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Il pendolo di Foucault 21 страница

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"Ma non siamo più ai tempi di Crowley, intesi?" disse Agliè. "Li lascio ora, ho altri ospiti."

 

Tornammo rapidamente al divano, e attendemmo Agliè con compostezza e disinvoltura.

 


 

L'alta adunque fatica nostra è stata di trovar ordine in queste sette misure, capace, bastante, distinto, et che tenga sempre il senso svegliato et la memoria percossa... Questa alta et incomparabile collocatione fa non solamente officio di conservarci le affidate cose parole et arti... ma ci dà ancora la vera sapientia...

(Giulio Camillo Delminio, L'Idea del Theatro, Firenze, Torrentino, 1550, Introduzione)

 

Dopo pochi minuti Agliè entrava. "Mi scusino, cari amici. Esco da una discussione a dir poco spiacevole. Come l'amico Casaubon sa, mi considero un cultore di storia delle religioni, e questo fa sì che alcuni, e non di rado, ricorrano ai miei lumi, forse più al mio buon senso che alla mia dottrina. É curioso, sanno, come tra gli adepti di studi sapienziali si trovino talora personalità singolari... Non dico i soliti cercatori di consolazioni trascendentali o gli spiriti melanconici, ma anche persone di profondo sapere, e di grande finezza intellettuale, che tuttavia indulgono a fantasticherie notturne e perdono il senso del limite tra verità tradizionale e arcipelago del sorprendente. Le persone con cui avevo convegno dianzi stavano questionando su congetture puerili. Ahimè, come si dice, accade nelle migliori famiglie. Ma mi seguano nel mio studiolo, prego, converseremo in un ambiente più confortevole."

Sollevò la cortina in cuoio, e ci fece passare nell'altra stanza. Studiolo non l'avremmo definita, ampia com'era, e arredata con squisite scaffalature d'antiquariato, ricolme di libri ben rilegati, certamente tutti di venerabile età. Ciò che ci colpì, più che i libri, furono alcune vetrinette ricolme di oggetti incerti, pietre ci parvero, e piccoli animali, non capimmo se impagliati o mummificati o finemente riprodotti. Il tutto come sommerso in una luce diffusa e crepuscolare. Sembrava provenire da una grande bifora di fondo, dalle vetrate piombate a losanghe dalle trasparenze ambrate, ma la luce della bifora si amalgamava con quella di una grande lampada posata su un tavolo di mogano scuro, ricoperto di carte. Era una di quelle lampade che si trovano talora sui tavoli di lettura delle vecchie biblioteche, dalla boccia verde a cupola, capaci di gettare un ovale bianco sulle pagine, lasciando l'ambiente in una penombra di opalescenze. Questo gioco di luci diverse, innaturali entrambe, in qualche modo però ravvivava anziché spegnere la policromia del soffitto.

Era un soffitto a volta, che la finzione decorativa voleva sostenuto ai quattro lati da colonnine rosso mattone con minuti capitelli dorati, ma il trompe-l'oeil delle immagini che lo invadevano, ripartite in sette zone, lo faceva apparire a vela, e tutta la sala assumeva il tono di una cappella mortuaria, impalpabilmente peccaminosa, melanconicamente sensuale.

