all’interno di orizzonti sociali non più attuali. Orizzonti che sono però rinvenibili a partire dai documenti narrativi e visivi che li hanno rappresentati e la cui morfologia evolutiva, per così dire, sia ricostruibile quasi come a partire da alcuni fossili si possono ricostruire le vicende evolutive di specie estinte, nonché il loro valore per la formazione delle specie attuali. Alla luce di queste considerazioni il già citato titolo di «antropologia empirica» sembra un buon candidato ad esprimere il senso generale di quella che Foucault intende come archeologia del sapere.

Proviamo, dunque, a definire (sommariamente) quest’ultima come un metodo di indagine sulla costituzione dei mondi culturali a partire dagli a-priori che ne garantiscono le condizioni di possibilità e che riposano, impliciti, nell’architettura delle pratiche di discorso, scienza e sapere di una data epoca.

All’interno di questo panorama d’indagine prenderà forma, più tardi, quella genealogia (di sapore nietzschiano), basata sulla ricostruzione degli oggetti e degli eventi a questi correlati, con particolare riferimento alle modificazioni delle pratiche discorsive come effetti dell’esercizio dei poteri socio-politici. Questi ultimi intesi maggiormente come poteri di censura e di esclusione, volti a ridimensionare i discorsi e i loro contesti di enunciabilità all’interno dell’ archivio del sapere. [3]

Ora, ciò che ci interessa tematizzare (l’idea da cui parte anche il saggio della Iacomini) è lo spazio che la riflessione sull’arte si ritaglia entro il quadro di analisi che abbiamo appena illustrato; nello specifico vorremmo chiederci (piuttosto che quale sia la precisa collocazione funzionale dell’arte entro il programma archeologico), quale sia il carattere specifico che lo sfondo dell’analisi archeologica tipicamente foucaultiana restituisce (in generale) ad una teoria dell’arte. Qual è, in sostanza, il carattere preciso che il metodo foucaultiano conferisce all’analisi dell’opera d’arte.

Prima di cercare di rispondere a quest'ultima domanda, diamo brevemente credito alla prima, che è poi l'interessante proposta del lavoro della Iacomini: come si collocano pittura e letteratura all'interno del percorso di indagine archeologico.

Per questo l'autrice di Le parole e le immagini ci propone un'efficace ed interessante metafora esplicativa:

 

La mia ipotesi, cioè, è che nell'ambito del discorso foucaultiano, letteratura e pittura disegnano l'una la curva di movimento, l'altra il diagramma di stato di un'epoca storica archeologicamente determinata.[4]

 

Questa metafora evocante un simbolismo fisico-matematico è adattissima ad esprimere un concetto che potrebbe risultare di più complessa articolazione: ci dice cioè, che tra i reperti storici che Foucault indaga, il ruolo dell'arte (nel senso della letteratura) sembra quello di registrazione di progressivi cambiamenti nelle pratiche discorsive di un'epoca, di irruzione di elementi nuovi, di progressiva modifica delle invisibili condizioni a priori dell'esperienza del mondo. In questo senso, attraverso i testi letterari (come il Don Chisciotte di Cervantes) possiamo ricavare una curva descrittiva dell'evoluzione epistemica di un'epoca in un'altra; attraverso la pittura invece, sembra venirci incontro, quasi fotograficamente, un'immagine immediata e complessa delle condizioni epistemiche che sono valide entro un determinato tratto di quella curva. Essa immortala le condizioni di rappresentabilità e conoscibilità di un'epoca alla stregua, diremmo, di una radiografia, cioè di un'immagine che ci mostri l'invisibilità che si cela dietro le determinazioni positive del visibile in atto.

Sembra, dunque, alla luce di queste considerazioni, che Foucault cerchi nella pittura una sorta di fotografia dell' episteme di una data epoca storica (per come essa è inserita nella sua archeologia).

 

II.

Emblematici, in questo senso, ci sembrano, prima di tutto, i casi delle analisi dedicate a Bosch e a Velásquez (quest'ultimo destinato poi a divenire celeberrimo).

Nel primo caso Foucault ritiene di trovare in certi quadri del pittore olandese una chiara immagine del modo attraverso il quale si guarda alla follia nell'epoca della Renaissance. Qui troviamo, seguendo le analisi foucaultiane in Storia della follia nell'Età Classica, una visione del folle come possessore di un sapere celato alla maggior parte della comunità, un sapere che può rivelarsi in certa misura eccedente rispetto ai limiti della ragione e quasi profetico. Il mondo del folle è un quadro di immagini assurde e surreali, dalle quali esso attinge un sapere esoterico e profondo, assolutamente irriducibile alla semplice deriva della ragione; anzi, un sapere che proprio grazie a tale deriva giunge a vedere nuovi orizzonti e diversi collegamenti tra le cose. Vedi, ad esempio, il quadro La nave dei folli (1490-1500) che mostra una piccola barca affollata da figure del tutto particolari che prende il mare (rappresentando, secondo la critica, il viaggio dei folli del poema di Brandt, omonimo al quadro, verso una sorta di terra promessa della follia). Attraverso la metafora del viaggio, nota Foucault, la figura del folle viene vieppiù ammantata di una ieraticità che la rende, legittimandola ancora, preziosa, in odore di esperienza d'altri mondi e di altre e profonde saggezze precluse alla ragione.

Nota la Iacomini:

Sembrerebbe, quindi, che Foucault riservi anche per il quadro di Bosch lo stesso interesse che dimostrerà in Le parole e le cose per Las Meninas: entrambe le opere gli sono utili per rendere, nell'immediatezza dello sguardo, l'immagine di un'epoca.[5]

 

Proseguiamo ora con l’osservare le analisi foucaultiane di opere d’arte di epoche differenti per prepararci a rispondere alla domanda in merito a cosa guadagni l’analisi di un’opera se inquadrata entro il metodo archeologico foucaultiano (come, cioè, ne venga specificamente caratterizzata).

Abbiamo visto come negli scenari e nei personaggi surreali e decisamente onirici di Bosch, Foucault ritenga di trovare una perfetta immagine della collocazione del fenomeno della follia entro i confini del Rinascimento. Tale collocazione muterà radicalmente con l’avvento della cosiddetta Età Classica (secoli XVII e XVII), l’epoca della nascita dei manicomi e della realizzazione del grande internamento.

 

I caratteri rappresentazionali vigenti nell’Età Classica non sono aperti a scenari trasognati e traboccanti di stranezze e visioni, quali erano quelli di Bosch, bensì (riflettendo un’organizzazione del sapere che punta sulla chiara demarcazione del discorso retto e razionale, opponendo ad esso i territori esterni e confinati della follia e della sragione), sono del tutto concentrati sul rispecchiamento fedele della visione reale; l’Età Classica si fa carico di realizzare in pittura un realismo quanto più possibile vicino alla rappresentazione percettiva che l’uomo ha delle cose. Partendo da questo assunto lo stesso Foucault la battezza come «Età della Rappresentazione».

