Студопедия
Случайная страница | ТОМ-1 | ТОМ-2 | ТОМ-3
АрхитектураБиологияГеографияДругоеИностранные языки
ИнформатикаИсторияКультураЛитератураМатематика
МедицинаМеханикаОбразованиеОхрана трудаПедагогика
ПолитикаПравоПрограммированиеПсихологияРелигия
СоциологияСпортСтроительствоФизикаФилософия
ФинансыХимияЭкологияЭкономикаЭлектроника

Il pendolo di Foucault 16 страница

Читайте также:
  1. 1 страница
  2. 1 страница
  3. 1 страница
  4. 1 страница
  5. 1 страница
  6. 1 страница
  7. 1 страница

Gli eletti compivano frattanto il loro salto nel vuoto, lo sguardo diventava atono, le membra si irrigidivano, i movimenti si facevano vieppiù automatici, ma non casuali, perché rivelavano la natura dell'entità che li visitava: morbidi alcuni, con le mani che si muovevano di lato a palme abbassate, come nuotando, altri curvi e con movimenti lenti, e i cambonos ricoprivano di un bianco lino, per sottrarli alla visione della folla, quelli toccati da uno spirito eccellente...

Certi cavalos scuotevano violentemente il corpo e quelli invasati da pretos velhos emettevano suoni sordi — hum hum hum — muovendosi col corpo inclinato in avanti, come un vecchio che si appoggi a un bastone, sporgendo la mascella, assumendo fisionomie smagrite e sdentate. Gli impossessati dai caboclos emettevano invece grida stridenti di guerrieri - hiahou!! — e i cambonos si affannavano a sostenere chi non reggesse la violenza del dono.

I tamburi battevano, i pontos si elevavano nell'aria spessa di fumi. Tenevo Amparo sottobraccio e a un tratto sentii le sue mani che traspiravano, il suo corpo che tremava, le labbra semiaperte. "Non mi sento bene," disse, "vorrei uscire."

Agliè si accorse dell'incidente e mi aiutò ad accompagnarla fuori. Nell'aria della sera si riebbe. "Non è nulla," disse, "debbo aver mangiato qualcosa. E poi quei profumi, e il caldo..."

"No," disse il pai-de-santo che ci aveva seguiti, "è che lei ha qualità medianiche, ha reagito bene ai pontos, io la osservavo.»

"Basta!" gridò Amparo, ed aggiunse qualche parola in una lingua che non conoscevo. Vidi il pai-de-santo impallidire, o ingrigire, come si diceva nei romanzi di avventure che impallidissero gli uomini di pelle nera.

"Basta, ho nausea, ho mangiato qualcosa che non dovevo... Per piacere, lasciatemi qui a prendere una boccata d'aria, rientrate. Preferisco star sola, non sono un'invalida."

L'accontentammo, ma come rientrai, dopo l'interruzione all'aperto, i profumi, i tamburi, il sudore ormai invadente che impregnava ogni. corpo, e l'aria stessa viziata, agirono come un sorso di alcool su chi riprende a bere dopo una lunga astinenza. Mi passai una mano sulla fronte, e un vecchio mi offri un agogò, un piccolo strumento dorato, una sorta di triangolo con delle campanelle, su cui si batteva con una sbarretta. "Salga sul palco," disse, "suoni, le farà bene."

C'era sapienza omeopatica in quel consiglio. Battevo sull'agogó, cercando di adeguarmi al ritmo dei tamburi, e via via entravo a far parte dell'evento, partecipandovi lo dominavo, sfogavo la tensione coi movimenti delle gambe e dei piedi, mi liberavo da ciò che mi circondava provocandolo e incoraggiandolo. Più tardi Agliè mi avrebbe parlato della differenza tra chi conosce e chi patisce.

A mano a mano che i medium raggiungevano la trance i cambonos li conducevano ai bordi del locale, li facevano sedere, gli offrivano sigari e pipe. I fedeli esclusi dal possesso correvano. a inginocchiarsi ai loro piedi, gli parlavano all'orecchio, ne ascoltavano il consiglio, ne ricevevano l'influsso benefico, si effondevano in confessioni, ne traevano sollievo. Alcuni accennavano a un inizio di trance, che i cambonos incoraggiavano con moderazione, riconducendoli poi tra la folla, ormai più distesi.