"Il mio piccolo teatro," disse Agliè, "alla maniera di quelle fantasie rinascimentali dove si disponevano delle enciclopedie visive, sillogi dell'universo. Più che un'abitazione, una macchina per ricordare. Non v'è immagine che voi vediate che, combinandosi dovutamente con altre, non riveli e riassuma un mistero del mondo. Noterete quella teoria di figure, che il pittore ha voluto affini a quelle del palazzo di Mantova: sono i trentasei decani, signori del cielo. E per vezzo, e fedeltà alla tradizione, da che ho trovato questa splendida ricostruzione dovuta a chissà chi, ho voluto che anche i piccoli reperti che corrispondono, nelle teche, alle immagini del soffitto, riassumessero gli elementi fondamentali dell'universo, l'aria, l'acqua, la terra e il fuoco. Il che spiega la presenza di questa graziosa salamandra, per esempio, capolavoro di taxidermia di un caro amico, o questa delicata riproduzione in miniatura, invero un poco tarda, della eolipila di Erone, dove l'aria contenuta nella sfera, se attivassi questo fornellino ad alcole che le fa da conca, riscaldandosi e sfuggendo da questi beccucci laterali, ne provocherebbe la rotazione. Magico strumento, che già usavano i preti egizi nei loro santuari, come ci ripetono tanti testi illustri. L'oro la usavano per fingere un prodigio, e le folle il prodigio veneravano, ma il vero prodigio è nella legge aurea che ne regola la meccanica segreta e semplice, aerea ed elementare, aria e fuoco. E questa è la sapienza, che ebbero i nostri antichi, e gli uomini dell'alchimia, e che han perduto i costruttori di ciclotroni. Così io volgo lo sguardo al mio teatro della memoria, figlio di tanti, più vasti, che affascinarono i grandi spiriti del passato, e so. So, più dei cosiddetti sapienti. So che così com'è in basso, così è in alto. E altro non c'è da sapere."

Ci offrì dei sigari cubani, di forma curiosa, non diritti, ma contorti, arricciati, benché corposi e grassi. Emettemmo alcune esclamazioni di ammirazione e Diotallevi si avvicinò agli scaffali.

"Oh," diceva Agliè, "una bibliotechina minima, come vedete, non più di due centinaia di volumi, ho di meglio nella mia casa di famiglia. Ma modestamente tutti di qualche pregio e rarità, naturalmente non disposti a caso, e l'ordine delle materie verbali segue quello delle immagini e degli oggetti."

Diotallevi accennò timidamente a toccare i volumi. "La prego," disse Agliè, "èl' Oedypus Aegyptiacus di Athanasius Kircher. Loro lo sanno, fu il primo dopo Orapollo che tentasse di interpretare i geroglifici. Uomo affascinante, vorrei che questo mio fosse come il suo museo delle meraviglie, che ora si vuole disperso, perché chi non sa cercare non trova... Conversatore amabilissimo. Come era fiero il giorno che scoprì che questo geroglifico significava `i benefici del divino Osiride siano provvisti da cerimonie sacre e dalla catena dei geni...' Poi venne quel mestatore di Champollion, uomo odiosissimo, mi credano, di una vanità infantile, e insistette nell'affermare che il segno corrispondeva soltanto al nome di un faraone. Che ingenio hanno i moderni nello svilire i simboli sacri. L'opera non è poi così rara: costa meno di una Mercedes. Guardino piuttosto questa, la prima edizione 1595 dell'Amphitheatrum sapientiae aeternae del Khunrath. Si dice che al mondo ve ne siano solo due copie.Questa è la terza. E questa invece è la prima edizione del Telluris Theoria Sacra del Burnetius. Non posso guardarne le tavole di sera senza provare una sensazione di claustrofobia mistica. Le profondità del nostro globo... Insospettate, vero? Vedo che il dottor Diotallevi è affascinato da quei caratteri ebraici del Traicté des Chiffres del Vigenère. Veda allora questo: è la prima edizione della Kabbala denudata di Knorr Christian von Rosenroth. Loro certamente sanno, poi il libro fu tradotto, parzialmente e malamente, e divulgato in inglese all'inizio di questo secolo da quello sciagurato di McGregor Mathers... Conosceranno qualcosa di quella scandalosa conventicola che affascinò tanto gli esteti britannici, la Golden Dawn. Da tal banda di falsificatori di documenti iniziatici non poteva che nascerne una serie di degenerazioni senza fine, dalla Stella Mattutina alle chiese sataniche di Aleister Crowley, che evocava i demoni per ottenere le grazie di alcuni gentiluomini devoti al vice anglais. Sapessero, cari amici, quante persone dubbie, a dir poco, occorre incontrare quando ci si dedica a questi studi, lo vedranno loro stessi se inizieranno a pubblicare in questo campo."