L’emblema artistico di quest’epoca è oggetto di una lunga analisi nel primo capitolo de Le parole e le cose. Si tratta del quadro intitolato Las Meninas del pittore spagnolo Velásquez. Non volendoci qui soffermare su tutti gli spunti forniti dalle riflessioni del filosofo francese, ne ricapitoleremo brevemente le conclusioni generali. La prima particolarità che Foucault sottolinea a proposito di Las Meninas è lo stato di apparente mancanza di un soggetto rappresentato. Allo spettatore infatti si presenta una scena che comprende il pittore stesso (sulla sinistra) di fronte ad una tela, la quale mostra dunque il suo nudo retro privo di alcuna immagine; un piccolo gruppo di personaggi (al centro e sulla destra) rappresentanti l’Infanta di Spagna e le sue damigelle ed infine (dal secondo piano alle quinte) un vuoto scuro che porta direttamente allo sfondo del quadro (le pareti di una vasta sala), dove si intravede un piccolo specchio riflettente due figure vicine.

Ora, la stranezza principale è costituita dal fatto che il pittore che dovrebbe essere l’autore di questa scena, dipinge se stesso (nell’atto di dipingere) collocandosi non nel punto di fuga della rappresentazione, cioè nel luogo dal quale poi osserverà l’opera lo spettatore (il quale invece vede riflesse nello specchio due vaghe figure, che dovrebbero rappresentare la coppia dei reali di Spagna), ma di fronte ad esso sulla sinistra, intento dunque a dipingere un’altra scena che non coinciderebbe affatto con quella mostrata realmente dal quadro. Questo trattamento dell’immagine è di certo un’originalità persino all’interno dell’insieme dei giochi illusionistici barocchi, i quali comprendono ampiamente pittori che dipingono se stessi attraverso riflessi singolari e stranianti, ma sempre nell’atto di dipingere quella stesa scena che si costituirà dinnanzi agli occhi dello spettatore, una volta che questi avrà preso il suo posto di fronte al quadro. Nella dinamica del riflesso barocco c’è un pittore reale (presupposto), un pittore rappresentato (nell’atto di dipingere la scena che osserverà lo spettatore) e un soggetto del quadro in primo o secondo piano (l’oggetto dello sguardo prima, dell’autore, poi dello spettatore). Qui i primi due termini dovrebbero assolutamente coincidere ed il terzo avanzare con precisione verso lo sguardo dello spettatore.

Nella dinamica di Las Meninas, invece, il pittore reale (che fa da presupposto ontologico, diremmo, alla rappresentazione), viene curiosamente dissociato dalla sua immagine all’interno del quadro, la quale libera da ogni riferimento va a posarsi da qualche parte in primo piano, intenta sì a dipingere, ma a dipingere una scena che non coincide affatto con quella che il quadro stesso raffigura! Lo spettatore, quindi non vede il riflesso del pittore nello specchio sullo sfondo (dritto di fronte a sé), ma lo vede, al contrario, intento a guardare verso l’ esterno del quadro, verso lo stesso spettatore, il quale a questo punto si rende conto di occupare la posizione che, teoricamente, dovrebbero occupare i modelli che stanno venendo dipinti su una tela che egli stesso non vedrà mai (poiché questa è posta dinnanzi al pittore rappresentato e quest’ultimo, come abbiamo detto, non si trova a coincidere con la posizione dello spettatore, ma con quella contraria finendo inevitabilmente con lo scoprire allo sguardo solo il retro della tela). Alla posizione dello spettatore del quadro, corrispondono qui, solo le due sagome non ben definite dei reali di Spagna, riflessi sullo specchio che avrebbe dovuto riportare allo sguardo l’immagine di chi avesse dipinto dalla posizione che ora occupa lo spettatore. Se dunque osservando di Las Meninas volessimo cercare un soggetto del quadro ci troveremmo in un certo imbarazzo: da un lato vediamo (frontalmente) Velásquez che dipinge e il gruppetto dell’Infanta; questi personaggi però dirigono il loro sguardo verso una regione del quadro che ci rimane nascosta e che probabilmente sta venendo rappresentata sulla grande tela posta di fronte al pittore di corte e che noi supponiamo (grazie allo specchio in fondo) essere occupata dalla coppia dei reali di Spagna. Il soggetto che appare allo spettatore è, dunque, costituito da Velásquez e dall’Infanta; ma il soggetto che l’autore del quadro sembra attribuire alla propria attività di pittura (immortalata frontalmente), è escluso dal primo piano ben visibile a noi e relegato sullo sfondo, contenuto in un vago riflesso. Questo l’ impasse che presenta Las Meninas.

Assenza del soggetto e descrizione ordinata degli elementi che costituiscono la rappresentazione in genere (sguardo, autore, strumenti, supporto). Queste le considerazioni fondamentali di Foucault, che lo portano a definire Las Meninas come una «rappresentazione della Rappresentazione».[6] Ecco il soggetto del quadro, un soggetto invisibile per sua natura, al quale Velasquez cerca di restituire una qualche forma di visibilità: è il processo rappresentativo. Il processo di costituzione di un’immagine della realtà. Il fatto che il ruolo del soggetto sia svolto da un processo, mostra perfettamente i caratteri che Foucault intende sottolineare come propri dell’Età Classica: progressiva elisione del soggetto all’interno delle pratiche discorsive e prevalenza della similitudine sulla somiglianza.

L’elisione del soggetto si inserisce all’interno dei processi di costituzione della ragione analitica contemporanea, quella ragione che va via, via sviluppando come suo primario oggetto di analisi il proprio stesso linguaggio e la propria stessa forma conoscitiva; una ragione che si emancipa dal riferimento ontologico al soggetto pensante e si legittima attraverso un’analisi puramente logico-funzionale.

All’alba della modernità, l’Età Classica saluta la progressiva scomparsa del soggetto dall’universo del discorso e della rappresentazione. Questi ultimi si ripiegheranno, ora, su se stessi, dedicandosi all’analisi impersonale dei propri linguaggi costitutivi.

Per quanto riguarda, invece, il problema della prevalenza della similitudine sulla somiglianza, qui Foucault allude al tramonto definitivo della rinascimentale teoria delle segnature e al sorgere della moderna teoria dei segni. Le prime, oggettive, inerenti per natura a degli oggetti specifici, di origine divina; i secondi arbitrari, impersonali e non-sostanziali, dedotti analiticamente e applicabili su larga scala.