Nell'area dei danzatori si muovevano ancora molti candidati all'estasi. La tedesca innaturalmente si agitava attendendo di essere agitata, ma in-vano. Alcuni erano stati presi dall'Exu ed esibivano un'espressione malvagia, subdola, astuta, procedendo a scatti disarticolati.

 

Fu a quel punto che vidi Amparo.

 

Ora so che Hesed non è solo la sefirah della grazia e dell'amore. Come ricordava Diotallevi, e anche il momento dell'espansione della sostanza divina che si diffonde verso la sua infinita periferia. E cura dei vivi verso i morti, ma qualcuno deve aver pur detto che è anche cura dei morti verso i vivi.

Io, battendo l'agogõ, non stavo più seguendo quanto andava svolgendosi nella sala, impegnato com'ero ad articolare il mio controllo e a farmi guidare dalla musica. Amparo doveva essere rientrata da una decina di minuti, e certamente aveva provato lo stesso effetto che io avevo provato prima. Ma nessuno le aveva dato un agogõ, e forse non lo avrebbe più voluto. Chiamata da voci profonde, si era spogliata di ogni volontà di difesa.

La vidi buttarsi di colpo in mezzo alla danza, arrestarsi con il viso anormalmente teso verso l'alto, il collo quasi rigido, poi abbandonarsi smemorata a una sarabanda lasciva, con le mani che accennavano all'offerta del proprio corpo. "A Pomba Gira, a Pomba Gira!" gridarono alcuni lieti delmiracolo, perché quella sera la diavolessa non si era ancora manifestata: O seu manto é de veludo, rebordado todo em ouro, o seu gallo é de prata, muito grande è seu tesouro... Pomba Gira das Almas, vem torna cho cho...

 

Non osai intervenire. Forse accelerai i battiti della mia verga di metallo per unirmi carnalmente alla mia donna, o allo spirito ctonio che essa incarnava.

I cambonos si presero cura di lei, le fecero indossare la veste rituale, la sostennero mentre dava termine alla sua trance, breve ma intensa. La accompagnarono a sedere quando ormai era madida di sudore e respirava con affanno. Rifiutò di accogliere chi accorreva a mendicare oracoli, e si mise a piangere.

La gira volgeva al termine, abbandonai il palco e corsi da lei, che aveva già accanto Agliè, il quale le massaggiava lievemente le tempie.

"Che vergogna," diceva Amparo, "io non ci credo, io non volevo, ma come ho potuto?"

"Succede, succede," le diceva Agliè con dolcezza.

"Ma allora non c'è redenzione," piangeva Amparo, "sono ancora una schiava. Vai via tu," mi disse con rabbia, "sono una sporca povera negra, datemi un padrone, me lo merito!"

"Succedeva anche ai biondi achei," la confortava Agliè. "È la natura umana..."

Amparo chiese di essere condotta alla toeletta. Il rito si stava concludendo. Sola in mezzo alla sala la tedesca danzava ancora, dopo aver seguito con sguardo invidioso la vicenda di Amparo. Ma si muoveva ormai con ostinazione svogliata.

Amparo tornò dopo una decina di minuti, mentre noi già ci accomiatavamo dal pai-de-santo, che si rallegrava per la splendida riuscita del nostro primo contatto col mondo dei morti.

 

Agliè guidò in silenzio nella notte ormai alta, e accennò a salutarci quando si arrestò sotto casa nostra. Amparo disse che preferiva salire da sola. "Perché non vai a fare due passi," mi disse, "torna quando sono già addormentata. Prenderò una pastiglia. Scusatemi tutti e due. L'ho detto, debbo aver mangiato qualcosa di cattivo. Tutte quelle ragazze avevano mangiato e bevuto qualcosa di cattivo. Odio il mio paese. Buona notte."

Agliè comprese il mio disagio e mi propose di andare a sederci in un bar di Copacabana, aperto tutta la notte.

Io tacevo. Agliè attese che iniziassi a sorseggiare la mia batida, poi ruppe il silenzio, e l'imbarazzo.