Belbo colse l'occasione fornitagli da Agliè per entrare in argomento. Gli disse che la Garamond desiderava pubblicare pochi libri all'anno di carattere, disse, esoterico.

"Oh, esoterico," sorrise Agliè, e Belbo arrossì.

"Diciamo... ermetico?"

"Oh, ermetico," sorrise Agliè.

"Bene," disse Belbo, "forse uso i termini sbagliati, ma certamente lei capisce il genere."

"Oh," sorrise ancora Agliè, "non c'è un genere. È il sapere. Quello che loro vogliono è pubblicare una rassegna del sapere non degenerato. Forse per loro sarà solo una scelta editoriale, ma se dovrò occuparmene sarà per me una ricerca di verità, una queste du Graal."

Belbo avvertì che, così come il pescatore getta la rete e può raccogliere anche conchiglie vuote e sacchetti di plastica, alla Garamond sarebbero arrivati molti manoscritti di discutibile serietà, e si cercava un lettore severo che sceverasse il grano dal loglio, segnalando anche le scorie curiose, perché c'era una casa editrice amica che avrebbe gradito che le fossero dirottati autori di minore degnità... Naturalmente si trattava di definire anche una forma dignitosa di compenso.

"Grazie al cielo sono quello che si definisce un benestante. Un benestante curioso e persino avveduto. Mi basta, nel corso delle mie esplorazioni, trovare un'altra copia del Khunrath, o un'altra bella salamandra imbalsamata, o un corno di narvalo (che mi vergognerei di tenere in col-lezione, ma che persino il tesoro di Vienna esibisce come corno di unicorno), e guadagno con una breve e piacevole transazione più di quanto mi possa dare lei in dieci anni di consulenza. Vedrò i loro dattiloscritti in spirito di umiltà. Sono convinto che anche nel testo più squallido troverò una scintilla, se non di verità, almeno di bizzarra menzogna, e spesso gli estremi si toccano. Mi annoierò solo sull'ovvietà, e per quella noia mi compenseranno. In base alla noia che avrò provato, mi limiterò a inviare a fine anno una breve notula, che manterrò nei limiti del simbolico. Se la giudicheranno eccessiva, mi invieranno una cassetta di vini pregiati."

Belbo era perplesso. Era abituato a trattare con consulenti queruli e affamati. Aprì la borsa che aveva portato con sé e ne trasse un dattiloscritto voluminoso.

"Non vorrei si facesse idee troppo ottimistiche. Veda per esempio questo, che mi pare tipico della media."

Agliè aprì il dattiloscritto: "La lingua segreta delle Piramidi... Vediamo l'indice... Il Pyramidion... Morte di Lord Carnavon... La testimonianza di Erodoto..." Lo richiuse. "Loro lo hanno letto?"

"Rapidamente io, nei giorni scorsi," disse Belbo.

Gli restituì l'oggetto. "Ecco, mi confermi se il mio riassunto è corretto." Si sedette dietro la scrivania, mise la mano nella tasca del panciotto, ne trasse il portapillole che già avevo visto in Brasile, lo rigirò tra quelle sue dita sottili e affusolate che sino a poco prima avevano accarezzato i suoi libri prediletti, alzò gli occhi verso le decorazioni del soffitto, e mi parve recitare un testo che conosceva da lungo tempo.

"L'autore di questo libro dovrebbe ricordare che il Piazzi Smyth scopre le misure sacre ed esoteriche delle piramidi nel 1864. Mi lascino citare solo per numeri interi, alla mia età la memoria comincia a far difetto... E singolare che la loro base sia un quadrato il cui lato misura 232 metri. In origine l'altezza era di 148 metri. Se traduciamo in cubiti sacri egiziani abbiamo una base di 366 cubiti e cioè il numero dei giorni di un anno bisestile. Per Piazzi Smyth l'altezza moltiplicata per 10 alla nona dà la distanza Terra-Sole: 148 milioni di chilometri. Una buona approssimazione per quei tempi, visto che oggi la distanza calcolata è di 149 milioni e mezzo di chilometri, e non è detto che abbiano ragione i moderni. La base divisa per la larghezza di una delle pietre dà 365. Il perimetro della base è di 931 metri. Si divida per il doppio dell'altezza e si ha 3,14, il numero. Splendido, vero?"