 

Il segno cessa di essere una figura del mondo e diventa cifra del conosciuto. Esso, istituito attraverso un atto di conoscenza, si costituisce come nuovo strumento del sapere nella misura in cui scioglie il sapere dal vincolo dei rinvii analogici.[7]

 

L’Età Classica, in sostanza, annuncia la scomparsa del soggetto in quanto portatore di qualità naturali, a favore di un anonimo soggetto conoscente che istituisce nel mondo dei rapporti puramente quantitativi. È il prevalere dell’idea di funzione su quella di sostanza, come nota Cassirer, all’interno della dinamica dei fatti conoscitivi. Si tratta di un processo che prende le mosse dall’analisi linguistica del XVII secolo e che, passando per la sistematizzazione kantiana della gnoseologia, arriva alle porte della Relatività e della quantizzazione dell’energia.[8]

Ma la conclusione che più ci interessa sottolineare riguarda lo statuto della Rappresentazione in sé e per sé. Questa, divenuta ormai soggetto unico del quadro, ci dimostra un certo rapporto di valori: uno stallo tra duo ordini di rappresentazioni, quelle visive e quelle linguistiche; attraverso le seconde cerchiamo di identificare gli sfuggenti temi del dipinto, mentre attraverso le prime non cessiamo di rinvenire ostacoli a un simile riconoscimento. Ecco, allora, cosa nota Foucault:

 

Ma il rapporto tra linguaggio e pittura è un rapporto infinito. Non che la parola sia imperfetta e, di fronte al visibile, in una carenza che si sforzerebbe invano di colmare. Essi sono irriducibili l’uno all’altra: vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere, a mezzo di immagini, metafore, paragoni, ciò che si sta dicendo.[9]

 

L’irriducibilità dell’immagine alla parola; l’impossibilità di una autentica ekphrasis, di un collegamento affidabile tra immagine visiva e parola. Ecco alcuni temi che Foucault predispone per la successiva riflessione dei teorici dell’immagine contemporanei, specie nell’ambito dei Visual Studies di cui si fa pioniere, negli anni ’90, John Mitchell[10], riconoscendo nell’analisi foucaultiana un importante paradigma metodologico per una nuova cultura dell’immagine. Cominciamo, allora, a intravedere in cosa consista il lascito di Foucault alla teoria dell’arte, in risposta al quesito fondamentale di questa ricerca. Più avanti espliciteremo tale possibile risposta in modo più chiaro.

 

III.

Per il momento riprendiamo l’idea della simmetria Bosch-Velasquez rispetto al rapporto emblematico e sagittale della pittura con la propria epoca archeologica (in senso foucaultiano). Proviamo a rilanciare tale simmetria in avanti, oltre Velasquez stesso ed oltre l’Età Classica. È quello che propone anche la Iacomini, grazie alla trascrizione di un’intervista del 1966 durante la quale Foucault discute con Bonnefoy a proposito dell’«imminente scomparsa del soggetto dal discorso» nella contemporaneità della cultura occidentale. Alla domanda circa quale artista contemporaneo potesse illustrare, alla maniera di un Velasquez, la situazione del pensiero e del discorso propria dell’età successiva a quella moderna, Foucault risponde facendo il nome di Paul Klee.

 

Mi sembra sia che la pittura di Klee quella che rappresenta meglio, rispetto al nostro secolo, ciò che Velasquez è potuto essere rispetto al suo. Nel momento in cui Klee fa apparire in forma visibile tutti i gesti, atti, grafismi, tracce, lineamenti, superfici che possono costituire la pittura, egli fa dell’atto di dipingere sapere disegnato e scintillante della pittura stessa. […] Las Meninas rappresentava tutti gli elementi della rappresentazione, il pittore, i modelli, il pannello, la tela, l’immagine allo specchio, scomponeva la pittura stessa negli elementi che la facevano essere una rappresentazione. La pittura di Klee, scompone e compone la pittura nei suoi elementi che, per il solo fatto di essere semplici non sono meno sostenuti, ossessionati, abitati dal sapere della pittura.[11]

 

Ora, sebbene Foucault (come avverte la Iacomini) non arrivi mai a problematizzare sistematicamente l’ episteme di una Età Contemporanea, che possa in qualche modo corrispondere al XX secolo, egli ne fornisce più volte degli accenni, parlando di un’epoca in cui alla totale scomparsa del soggetto dal discorso, corrisponda un sapere che fa oggetto di indagine il sapere stesso nei suoi termini linguistici ed espressivi. Venuto meno l’uomo, il linguaggio è affrancato dalla corrispondenze delle parole e delle cose di cui il soggetto umano era il garante ultimo. I discorsi possono prodursi liberamente, senza specifici obblighi di significazione, o di rapporto deittico col mondo reale. Così in letteratura il linguaggio espressivo di ogni autore potrà prendere il sopravvento sui soggetti delle narrazioni e non curarsi del loro progressivo assottigliamento fino alla scomparsa totale. A tal proposito tra gli autori più specificamente tematizzati dallo stesso Foucault troviamo nomi come Borges, Roussel, Blanchot, Robert-Grillet ed altri. Molto più rari (se non assenti) mi sembrano, invece, i riferimenti ad un autore come Raymond Queneau, che pure ha tutte le carte in regola per presentare, al panorama del romanzo europeo contemporaneo, la travolgente avanzata del linguaggio letterario a scapito dei soggetti umani, ed anzi è forse uno dei più geniali esempi che possano corrispondere ad una simile analisi. La sua esperienza di narratore di discorsi senza soggetti (che matura per via surrealista) raggiunge altissime vette espressive in opere di fama mondiale come Zazìe nel metrò, o Esercizi di stile. Il soggetto dei romanzi di Queneau è definitivamente il linguaggio stesso e le sue trappole, i suoi non-sensi, i suoi fraintendimenti, i giochi metaforici ed espressivi che esso può suscitare nell’infinità dei possibili dialoghi che lo utilizzano. I suoi personaggi spesso e volentieri sono molto poco caratterizzati, si assomigliano un po’ tutti, studenti sbandati, ex-soldati buffi e cinici, satiri, adolescenti disinibite, giovani donne serenamente apatiche, o ammiccanti e battagliere… Ciò che cambia veramente sono i veri e propri giochi linguistici di cui essi si rendono portatori, attraverso posizioni espressive e retaggi sintattici quasi prefissati all’interno delle immense variazioni del dizionario-Queneau. Il lettore si abitua presto a riconoscere come protagonisti ricorrenti delle vicende apparentemente umane tali giochi sintattici e semantici e si appassiona alle vicende ed alle brillanti evoluzioni di un linguaggio che sembra proprio non curarsi affatto dei soggetti che lo esprimono e dei significati (dei pezzi di realtà) che dovrebbero essere tirati in ballo dal suo scorrere frenetico.

Ma lasciamo, ora, da parte il discorso di un possibile rapporto Foucault-Queneau, che pur meriterebbe più approfondite considerazioni.

Continuiamo sulla scia delle letture foucaultiane della pittura contemporanea, che presto ci porterà all’incontro con l’opera di Magritte.