"La razza, o la cultura, se vuole, costituiscono parte del nostro inconscio. E un'altra parte è abitata da figure archetipe, uguali per tutti gli uomini e per tutti i secoli. Questa sera il clima, l'ambiente, hanno allentato la vigilanza di tutti noi, lei lo ha provato su se stesso. Amparo ha scoperto che gli orixàs, che credeva di aver distrutto nel suo cuore, abitavano ancora nel suo ventre. Non creda che lo giudichi un fatto positivo. Lei mi ha sentito parlare con rispetto di queste energie soprannaturali che vibrano intorno a noi in questo paese. Ma non creda che veda con particolare simpatia le pratiche di possessione. Non è la stessa cosa essere un iniziato ed essere un mistico. L'iniziazione, la comprensione intuitiva dei misteri che la ragione non può spiegare, è un processo abissale, una lenta trasformazione dello spirito e del corpo, che può portare all'esercizio di qualità superiori e persino alla conquista dell'immortalità, ma è qualcosa di intimo, di segreto. Non si manifesta all'esterno, è pudica, e soprattutto è fatta di lucidità e di distacco. Per questo i Signori del Mondo sono iniziati, ma non indulgono alla mistica. Il mistico è per essi uno schiavo, il luogo di una manifestazione del numinoso, attraverso il quale si spiano i sintomi di un segreto. L'iniziato incoraggia il mistico, se ne serve come lei si serve d un telefono, per stabilire contatti a distanza, come il chimico si serve della cartina di tornasole, per sapere che in qualche luogo agisce una sostanza. Il mistico è utile, perché è teatrale, si esibisce. Gli iniziati invece si riconoscono solo tra di loro. L'iniziato controlla le forze che il mistico patisce. In questo senso non c'è differenza tra la possessione dei cavalos e le estasi di santa Teresa de Avila o disan Juan de la Cruz. Il misticismo è una forma degradata di contatto col divino. L'iniziazione é frutto di lunga ascesi della mente e del cuore. Il misticismo è un fenomeno democratico, se non demagogico, l'iniziazione è aristocratica."

"Un fatto mentale e non carnale?"

"In un certo senso. La sua Amparo sorvegliava ferocemente la sua mente e non si guardava dal proprio corpo. Il laico è più debole di noi."

 

Era molto tardi. Agliè mi rivelò che stava lasciando il Brasile. Mi lasciò il suo indirizzo di Milano.

Rientrai a casa e trovai Amparo che dormiva. Mi sdraiai in silenzio ac-canto a lei, al buio, e passai la notte insonne. Mi sembrava di avere al mio fianco un essere sconosciuto.

 

Il mattino dopo Amparo mi disse, secca, che andava a Petropolis a visitare un'amica. Ci salutammo con imbarazzo.

Partì, con una borsa di tela, e un volume di economia politica sotto il braccio.

Per due mesi non dette notizie, e io non la cercai. Poi mi scrisse una breve lettera, molto evasiva. Mi diceva che aveva bisogno di un periodo di riflessione. Non le risposi.

 

Non provai passione, gelosia, nostalgia. Mi sentivo vuoto, lucido, pulito e limpido come una pentola d'alluminio.

Stetti ancora un anno in Brasile, ma sentendomi ormai sul piede di partenza. Non vidi più Agliè, non vidi più gli amici di Amparo, passavo ore lunghissime sulla spiaggia a prendere il sole.

Facevo volare gli aquiloni, che laggiù sono bellissimi.

5
GEBURAH

Beydelus, Demeymes, Adulex, Metucgayn, Atine, Ffex, Uquizuz, Gadix, Sol, Veni cito cum tuis spiritibus.

(Picatrix, Ms. Sloane 1305, 152, verso)

 

La Rottura dei Vasi. Diotallevi ci avrebbe parlato sovente del tardo cabalismo di Isaac Luria, in cui si perdeva l'ordinata articolazione dei sefirot. La creazione, diceva, è un processo di inspirazione ed espirazione divina, come un alito ansioso, o l'azione di un mantice.

"La Grande Asma di Dio," chiosava Belbo.

"Provati tu a creare dal nulla. È una cosa che si fa una volta sola nella vita. Dio, per soffiare il mondo come si soffia un'ampolla di vetro, ha bisogno di contrarsi in se stesso, per prendere fiato, e poi emette il lungo sibilo luminoso dei dieci sefirot."

"Sibilo o luce?"

"Dio soffia e la luce fu."

"Multimedia."

"Ma è necessario che le luci dei sefirot siano raccolte in recipienti capaci di resistere al loro splendore. I vasi destinati ad accogliere Keter, Hokmah e Binah resistettero al loro fulgore, mentre con i sefirot inferiori, da Hesed sino a Jesod, luce e sospiro si emanarono in un solo colpo e con troppo vigore, e i vasi si spezzarono. I frammenti della luce si dispersero per l’universo, e ne nacque la materia grossolana."