Belbo sorrideva imbarazzato. "Impossibile! Mi dica come fa a..."

"Lascia parlare il dottor Agliè, Jacopo," disse sollecito Díotallevi.

Agliè lo ringraziò con un sorriso educato. Parlava lasciando vagare lo sguardo sul soffitto, ma mi parve che la sua ispezione non fosse né oziosa né casuale. I suoi occhi seguivano una traccia, come se leggessero nelle immagini quello che egli fingeva di riesumare nella memoria.
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Ora, dall'apice alla base, le misure della Grande Piramide, in pollici egizi, sono 161.000.000. Quante anime umane sono vissute sulla terra da Adamo a oggi? Una buona approssimazione sarebbe qualcosa tra 153.000.000 e 171.000.000.

(Piazzi Smyth, Our Inheritance in the Great Pyramid, London, Isbister, 1880, p. 583)

 

"Immagino che il suo autore sostenga che l'altezza della piramide di Cheope è uguale alla radice quadrata del numero dato dalla superficie di ciascuno dei lati. Naturalmente le misure vanno prese in piedi, più vicini al cubito egiziano ed ebraico, e non in metri, perché il metro è una misura astratta inventata nei tempi moderni. Il cubito egiziano in piedi fa 1,728. Se poi non abbiamo le altezze precise possiamo rifarci al pyramidion, che era la piccola piramide posta sull'apice della grande piramide per costituirne la punta. Era d'oro o di altro metallo che lucesse nel sole. Ora prenda l'altezza del pyramidion, la moltiplichi per l'altezza della piramide intera, moltiplichi il tutto per dieci alla quinta e abbiamo la lunghezza della circonferenza equatoriale. Non solo, se prende il perimetro della base e lo moltiplica per ventiquattro alla terza diviso due, ha il raggio medio della terra. In più l'area coperta dalla base della piramide moltiplicata per 96 per dieci all'ottava dà centonovantasei milioni ottocentodiecimila miglia quadrate che corrispondono alla superficie terrestre. É così?"

Belbo amava manifestare stupefazione, di solito, con un'espressione che aveva appreso in cineteca, vedendo l'edizione originale di Yankee Doodle Dandy con James Cagney: "I am flabbergasted!" E così disse. Evidentemente Agliè conosceva bene anche l'inglese colloquiale perché non riuscì a celare la sua soddisfazione senza vergognarsi di questo atto di vanità. "Cari amici," disse, "quando un signore, il cui nome mi è ignoto, concuoce una compilazione sul mistero delle piramidi, non può dire che quello che ormai sanno anche i bambini. Mi sarei stupito se avesse detto qualche cosa di nuovo."

"Quindi," esitò Belbo, "questo signore sta dicendo semplicemente delle verità assodate."

"Verità?" rise Agliè, aprendoci di nuovo la scatola dei suoi sigari rachitici e deliziosi. "Quid est veritas, come diceva un mio conoscente di tanti anni fa. In parte si tratta di un cumulo di sciocchezze. Per cominciare se si divide la base esatta della piramide per il doppio esatto dell'altezza, calcolando anche i decimali, non si ha il numero bensì 3,1417254. Piccola differenza, ma conta. Inoltre un discepolo del Piazzi Smyth, Flinders Petrie, che fu anche il misuratore di Stonehenge, dice di aver sorpreso il maestro che un giorno, per far tornare i conti, limava le sporgenze granitiche dell'anticamera reale... Pettegolezzi, forse, ma il Piazzi Smyth non era uomo da ispirare fiducia, bastava vedere come si annodava la cravatta. Tuttavia fra tante sciocchezze ci sono anche inoppugnabili verità. Signori, vogliono seguirmi alla finestra?"

Spalancò teatralmente i battenti, ci invitò ad affacciarci, e ci mostrò lontano, all'angolo fra la stradetta e i viali, un chioschetto di legno, dove si vendevano presumibilmente i biglietti della lotteria di Merano.