Abbiamo visto, per sommi capi, quale possa essere il giudizio di Foucault sull’esperienza pittorica di Klee (il dispiegamento del sapere pittorico all’interno della pittura stessa). Vorrei sottolineare la fondatezza di tale interpretazione dell’opera di Klee, anche in connessione con le matrici e le influenze costruttiviste e astrattiste attraverso le quali passa l’esperienza del famoso pittore, teorico ed insegnante della Bauhaus. La scomposizione della figuratività pittorica in quegli elementi che potremmo chiamare colori e forme pure era già un’acquisizione della prima atmosfera costruttivista russa; al suo interno la ricerca delle esperienze estetiche date dai fattori elementari della pittura trova una chiara espressione già nel Suprematismo di Malevic. Il linguaggio costruttivo ed analitico dei russi continuerà ad essere parlato per molto tempo in Europa, declinato in molti differenti modi, a seconda delle scuole e dei singoli autori, non ultimo Kandinskj (citato da Foucault come il primo artefice della separazione tra somiglianza e affermazione). Tra la roboante scena pittorica configurata dall’Astrattismo e la più sobria e contenuta figurazione suprematista, restano molti punti in comune, ma soprattutto moltissimi presupposti condivisi. Questo è anche lo spazio in cui si deve inquadrare l’esperienza di Klee: ricerca dell’elementarità figurativa e delle condizioni di possibilità della figurazione; indagine dei significati espressivi delle linee e del disegno, da trasporre nell’analisi della forma naturale, o artificiale. Queste linee programmatiche si incrociano nel pittore di origine olandese in un senso che è specificamente pedagogico, che cerca il suo coronamento nel potersi fare metodo di insegnamento e di teorizzazione esplicita di un certo tipo di attività definita come artistica. Attività entro la quale, addirittura, Klee invoca la necessità di esperienze esatte, sul modello di un’analiticità di tipo scientifico, capace di mostrare, attraverso la pittura, ciò che prima non era visibile. Questa forte unione di teoria e pedagogia dell’arte emana con grande evidenza dalla grande raccolta di scritti e di lezioni che porta il titolo di Teoria della Forma e della Figurazione. [12] Ma si pone, del resto, in perfetta continuità con gli obiettivi programmatici della Bauhaus, per come Walter Gropius li aveva definiti preliminarmente nella strutturazione della sua scuola. Ricerca teorica sui linguaggi espressivi (su tutto ciò che può competere al sapere della pittura, diremmo con Foucault) della forma e della funzione costruttiva che essa assolve nella figurazione pittorica e nella progettazione architettonica. Sulla scorta di queste considerazioni appare chiarissima ed acuta l’analisi foucaultiana e più chiaramente ci appare la figura che egli doveva pensare come quella dell’artista analitico contemporaneo.

Se dovessimo cercare, però, l’artista del XX secolo al quale Foucault dedica più pagine di riflessione, troveremmo una terza figura, che più di Kandinskj e più di Klee sembra sollecitare la curiosità interpretativa del nostro autore. Questa figura non è prelevata dai circuiti costruttivisti à la Bauhaus, ma deriva ancora una volta dal panorama dell’arte surealista: si tratta del francese René Magritte.

 

IV.

L’interesse verso Magritte trova compiuta espressione in un testo scritto da Foucault nel ’73, dal titolo Questonon è una pipa [13], derivato dall’omonimo quadro del pittore francese, o meglio dal motto che caratterizzerà alcuni dei suoi dipinti più celebri come Il tradimento delle immagini, o I due misteri. In tutti e tre i casi il dipinto mostra una pipa ben disegnata che reca sotto di sé la scritta in bella calligrafia: «Questa non è una pipa». Negli ultimi due (pressoché identici fra loro) si vede la pipa con la sua didascalia disegnata sul supporto di un impiantito, il quale è sormontato da una gigantesca pipa fluttuante al di sopra di un palchetto in legno.

Non si può dire che prima della stesura di questo testo Foucault e Magritte non avessero avuto qualche contatto, come dimostra la corrispondenza avviata da Magritte stesso (maggio 1966) sulla scorta di un interesse suscitatogli dalla lettura di Le parole e le cose [14]. Nella sua prima missiva Magritte comunica a Foucault alcune riflessioni a proposito dei concetti di Similitudine e Somiglianza, alla luce della lettura del testo di Foucault summenzionato; a questa lettera il pittore allega alcune riproduzioni di suoi dipinti, tra i quali Questo non è una pipa [15].

Sei anni dopo, l’omonimo scritto di Foucault si apre con un elenco di domande (che sembrano mettere in uno stato di incertezza e imbarazzo l’autore) circa tale dipinto e le sue successive estensioni. Eccone alcune:

- Il testo presente del dipinto è da considerare un enunciato falso, perché non verificato dal suo referente?

- Siamo proprio sicuri che il disegno sopra il testo sia da riferire ad una pipa?

- Il testo è da considerare un enunciato vero, poiché asserisce l’ovvietà che il disegno di una pipa non è esso stesso una pipa?

- Che rapporto c’è tra il disegno della pipa, con la sua didascalia e il suo impiantito di supporto, e la gigantesca pipa che fluttua al di sopra di esso?[16]

Cerchiamo, finalmente, di seguire attraverso di esse la lettura foucaultiana dell’opera di Magritte.

Ciò che, oltre a quanto detto, sconcerta ancora Foucault è «la necessità inevitabile di riferire il testo al disegno» che, a suo avviso, si fa forte oltre che della somiglianza mimetica parola-immagine e del deittico dimostrativo, di un rimando ad una sorta di operazione «resa invisibile dalla semplicità del risultato»[17].

Tale operazione viene identificata in quello che il filosofo chiama «un calligramma disfatto». Di che si tratta esattamente?

 

Nella sua tradizione millenaria il calligramma ha un triplice ruolo: compensare l’alfabeto; ripetere senza il soccorso della retorica; prendere in trappola le cose con una doppia grafia. (…) fa dire al testo ciò che il disegno rappresenta. [18]

 

In questo senso Foucault vede nel calligramma una sorta di tautologia, non logica, ma grafica, per così dire. Si afferma due volte lo stesso contenuto rappresentativo attraverso due mezzi differenti, ma resi un'unica struttura grafica.

Una struttura che «si propone di cancellare ludicamente le più antiche opposizioni della nostra civiltà alfabetica: mostrare e nominare; raffigurare e dire; riprodurre e articolare; imitare e significare; guardare e leggere»[19].

Date queste considerazioni, Foucault propone l’idea che il quadro di Magritte presenti i residui di un calligramma (il quale evidentemente era costituito da un testo disposto a formare una pipa) normalizzato, dissolto, dal quale siano stati prelevati e rimessi a posto gli elementi verbali e quelli visivi; un calligramma, dunque, che si riavvolge al contrario, per così dire, e ritorna ad essere due cose separate e ben distinguibili: il disegno di una pipa e un testo didascalico. Nel farsi di questa operazione però, Foucault ritiene che non tutto sia andato a posto. Il dipinto di Magritte non presenta ancora una situazione del tutto normale, poiché non ha perso del tutto la sua natura originaria di calligramma. La pipa disegnata sembra scacciare ogni spiegazione testuale,[20] per via della semplicità esemplare con la quale è trattata, e il testo sottostante, dal canto suo, sembra volersi ancora allungare e abbellire inutilmente, quasi a voler formare un disegno esso stesso. Si sarebbero formate allora due figure (dalla scissione del calligramma originario) che cercano, ognuna per sé, di sospingersi verso la vecchia metà perduta?