La rottura dei vasi è una catastrofe seria, diceva Diotallevi preoccupato, niente è meno vivibile di un mondo abortito. Doveva esserci un difetto nel cosmo sin dalle origini, e i rabbini più sapienti non erano riusciti a spiegarlo del tutto. Forse nel momento in cui Dio espira e si svuota, nel recipiente originario rimangono delle gocce d'olio, un residuo materiale, il reshimu, e Dio già si effonde insieme a questo residuo. Oppure da qualche parte le conchiglie, i qelippot, iprincipi della rovina attendevano sornioni in agguato.

"Gente viscida i qelippot," diceva Belbo, "agenti del diabolico dottor Fu Manchù... E poi?"

E poi, spiegava paziente Diotallevi, alla luce del Giudizio Severo, di Geburah, detta anche Pachad, o Terrore, la sefirah dove secondo Isacco il Cieco il Male si esibisce, le conchiglie prendono un'esistenza reale.

"Esse sono tra noi," diceva Belbo.

"Guardati intorno," diceva Diotallevi.

"Ma se ne esce?"

"Si rientra, piuttosto," diceva Diotallevi. "Tutto emana da Dio, nella contrazione del simsum. Il nostro problema è realizzare il tiqqun, il ritorno, la reintegrazione dell'Adam Qadmon. Allora ricostruiremo il tutto nell'equilibrata struttura dei parsufim, i volti, ovvero le forme che prenderanno il posto dei sefirot. L'ascensione dell'anima è come un cordone di seta che permette all'intenzione devota di trovare come a tastoni, nell'oscurità, il cammino verso la luce. Così a ogni istante il mondo, combinando le lettere della Torah, si sforza di ritrovare la forma naturale che lo faccia uscire dalla sua orrenda confusione."

E così sto facendo io, ora, a notte piena, nella calma innaturale di queste colline. Ma l'altra sera nel periscopio mi trovavo ancora avvolto dalla bava vischiosa delle conchiglie, che avvertivo intorno a me, impercettibili lumache incrostate nelle vasche di cristallo del Conservatoire, confuse tra barometri e ruote rugginose di orologi in sorda ibernazione. Pensavo che, se rottura dei vasi ci fu, la prima crepa si formò forse quella sera a Rio durante il rito, ma fu al mio ritorno in patria che avvenne l'esplosione. Lenta, senza fragore, così che ci trovammo tutti presi nella, melma della materia grossolana, dove creature verminose si schiudono per generazione spontanea.

 

Ero tornato dal Brasile senza più sapere chi fossi. Stavo ormai avvicinandomi alla trentina. A quell'età mio padre era padre, sapeva chi era e dove viveva.

Ero restato troppo distante dal mio paese, mentre avvenivano grandi fatti, ed ero vissuto in un universo gonfio di incredibile, dove anche le vicende italiane pervenivano alonate di leggenda. Poco prima di lasciare l'altro emisfero, mentre concludevo il mio soggiorno offrendomi un viaggio aereo sopra le foreste dell'Amazzonia, mi capitò tra le mani un quotidiano locale, imbarcato durante una sosta a Fortaleza. In prima pagina campeggiava la foto di qualcuno che riconobbi, perché l'avevo visto sorseggiare bianchini per anni da Pilade. La didascalia diceva: "O homem que matou Moro."

Naturalmente, come seppi al ritorno, Moro non l'aveva ammazzato lui. Lui, di fronte a una pistola carica si sarebbe sparato nell'orecchio per controllare se funzionava. Era solo presente mentre la Digos faceva irruzione in un appartamento dove qualcuno aveva nascosto sotto il letto tre pistole e due pacchetti di esplosivo. Lui al letto ci stava sopra, estatico, perché era l'unico mobile di quel monolocale che un gruppo di reduci del sessantotto affittava in società, per soddisfare i bisogni della carne. Se non fosse stato unicamente arredato con un manifesto degli Inti Illimani, si sarebbe potuto chiamarlo una garconnière. Uno degli affittuari era legato a un gruppo armato, e gli altri non sapevano di finanziargli il covo. Così erano finiti tutti dentro, per un anno.