"Signori," disse, "invito loro ad andare a misurare quel chiosco. Vedranno che la lunghezza del ripiano è di 149 centimetri, vale a dire un centomiliardesimo della distanza Terra-Sole. L'altezza posteriore divisa per la larghezza della finestra fa 176/56 = 3,14. L'altezza anteriore è di 19 decimetri e cioè pari al numero di anni del ciclo lunare greco. La somma delle altezze dei due spigoli anteriori e dei due spigoli posteriori fa 190x2+176x2 =732, che è la data della vittoria di Poitiers. Lo spessore del ripiano è di 3,10 centimetri e la larghezza della cornice della finestra di 8,8 centimetri. Sostituendo ai numeri interi la corrispondente lettera alfabetica avremo C10 H8, che è la formula della naftalina."

"Fantastico," dissi, "ha provato?"

"No," disse Agliè. "Lo ha fatto su un altro chiosco un certo Jean-Pierre Adam. Immagino che tutti i chioschi della lotteria abbiano più o meno le stesse dimensioni. Con i numeri si può fare quello che si vuole. Se ho il numero sacro 9 e voglio ottenere 1314, data del rogo di Jacques de Molay – data cara a chi come me si professa devoto alla tradizione cavalleresca templare – come faccio? Lo moltiplico per 146, data fatidica della distruzione di Cartagine. Come sono arrivato al risultato? Ho diviso 1314 per due, per tre, eccetera, sino a che non ho trovato una data soddisfacente. Avrei anche potuto dividere 1314 per 6,28, il doppio di 3,14, e avrei avuto 209. Ebbene, è l'anno dell'ascesa al trono di Attalo I re di Pergamo. Soddisfatti?"

"Quindi lei non crede alle numerologie di nessun tipo," disse deluso Diotallevi.

"Io? Ci credo fermamente, credo che l'universo sia un concerto mirabile di corrispondenze numeriche e che la lettura del numero, e la sua interpretazione simbolica, siano una via di conoscenza privilegiata. Ma se il mondo, infero e sùpero, è un sistema di corrispondenze dove tout se tient, è naturale che il chiosco e la piramide, entrambi opera umana, inconsciamente abbiano riprodotto nella loro struttura le armonie del cosmo. Questi cosiddetti piramidologi scoprono con mezzi incredibilmente complicati una verità lineare, e ben più antica, e già saputa. É la logica della ricerca e della scoperta che è perversa, perché è la logica della scienza. La logica della sapienza non ha bisogno di scoperte, perché già sa. Perché si deve dimostrare ciò che non potrebbe essere altrimenti? Se c'è un segreto, è ben più profondo. Questi vostri autori rimangono semplicemente in superficie. Immagino che costui riporti anche tutte le fole sugli egizi che conoscevano l'elettricità..."

"Non le chiedo più come ha fatto a indovinare."

"Vede? Si accontentano dell'elettricità, come un qualsiasi ingegner Marconi. Sarebbe meno puerile l'ipotesi della radioattività. È un'interessante congettura che, a differenza dell'ipotesi elettrica, spiegherebbe la conclamata maledizione di Tutankhamon. Come hanno fatto gli egizi a sollevare i massi delle piramidi? Si sollevano i macigni con scosse elettriche, si fanno volare con la fissione nucleare? Gli egizi avevano trovato il modo di eliminare la forza di gravità, e possedevano il segreto della levitazione. Un'altra forma di energia... Si sa che i sacerdoti caldei aziona-vano macchine sacre mediante puri suoni, e che i preti di Karnak e di Tebe potevano far spalancare le porte di un tempio col suono della loro voce – e a che altro si riferisce, riflettano, la leggenda di Sesamo apriti?"

"E allora?" chiese Belbo.

"Qui la voglio, amico mio. Elettricità, radioattività, energia atomica, il vero iniziato sa che sono metafore, coperture superficiali, menzogne convenzionali, al massimo pietosi succedanei di qualche forza più ancestrale, e dimenticata, che l'iniziato cerca, e un giorno conoscerà. Dovremmo parlare, forse," ed esitò un istante, "delle correnti telluriche."