Inoltre nota Foucault:

 

Per chi lo guarda il calligramma non dice, non può ancora dire: questo è un fiore, questo è un uccello; è ancora troppo chiuso nella forma, troppo soggetto alla rappresentazione mediante somiglianza, per formulare una simile affermazione. E quando lo si legge, la frase che si decifra (“questa è una colomba”, “questo è un acquazzone”) non è un uccello, non è più un acquazzone[21].

 

La frase che si legge sotto il disegno della pipa, dunque, (così farebbe pensare il rilievo dato da Foucault a quel «non è») potrebbe indicare una sorta di nostalgia per uno stato precedente in cui le sue parole affermavano la presenza di una pipa riproducendone i contorni in forma di calligramma, che si esprime nel dire: «ora che sono tornato enunciato non-figurativo non sono più una pipa»?

Le vie intraprese, o anche solo adombrate da Foucault nel corso dell’analisi sono numerose e spesso appaiono intricate. Quel che è certo è che l’idea del calligramma disfatto porta il filosofo ad attribuire al quadro di Magritte la funzione di «turbare così tutti i rapporti tradizionali tra il linguaggio e l’immagine».[22]

Le parole, memori del proprio passato calligrafico, si limitano a disegnare una frase, più che ad affermarla («testo in forma di immagine»[23]), mentre la pipa disegnata «sembrerebbe piena di piccole lettere confuse, di segni grafici ridotti in frammenti e sparpagliati su tutta la superficie dell’immagine. Figura in forma di grafia»[24]. Così pare di essere di nuovo alle prese con quel contrasto tra immagine e linguaggio, tra mostrare e dire, con il quale avevamo concluso l’analisi di Las Meninas. Linguaggio e visione si dimostrati portatori di logiche reciprocamente irriducibili; logiche che vengono a cozzare adesso, nel quadro di Magritte, tentando di emularsi a vicenda. Ma se ci soffermiamo un attimo a riflettere sul piano discorsivo entro il quale questa opposizione si configura, potremo forse aggiungere un altro utile elemento alla nostra riflessione: abbiamo, infatti, trattato finora gli elementi grafici della pipa e dell’enunciato sotto di essa come due aspetti diversi di un’unica operazione (la sola in virtù della quale i due elementi potessero contraddirsi): l’ affermazione. Foucault individua questa operazione e ne riconosce i profondissimi legami con la pratica pittorica. Nel far questo riannoda i fili del problema (già affrontato in Le parole e le cose) del rapporto similitudine/somiglianza e si misura in modo più amplio con la considerazione di Magritte nel quadro delle esperienze artistiche contemporanee.

 

V.

Al tempo della stesura di Questo non è una pipa, Magritte è un pittore più che affermato sulla scena internazionale. Tra gli anni ’60 e ’70 espone, ormai, in tutta Europa e negli Sati Uniti; nel ’61 esce il film Magritte ou La Leçon des choses di Luc de Heusch; nel frattempo collabora con diverse riviste letterarie francesi come «Rhétorique», o «La Carte d’après nature» (diretta dallo stesso Magritte). La sue esperienza e carriera pittorica è profondamente legata alla lezione e all’evoluzione della vita culturale del movimento surrealista, di cui è riconosciuto come uno dei massimi interpreti.

Il posto di Magritte, nel panorama dei pittori più rappresentativi del movimento è decisamente singolare. La sua figurazione è realistica e levigata, rappresenta di solito scenari piuttosto comuni, dove gli oggetti (grandi e spesso unici protagonisti dell’indagine surrealista) non appaiono deformati in figure irriconoscibili e misteriose, inquietanti come gli inconsci segreti a cui dava voce un Dalì o un Ernst; raramente, nell’opera di Magritte, appaiono veri e propri oggetti o scenari intensamente surreali; l’effetto di straniamento e di irritazione ricercato dalla poetica teorizzata da Breton[25], viene reso, invece, attraverso oggetti ed ambienti quotidiani e comuni, all’interno dei quali le semplici e riconoscibili cose di ogni giorno creano giochi di rimandi e trasparenze irreali, si trovano in situazioni illusionistiche, quasi allucinatorie, si trasformano in ciò che toccano o che contengono, riflettono l’ambiente in cui sono immersi come dei camaleonti perfetti, mescolano come imprevedibili specchi i caratteri degli spazi in cui si trovano, li ampliano portandoli disegnati addosso, o li rivelano frutto di una bizzarra finzione scoprendone la natura puramente immaginale; Magritte sembra giocare con la rappresentazione iconica mettendola in scena e rivelandone i trucchi illusori e abilmente costruiti, non cerca figure insolite e fantasmatiche per far apparire una realtà trasfigurata e incomprensibile, ma lascia che una simile atmosfera emerga ed emani dai rapporti tra gli oggetti consueti, da un non verosimiglianza che non è contraddizione con la realtà, ma diversa affermazione della stessa, privata di ogni criterio di sicura riconoscibilità e denominazione delle cose[26]. Quest’ultima possibilità è frenata e letteralmente tenuta a bada soprattutto attraverso i titoli scelti per i dipinti.

 

I titoli sono scelti in modo tale da impedire anche di situare i miei quadri in una ragione rassicurante che lo svolgimento automatico del pensiero potrebbe trovar loro allo scopo di sottovalutarne la portata. I titoli devono essere una protezione supplementare, destinata a scoraggiare qualsiasi tentativo di ridurre la vera poesia a un gioco senza conseguenza.[27]

 

All’interno di questo gioco proteiforme che elude ogni contatto usuale tra parole e cose, il testo assume, dunque, una certa importanza. E non solo come titolo (spiazzante) di un’immagine, ma anche come componente grafico-pittorico del dipinto. Magritte, di certo, conosce bene le nuove maniere con cui le avanguardie hanno reso disponibile il testo scritto per l’immagine, dai calligrammi di Apollinaire ai collage cubisti e futuristi. Il testo è, in quest’atmosfera, qualcosa di cui si può sfruttare la qualità grafica per ottenere particolari effetti ricombinatori attraverso i procedimenti della pittura e di quella che comincia ad essere chiamata tecnica mista. Del resto la rapida evoluzione della grafica pubblicitaria e la grande disponibilità di giornali, riviste, cartelloni, fornisce, in quegli anni, tutto il materiale necessario per il gioco visivo della composizione di brandelli di testo, presi dallo smembramento di diverse grafie e diversi formati grafici, in forme inedite e stravaganti di versi poetici. La composizione poetica tramite collage, di cui lo stesso Breton fa spesso uso, mostra un nuovo tipo di confidenza con le parole, un nuovo modo attraverso cui esse entrano nel mondo, che è quello derivato dalla proliferazione industriale della stampa e della grafica. Già pronte per l’uso e improntate a stili diversi, orde di parole si rendono disponibili per il pittore/poeta, che le deve solo estrarle dagli innumerevoli contesti fisici e discorsivi entro i quali esse ricorrono. Ritroviamo qui quel carattere della contemporaneità che Foucault aveva già visto come preventivato nei frutti che l’Età Classica consegnava all’Età Moderna, perché li portasse alla definitiva maturazione del contemporaneo: la morte del soggetto come punto di raccordo tra parole e cose; la continua riproduzione di un linguaggio che parla solo di se stesso.