"Che cosa?" domandò non so più chi di noi tre.

Agliè parve deluso: "Vedono? Già speravo che tra i loro postulanti fosse apparso qualcuno che poteva dirmi qualche cosa di più interessante. Mi accorgo che si è fatto tardi. Bene, amici miei, il patto è fatto, e il resto erano divagazioni da vecchio studioso."

 

Mentre ci tendeva la mano, entrò íl cameriere e gli sussurrò qualche cosa all'orecchio. "Oh, la cara amica," disse Agliè, "mi ero scordato. La faccia attendere un minuto... no, non nel salotto, nel salottino turco."

La cara amica doveva aver familiarità con la casa, perché era ormai già sulla soglia dello studiolo, e senza neppure guardarci, nella penombra del giorno ormai alla fine, si dirigeva sicura verso Agliè, gli accarezzava il viso con civetteria e gli diceva: "Simone, non mi farai fare anticamera!" Era Lorenza Pellegrini.

Agliè si scostò lievemente, le baciò la mano, e le disse, indicandoci: "Mia cara, mia dolce Sophia, lei sa di essere di casa in ogni casa che lei illumina. Ma stavo congedando questi ospiti."

Lorenza si accorse di noi e fece un gioioso cenno di saluto – né mi ricordo di averla mai vista sorpresa o imbarazzata di alcunché. "Oh che bello," disse, "anche voi conoscete il mio amico! Jacopo, come stai." (Non chiese come stava, lo disse.)

Vidi Belbo impallidire. Salutammo, Agliè si disse lieto di questa conoscenza comune. "Giudico la nostra comune amica una delle creature più genuine che mai abbia avuto la ventura di conoscere. Nella sua freschezza incarna, consentitemi questa fantasia di vecchio sapiente, la Sophia esiliata su questa terra. Ma mia dolce Sophia, non ho fatto in tempo ad avvertirla, la serata promessa è stata rimandata di alcune settimane. Sono desolato."

"Non importa," disse Lorenza, "aspetterò. Andate al bar voi?" ci chiese, ovvero ci comandò. "Bene, io sto qui una mezz'oretta, voglio che Simone mi dia uno dei suoi elisir, dovreste provarli, ma dice che solo solo per gli eletti. Poi vi raggiungo."

Agliè sorrise col tono di uno zio indulgente, la fece accomodare, ci accompagnò verso l'uscita.

 

Ci ritrovammo in strada e ci avviammo verso Pilade, con la mia macchina. Belbo era muto. Non parlammo per tutto il tragitto. Ma al banco del bar occorreva rompere l'incanto.

"Non vorrei avervi portato nelle mani di un pazzo," dissi.

"No," disse Belbo. "L'uomo è acuto, e sottile. Solo che vive in un mondo diverso dal nostro." Poi aggiunse, tetro: "O quasi."

 


La Traditio Templi postul di per sè la tradizione di una cavalleria templare, cavalleria spirituale ed inizitica...

(Henri Corbin, Tempie et contemplation, Paris, Flammarion, 1980)

 

"Credo di aver capito il suo Agliè, Casaubon," disse Diotallevi, che da Pilade aveva chiesto un bianco frizzante, mentre tutti noi temevamo per la sua salute spirituale. "È un curioso delle scienze segrete, che diffida degli orecchianti e dei dilettanti. Ma, come abbiamo indebitamente orecchiato oggi, disprezzandoli li ascolta, li critica, e non se ne dissocia."

"Oggi il signor, il conte, il margravio Agliè o cosa sia mai, ha pronunziato un'espressione chiave," disse Belbo. "Cavalleria spirituale. Li disprezza ma si sente unito a loro da un legame di cavalleria spirituale. Credo di capirlo."

"In che senso?" chiedemmo.

Belbo era ormai al terzo gin martini (whisky di sera, sosteneva, perché calma e induce alla rêverie, gin martini nel tardo pomeriggio perché eccita e rinsalda). Iniziò a raccontare della sua infanzia a ***, come già aveva fatto una volta con me.