Confrontato con queste procedure ri-compositive del linguaggio grafico, la primissima versione di Questo non è una pipa di Magritte, potrebbe anche far pensare ad un operazione di collage, derivata magari da qualche scritta pubblicitaria, da un frammento di testo che volendo elogiare un prodotto di raffinata ebanisteria, esordisse proprio con un simile slancio metaforico: «Questo non è una pipa», come slogan di una reclame pubblicitaria finemente calcolata; rubata, dissolta e ricombinata per lo sconvolgimento delle consuetudini linguistiche e visive, caro alla poetica surrealista…

Non possiamo essere sicuri del grado effettivo di semplicità dell’operazione effettuata da Magritte in quello che è forse il suo più celebre lavoro. Di certo sappiamo, però, che le opinioni del pittore belga in merito al rapporto tra similitudine, somiglianza e affermazione erano sottili e ben ponderate, come i suoi scritti e la breve corrispondenza con Foucault ci dimostrano.

Nella seconda parte del saggio dedicato a Magritte il filosofo francese è, dunque, chiamato a risolvere l’enigma di Questa non è una pipa in tale (più ampio e profondo) quadro di riferimento. Quadro entro cui dobbiamo considerare la già citata esperienza avanguardistica di Klee e Kandinskij, come apertura della totale riconfigurazione del rapporto tra i tre termini che abbiamo appena sottolineato, avvenuta, poi, sotto l’egida di un surrealismo che Foucault saprà considerare come cifra simbolica di un’intera epoca (astratta dalle coordinate di un movimento storico preciso) e magistralmente applicata a quei regimi discorsivi che si preparavano alla costruzione di una vera e propria co-realtà popolata da immagini, ormai indipendenti dal legame con qualunque soggetto, o preciso vincolo denotativo. Questa intuizione, che espliciteremo tra poco, è, in definitiva, la risposta alla domanda che abbiamo posto in apertura alla presente ricerca, circa lo statuto e il contributo di un’indagine come quella foucaultiana, alla comprensione teorica dell’attività artistica contemporanea.

Per il momento, nell’avvicinarci al quadro finale, dobbiamo citare un quarto termine che il gioco somiglianza / similitudine / affermazione, tira inevitabilmente in ballo sul piano epistemico: potremmo semplicemente dire che si tratta di un concetto realmente capitale (per la cultura occidentale) come quello di verità; ma sarebbe più corretto specificare, in effetti, che ciò che entra in gioco (e qui la cultura surrealista si fa erede delle letture Nietzschiane[28], sullo sfondo delle quali l’analisi di un attentissimo interprete del filosofo genealogista, come Foucault, può ben penetrarne gli intimi meccanismi) è il concetto di natura metaforica/convenzionale della verità. [29]

 

VI.

Il Nietzsche a cui facciamo riferimento è soprattutto quello della raccolta di testi che porta il titolo: Su verità e menzogna in senso extramorale. [30] Qui i rapporti tra le parole e le cose sono tratteggiati in un modo che Foucault certo non ignorava ed attraverso un metodo particolarmente congeniale allo studioso francese come quello che abbiamo visto essere la genealogia. Inoltre, lo stesso Magritte sembra non essere estraneo agli argomenti qui trattati se arriva a considerare come uno dei capisaldi della sua poetica un’immagine del linguaggio come non-somigliante alle cose e dell’intuizione artistica come unica vera somiglianza con il reale.[31]

Vale la pena soffermarsi brevemente su queste riflessioni Nietschiane, essendo facilmente riscontrabile la loro influenza, non solo sul Foucault de Le parole e le cose, ma finanche su una certa parte del pensiero estetico contemporaneo.[32]

Negli scritti (risalenti al 1871) sul concetto di verità, che abbiamo citato, la natura convenzionale e fittizia della credenza vera è il punto di arrivo di un’incursione genealogica sotto i cui colpi cadono tutti i criteri di verisimiglianza e affidabilità oggettiva non solo del linguaggio e delle immagini da esso generate, ma della stessa formazione fisiologica delle parole e dei concetti. Ravvisando nella «finzione» la cifra dell’attività dell’intelletto umano, in quanto funzione biologica di conservazione della specie, Nietzsche conduce un ragionamento che lo porta ad intendere la verità come strumento, puramente arbitrario, di pacificazione della tendenza al «bellum omnium contra omnes» che minerebbe le fondamenta delle formazioni sociali entro le quali l’uomo non può fare a meno di vivere. La finzione e l’istituzione di garanzie oggettive risulterebbe come l’espediente difensivo di un organismo debole come quello umano che ha bisogno per sopravvivere di «una risoluzione di pace». Tale risoluzione è ottenuta in primissima battuta mediante la «legiferazione del linguaggio», primo tramite fisiologico verso l’istituzione di condizioni di verità condivise[33]. La caratteristica del linguaggio di essere riferito al mondo segnalerebbe la sua capacità denotativa come garanzia di affidabilità epistemica. Attraverso la denotazione linguistica, potremmo dire, si esprime una primissima forma di verità intersoggettivamente condivisa. Ma a questo punto due domande risuonano dal discorso nietzschiano e i loro echi sono quelli che abbiamo ben visto attraverso la prospettiva di Foucault: «le designazioni e le cose si sovrappongono? Il linguaggio è l’espressione adeguata di ogni realtà?»[34]

L’esistenza di innumerevoli lingue diverse segna, per Nietzsche, la prova dell’inaffidabilità delle pretese di verità che in ognuna si esprimono differentemente. E se la parola non può essere ricondotta ad altro che un semplice «stimolo nervoso», il linguaggio in sé sarà inficiato nella sua correttezza denotativa da una doppia metafora: «uno stimolo nervoso anzitutto tradotto in un’immagine! Prima metafora. L’immagine nuovamente riprodotta in un suono! Seconda metafora». L’obiettivo della genealogia nietzschiana sembra, allora, quello di riportare la supposta veridicità dell’espressione linguistica alla sua origine nei gradi più elementari della fisiologia organica umana, ove esso sembra perdere ogni carattere di affidabilità oggettiva.

 

Noi crediamo di sapere qualcosa delle cose stesse, quando parliamo di alberi, colori, neve e fiori e tuttavia non possediamo che metafore delle cose, che non corrispondono per niente alle essenzialità originarie.[35]

 

Il discorso di Nietzsche, dunque, vorrebbe scardinare ogni sicurezza accettata a priori sulla sovrapponibilità di linguaggio e mondo, ricavando per gli stessi componenti elementari della convenzione linguistica (le parole) un’essenza puramente metaforica. I meccanismi più elementari di formazione di un pensiero discorsivo sono qui attaccati dalle fondamenta dallo svelare l’origine metaforica dei concetti stessi. Questi tramandatisi ed evoluti entro le coordinate di un discorso epistemico che li assimilava come aderenti perfettamente alla realtà presente fuori dal pensiero, hanno «obliato» la loro origine puramente metaforica e totalmente individualizzata.[36]

I concetti coi quali siamo abituati ad apprendere il reale non fanno altro (e qui potremmo ravvisare un certo peso della lezione nietzschiana in Magritte) che «uguagliare il non uguale», andando all’infondata ricerca di una «forma originaria» che possa raccogliere entro la sua denotazione la molteplicità dei casi singoli, i quali non sembrano, di per sé, essere passibili di alcuna generalizzazione; se non attraverso quell’atto intellettuale che, prima istituisce un genere astratto (a partire da stimoli fisiologici) e poi lo predica di un certo numero di cose, utilizzando così la definizione astratta del genere come definizione della cosa e l’estensione di tale numero come spiegazione dell’esistenza reale del genere definito.