"Eravamo tra il 1943 e il 1945, voglio dire nel periodo di passaggio dal fascismo alla democrazia, poi di nuovo alla dittatura della repubblica di Salò, ma con la guerra partigiana sulle montagne. Io avevo all'inizio di questa storia undici anni, e vivevo a casa di zio Carlo. Noi abitavamo in città, ma nel 1943si erano infittiti i bombardamenti e mia madre aveva deciso che dovevamo sfollare, come si diceva allora. A *** abitavano zio Carlo e zia Caterina. Zio Carlo veniva da una famiglia di coltivatori, e aveva ereditato la casa di ***, con delle terre, date in mezzadria a tale Adelino Canepa. Il mezzadro lavorava, mieteva il grano, faceva il vino, e versava la metà dei proventi al proprietario. Situazione di tensione, ovvio: il mezzadro si considerava sfruttato, e altrettanto il proprietario perché percepiva solo la metà dei redditi delle sue terre. I proprietari odiavano i mezzadri e i mezzadri odiavano i proprietari. Ma convivevano, nel caso di zio Carlo. Zio Carlo nel '14 si era arruolato volontario negli alpini. Rude tempra di piemontese, tutto dovere e patria, era diventato prima tenente e poi capitano. Breve, in una battaglia sul Carso, si era trovato vicino a un soldato idiota che si era fatto scoppiare una bomba tra le mani – altrimenti perché le avrebbero chiamate bombe a mano? Insomma, stava per essere gettato nella fossa comune quando un infermiere si era accorto che era ancora vivo. Lo portarono in un ospedale da campo, gli tolsero un occhio, che ormai penzolava fuori dall'orbita, gli tagliarono un braccio, e a detta di zia Caterina gli inserirono anche una placca di metallo sotto il cuoio capelluto, perché aveva perduto un pezzo di scatola cranica. Insomma, un capolavoro di chirurgia, da un lato, e un eroe, dall'altro. Medaglia d'argento, croce di cavaliere della corona d'Italia, e dopo la guerra un posto sicuro nella pubblica amministrazione. Zio Carlo finì direttore delle imposte a ***, dove aveva ereditato la proprietà dei suoi, ed era andato ad abitare nella casa avita, accanto ad Adelino Canepa e alla sua famiglia."

Zio Carlo, come direttore delle imposte, era un notabile locale. E come mutilato di guerra e cavaliere della corona d'Italia, non poteva che simpatizzare col governo in carica, che si dava il caso fosse la dittatura fascista. Era fascista zio Carlo?

"Nella misura in cui, come si diceva nel sessantotto, il fascismo aveva rivalutato gli ex combattenti e li gratificava con decorazioni e avanzamenti di carriera, diciamo che zio Carlo era moderatamente fascista. Abbastanza per farsi odiare da Adelino Canepa, che invece era antifascista, per ragioni molto chiare. Doveva recarsi da lui ogni anno per concordare la sua dichiarazione dei redditi. Arrivava in ufficio con aria complice e baldanzosa, dopo aver tentato di sedurre zia Caterina con qualche dozzina d'uova. E si trovava di fronte a zio Carlo, che non solo come eroe era incorruttibile, ma che conosceva meglio di chiunque altro quanto il Canepa gli avesse rubato nel corso dell'anno, e non gli perdonava un centesimo. Adelino Canepa si giudicò vittima della dittatura, e iniziò a diffondere voci calunniose su zio Carlo. Abitavano l'uno al piano nobile e l'altro al pianterreno, si incontravano mattino e sera, ma non si salutavano più. I contatti li teneva zia Caterina, e dopo il nostro arrivo mia madre – a cui Adelino Canepa esprimeva tutta la sua simpatia e comprensione per il fatto che fosse cognata di un mostro. Lo zio rientrava, tutte le sere alle sei, col suo consueto doppiopetto grigio, la lobbia e una copia della Stampa ancora da leggere. Camminava diritto, da alpino, con gli occhi grigi che fissavano la vetta da conquistare. Passava davanti ad Adelino Canepa che a quell'ora prendeva il fresco su una panchina del giardino, ed era come se non l'avesse visto. Poi incrociava la signora Canepa sulla porta a pianterreno, e si toglieva cerimoniosamente il cappello. Così tutte le sere, anno dopo anno."