 

Che cosa è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di umane relazioni che, elevate poeticamente e retoricamente, tradotte, vennero adornate e che, dopo lunga consuetudine parvero ad un popolo fisse, canoniche, vincolanti: le verità | sono illusioni, delle quali si è dimenticato che siano tali, metafore, che sono divenute consuete e sensibilmente prive di forza.[37]

 

Ritengo importante sottolineare, ancora, l’importanza del concetto di metafora per la ricostruzione genealogica della natura dell’affermazione vera. Non solo la verità ci viene proposta come sbiadita immagine di un adattamento fisiologico di un organismo al proprio ambiente, tutt’altro che garante di un solido collegamento tra le parole e le cose, ma gli elementi primi dello stesso pensiero umano (i concetti) sono riportati a formazioni psichiche di tipo prettamente intuitivo e indefinito. I mattoni con i quali si costruisce il linguaggio umano sono frutto di una creazione vaga e sfumata dell’intelletto. La solidità di tali mattoni è data soltanto dal progressivo irrigidimento dell’ampiezza indefinita delle metafore che, a furia di essere usate nei diversi contesti linguistici, perdono la loro forza propulsiva, per così dire, e finiscono per apparire come aderenti ad un certo tipo di oggetti.

Si tratta, qui, di un’importante suggerimento di Nietzsche per una larga parte sia della letteratura estetica (che abbia indagato la natura dell’atto creativo specificamente artistico fino a cercarne un fondamento nell’alveo dell’attività cognitiva umana), sia di quella linguistico-cognitiva (che abbia cercato di ricostruire la potenza e l’efficacia comunicativa dell’espressione metaforica).

La metafora è l’atto creativo per eccellenza (soprattutto in senso artistico) ed è un cardine della riflessione fondativa dell’arte su se stessa, un elemento che per secoli definisce l’attività di un soggetto liberamente creatore. Ancor di più e in modo particolare ciò è vero per il movimento surrealista, che sulla metafora (onirica o sarcastica) poggia le fondamenta della propria poetica.

 

Solo attraverso il fatto che l’uomo oblia sé come soggetto e precisamente come soggetto artisticamente creatore, egli vive in concorde tranquillità, sicurezza e coerenza; […] fra due sfere assolutamente diverse come soggetto e oggetto non vi è nessuna causalità, nessuna giustezza, nessuna espressione, bensì tutt’al più un comportamento estetico. [38]

 

Sembra addirittura che l’atto artistico sia l’unica possibile origine di un senso espressivo per il pensiero umano. Non è difficile legare queste considerazioni al fermo rifiuto di Magritte verso la rigida denotazione linguistica. A partire da queste considerazioni nietzschiane possiamo forse, meglio comprendere l’affermazione di Magritte (sopra citata) secondo la quale la frase «Questo non è una pipa» non contraddice il disegno che mostra una pipa, bensì «afferma in modo diverso». Se infatti, consideriamo il linguaggio come pura costruzione formale e intuitiva di concetti e parole che nulla hanno in comune col mondo a cui sembrerebbero riferirsi, allora risulterà chiaro che non avremo nessuna verità di fondo rispetto alla quale constatare una contraddizione; nessuna regola precisa per la combinazione degli enunciati, che stabilisca condizioni verofunzionali e criteri per assumere certe affermazioni piuttosto che altre. Il linguaggio ridotto a lascito superficiale di una moltitudine di metafore, viene così riportato alla sua originaria vocazione puramente creatrice (e non riproduttrice di una realtà data), entro la quale le funzioni negative o affermative possono solo essere prese come modi diversi di darsi di differenti contenuti espressivi.

Così si esprime Magritte in «Bulletin de la Tendance Populaire Surréaliste» nel 1968:

Il pensiero e il linguaggio sono per me irriducibili alle loro funzioni (supposte dai sociologhi); basti immaginare di essere impegnati dal pensiero e dal linguaggio in una via in cui le scoperte non hanno limiti. Queste scoperte non devono peraltro andare oltre qualcuno o qualcosa, in quanto non si tratta di “fare meglio e di più”, ma “ALTRO e altrove!”. Così il “Non” non ha valore, in quanto va oltre o si oppone. Non posso credere che si tratti di una negazione (…), quando dico e dipingo (…): “Non vedo la donna nascosta”.[39]

 

Queste parole ci possono aiutare a gettare una luce in più sul mistero della pipa di Magritte, specialmente se messe a confronto col retaggio nietzschiano che sembrerebbero evocare e di cui Foucault è certo ben consapevole ogni volta che si tratti di delineare i rapporti tra le parole e le cose. Ma percorrere questo breve itinerario nietzschiano ci è stato utili, credo, anche per ritrovare un modello esemplare di quel metodo di indagine attraverso il genealogista Foucault ricerca le condizioni entro cui sono nate verità, si sono formate scienze, figure discorsive e contesti epistemici.

 

VII.

Riallacciandoci, ora, alle ultime proposte del saggio Questo non è una pipa ed avviandoci a concludere la nostra trattazione, vediamo come per un attimo Foucault rincorra quelle continue scoperte che attraverso la pittura di Magritte si manifestano a scardinare le consuetudini linguistiche e le logiche della rappresentazione.

Dopo una complessa analisi grafica del rapporto tra la pipa dei dipinti di Magritte ed il testo che porta a fianco, Foucault si volge a considerare il pittore belga, a fronte delle esperienze pittoriche di Klee e di Kandinskij, rispetto alle quali Magritte va (figurativamente) in senso contrario, ma a partire da un piano comune che consiste essenzialmente nell’abolizione di due principi secolari della pittura occidentale: la differenza parola/immagine e l’eguaglianza tra somiglianza e affermazione. L’uno caduto sotto i colpi di Klee, l’altro di Kandinskij.

Così la via è libera per Magritte e per i suoi viaggi attraverso le cose visibili, le parole che vorrebbero significare il mondo, le visioni in cui fare incarnare metafore ormai libere di ricoprire come veli sottili e camaleontici ogni oggetto rappresentato.

Così le semplici cose potranno «nel loro mutismo e nel loro sonno, comporre una parola – una parola stabile che nulla potrà cancellare» e la pittura rappresentare «la gravitazione autonoma delle cose che formano le loro parole nell’indifferenza degli uomini, e la impongono ad essi senza che neppure lo sappiano, nella loro chiacchera quotidiana» (Foucault si riferisce qui al quadro intitolato L’arte della conversazione).