Erano le otto, Lorenza non tornava come aveva promesso, Belbo era al quinto gin martini.

"Venne íl 1943. Una mattina zio Carlo entrò da noi, mi svegliò con un gran bacio e disse ragazzo mio vuoi sapere la notizia più grossa dell'anno? Hanno fatto fuori Mussolini. Non capii mai se zio Carlo ne soffrisse. Era un cittadino integerrimo e un servitore dello stato. Se soffrì non ne parlò, e continuò a dirigere le imposte per il governo Badoglio. Poi venne l'otto settembre, la zona in cui vivevamo cadde sotto il controllo della Repubblica Sociale, e zio Carlo si adeguò. Riscosse i tributi per la Repubblica Sociale. Adelino Canepa vantava intanto i suoi contatti con le prime formazioni partigiane, là sui monti, e prometteva esemplari vendette. Noi ragazzi non sapevamo ancora chi fossero i partigiani. Se ne favoleggiava, ma nessuno li aveva ancora visti. Si parlava di un capo dei badogliani, certo Terzi (un soprannome, naturalmente, come accadeva allora, e molti dicevano che l'aveva preso da quel Terzi dei fumetti, l'amico di Dick Fulmine), ex maresciallo dei carabinieri, che nei primi combattimenti contro i fascisti e le SS aveva perso una gamba, e comandava tutte le brigate sulle colline intorno a ***. E avvenne il fattaccio. Un giorno i partigiani si mostrarono in paese. Erano scesi dalle colline e scorrazzavano per le strade, ancora senza uniformi definite, con fazzoletti azzurri, sparando raffiche di mitra verso il cielo, per dire che erano lì. La notizia circolò, tutti si chiusero in casa, non si sapeva ancora che razza di gente fossero. Zia Caterina espresse alcune blande preoccupazioni, in fondo si dicevano amici di Adelino Canepa, o almeno Adelino Canepa si diceva amico loro, avrebbero mica fatto qualcosa contro lo zio? Lo fecero. Fummo informati che verso le undici una schiera di partigiani coi mitra spianati erano entrati nell'ufficio imposte e avevano arrestato lo zio, portandolo verso destinazione ignota. Zia Caterina si sdraiò sul letto, incominciò a secernere una spuma biancastra dalle labbra e dichiarò che zio Carlo sarebbe stato ucciso. Bastava un colpo col calcio del moschetto, e per via della placca sottocutanea sarebbe morto sul colpo. Attirato dalle grida della zia arrivò Adelino Canepa con la moglie e i figli. La zia gli urlò che era un giuda, che era lui che aveva denunciato lo zio ai partigiani perché riscuoteva i tributi per la Repubblica Sociale, Adelino Canepa giurò su quanto aveva di più sacro che non era vero, ma si vedeva che si sentiva responsabile, perché aveva parlato troppo in giro. La zia lo cacciò. Adelino Canepa pianse, si appellò a mia madre, ricordò tutte le volte che aveva ceduto un coniglio o un pollo per una cifra irrisoria, mia madre si chiuse in un dignitoso silenzio, zia Caterina continuò a emettere spuma biancastra. Io piangevo. Finalmente, dopo due ore di calvario, udimmo delle grida, e zio Carlo apparve in bicicletta, che conduceva con un solo braccio, e sembrava tornasse da una passeggiata. Vide subito del trambusto in giardino ed ebbe la faccia tosta di domandare che cosa era successo. Odiava i drammi, come tutta la gente delle nostre parti. Salì, si avvicinò al letto di dolore di zia Caterina che ancora scalciava con le gambe smagrite, e le chiese perché era così agitata."


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 33 | Нарушение авторских прав



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