Nuovi rapporti si creeranno tra parole e cose, nuovi spazi per le immagini all’interno delle espressioni discorsive, nuove caratteristiche del mondo saranno rese visibili dall’intuizione creatrice del pittore. Parole e immagini sono accomunate dalla stessa sostanza.[40]

Il valore figurativo delle immagini delle cose si libera da ogni vincolo denotativo e lasci il posto libero allo scorrere indistinto delle parole, cosicché «ciò che somiglia esattamente a un uovo si chiama l’acacia, a una scarpa la luna, a una bombetta la neve, a una candela il soffitto».[41]

Il mondo segnato dal circolo della segnatura e della somiglianza per natura entro cui si elaborava il lessico concettuale della Renaissance è ormai estremamente lontano. Ciò che assume il maggiore rilievo nell’esprimere i legami fra parole e cose è adesso la similitudine, l’associazione metaforica, l’intuizione creatrice e ri-formatrice. La somiglianza è riservata (secondo le parole dello stesso Magritte)[42] al solo pensiero astratto, unico tramite che divenga realmente ciò che apprende e che vede, potendo poi esprimere però immagini delle cose che non potranno che trovarsi reciprocamente in innumerevoli rapporti di pura similitudine.

Riassumendo, scrive Foucault:

 

Magritte lega i segni verbali e gli elementi plastici, ma senza fornirsi di un’isotopia preliminare; evita la base di discorso affermativo su cui poggiava tranquillamente la somiglianza; e fa agire similitudini pure ed enunciati verbali non affermativi nell’instabilità di un volume senza riferimento e di uno spazio senza piano. Operazione di cui Questo non è una pipa offre in qualche modo il formulario.[43]

 

Si può ritenere, adesso, che si siano acquisiti gli elementi necessari per rispondere a quella domanda circa l’originalità del contributo foucaultiano alla comprensione dell’attività artistica (specie per l’ambito della teoria dell’arte contemporanea). Tutte le riflessioni foucaultiane sulla pittura, che abbiamo seguito attraverso Bosch, Velásquez, Klee e Magritte, si sono sempre mosse primariamente sulla superficie delle immagini. Non sono state dedicate attenzioni particolari a tecniche, simbologie, precise contestualizzazioni, o altri indizi che esulassero dalla semplice composizione di rapporti di visibilità tra gli elementi rappresentati. È l’ immagine che abbiamo visto come protagonista di questo excursus nella storia della pittura ed è l’ immagine che sembra essere la prima referente delle analisi di Foucault, circa un’opera d’arte. Ecco la sua originalità dunque: Foucault si rivela un teorico dell’immagine ante litteram (cioè prima che la teoria dell’immagine propriamente detta assumesse un suo ruolo di valore nell’ambito della storia e della teoria dell’arte). Il contributo foucaultiano ha il merito di richiamare la nostra attenzione sulle caratteristiche delle opere d’arte che riguardano la sfera del visibile, la rosa dei criteri rappresentazionali entro cui un certo mondo può comparire in certi modi piuttosto che in altri. Egli si pone (in un modo del tutto originale) sulla strada di quella ricerca della storicità del vedere che era già stata oggetto del metodo di indagine di uno studioso come Burckhardt e che viene richiamata negli anni ’90 dal teorico dei Visual Studies, John Mitchell nel tentativo di ricostituire una «iconologia critica» in grado di ereditare il lascito teorico di Warburg e Panofsky, pur senza cadere nella rigidità dell’iconologia classica.[44]

Ma oltre a questo c’è di più. Abbiamo visto come alla progressiva dissoluzione del legame (rappresentato dal soggetto umano) tra le parole e le cose, conseguisse per l’Età Classica e per la modernità la possibilità di svincolo di determinati contenuti epistemici, trasferibili per via astrattiva sulla scala dell’analisi pura, indipendente dai legami ontologici dei suoi soggetti. Così il luogo nel quale ci lascia il percorso foucaultiano attraverso il surrealismo di Magritte, non è altro che un perfetto punto di osservazione dello stato delle immagini nell’età contemporanea. I mirabolanti progressi delle tecniche di produzione e pubblicizzazione industriale della merce configurano, oggi, un mondo in cui nessuna cosa può mantenere a lungo un’immagine fissa di riferimento. I modi di guardare il mondo intorno a noi sono riconfigurati costantemente dalle circonvoluzioni delle ultime frontiere della creazione artistica come la moda e (soprattutto) il design. Ciò che in apparenza sembra una pipa, una bombetta, una candela, potrebbe, in effetti, essere un oggetto d’uso totalmente differente, come un posacenere, un cavatappi, un fermacarte.

Da cui il richiamo (che diviene atualissimo!) all’espressione del dubbio foucaultiano: «chi potrà dirmi seriamente che quell’insieme di tratti intrecciati, sopra il testo, è una pipa?»[45].

Ciò che sembra accadere nell’età contemporanea, entro i confini di quella che è stata definita una civiltà dell’immagine, è la totale liberazione e astraibilità di quei valori figurativi che citavamo prima, nel vederlo liberarsi da ogni vincolo denotativo. Qualunque parola (se inserita nel corretto messaggio e affidata al medium corretto) può andar bene per riferirsi a qualunque cosa. Nessuna cosa può mantenere, come suo aspetto iconico esclusivo, la propria immagine, senza prestarla alla continua rielaborazione rappresentativa che può collegarla a qualunque altra cosa.

Nella Renaissance le cose possedevano un disegno naturale, stabilito per natura e segnato da Dio stesso. Nella contemporaneità il disegno delle cose può essere astratto da esse e ricomposto o ri-assegnato indiscriminatamente, a seconda delle situazioni e delle intenzioni rappresentative di un discorso che per via puramente iconica ri-plasma a suo piacimento l’intero mondo osservabile. Foucault (questo mi sembra il suo più fondamentale contributo alla riflessione sull’attività artistica oggi) ci offre un sistema (un’archeologia) che possa essere davvero esplicativo nei confronti della storia dei nostri modi di vedere, della loro formazione e della loro evoluzione, della genesi strutturale di una dato regime scopico [46]. Può altresì essere considerato come lo scopritore delle più intime dinamiche che avrebbero animato soprattutto gli ultimi decenni dello scorso millennio. Nelle sua analisi ritroviamo una perfetta chiave di lettura di quella che oggi viene chiamata estetizzazione del mondo della vita.

Conclude in tono quasi profetico, l’autore di Questo non è una pipa:

 

Verrà un giorno in cui l’immagine stessa, con il nome che porta sarà disidentificata dalla similitudine indefinitamente trasferia lungo una serie. Campbell, Campbell, Campbell, Campbell.[47]

 

BIBLIOGRAFIA DI LAVORO

 

FOUCAULT M., Les mots et les choses, M. Foucault, 1966, trad. it. Le parole e le cose, E. Panaitescu (a cura di), Bur 2010.

IDEM, Ceci n’est pas une pipe, M. Foucault, 1973, trad. it. Questo non è una pipa, R. Rossi (a cura di), SE, 1988.

IACOMINI M., Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault, Quodlibet, Macerata 2008.


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