Dell'Italia degli ultimi anni avevo capito molto poco. L'avevo lasciata sull'orlo di grandi mutamenti, quasi sentendomi in colpa perché fuggivo nel momento della resa dei conti. Ero partito che sapevo riconoscere l'ideologia di qualcuno dal tono di voce, dal giro delle frasi, dalle citazioni canoniche. Tornavo, e non capivo più chi stesse con chi. Non si parlava più di rivoluzione, si citava il Desiderio, chi si diceva di sinistra menzionava Nietzsche e Céline, le riviste di destra celebravano la rivoluzione del Terzo Mondo.

Tornai da Pilade, ma mi sentii in terra straniera. Rimaneva il bigliardo, c'erano più o meno gli stessi pittori, ma era cambiata la fauna giovanile. Appresi che alcuni dei vecchi avventori avevano ormai aperto scuole di meditazione trascendentale e ristoranti macrobiotici. Chiesi se qualcuno aveva già aperto una tenda de umbanda. No, forse ero in anticipo, avevo acquisito delle competenze inedite.

Per compiacere il nucleo storico, Pilade ospitava ancora un flipper vecchio modello, di quelli che ormai sembravano copiati da Lichtenstein ed erano stati acquistati in massa dagli antiquari. Ma accanto, affollate dai più giovani, si allineavano altre macchine con lo schermo fluorescente, dove planavano a schiera poiane bullonate, kamikaze dello Spazio Esterno, o una rana saltava di palo in frasca emettendo borborigmi in giapponese. Pilade era ormai un lampeggiare di luci sinistre, e forse davanti allo schermo di Galactica erano passati anche i corrieri delle Brigate Rosse in missione di arruolamento. Ma certamente avevano dovuto abbandonare il flipper perché non si può giocarvi tenendo una pistola nella cintola.

Me ne resi conto quando seguii lo sguardo di Belbo che si fissava su Lorenza Pellegrini. Capii in modo impreciso quello che Belbo aveva capito con maggiore lucidità, e che ho trovato in uno dei suoi files. Lorenza non viene nominata, ma è ovvio che si trattasse di lei: solo lei giocava a flipper in quel modo.

 

filename: Flipper

 

Non si gioca a flipper solo con le mani ma anche col pube. Col flipper il problema non è di arrestare la pallina prima che venga ingoiata alla foce, né di riproiettaria a metà campo con la foga di un terzino, ma di obbligarla a indugiare a monte, dove i bersagli luminosi sono più abbondanti, rimbalzando dall'uno all'altro, aggirandosi scombussolata e demente, ma per volontà propria. E questo l'ottieni non imponendo colpi alla palla, ma trasmettendo vibrazioni alla cassa portante, e in modo dolce, che il flipper non se ne renda conto e non vada in tilt. Lo puoi fare solo col pube, anzi con un gioco di anche, in modo che il pube più che battere strisci, sempre trattenendoti al di qua dell'orgasmo. E più che il pube, se l'anca muove secondo natura, sono i glutei che danno il colpo in avanti, ma con grazia, in modo che quando l'impeto arriva al pube sia già smorzato, come nell'omeopatia dove, quante più succussioni hai imposto alla soluzione, e la sostanza si è ormai quasi dissolta nell'acqua che aggiungi via via, sino a quasi scomparire del tutto, tanto più l'effetto medicamentoso è potente. Ed ecco che dal pube una corrente infinitesimale si trasmette alla cassa e il flipper obbedisce senza nevrotizzarsi, la pallina scorre contro natura, contro l'inerzia, contro la gravità, contro le leggi della dinamica, contro l'astuzia del costruttore che la voleva fugace, e s'inebria di vis movendi, resta in gioco per tempi memorabili e immemonati. Ma ci vuole un pube femminile, che non frapponga corpi cavernosi tra l'ileo e la macchina, e che non vi sia in mezzo materia erettile, ma solo pelle nervi ossa, fasciati da un paio di jeans, e un furore eretico sublimato, una frigidità maliziosa, una disinteressata adattabilità alla sensibilità del partner, un gusto di attizzarne il desiderio senza patire l'eccesso del proprio: l'amazzone deve far impazzire il flipper e godere in anticipo del fatto che poi lo abbandonerà.

 

Credo che Belbo si sia innamorato di Lorenza Pellegrini in quel momento, quando ha avvertito che essa avrebbe potuto promettergli una felicità irraggiungibile. Ma credo che attraverso di lei egli iniziasse ad avvertire il carattere erotico degli universi automatici, la macchina come metafora del corpo cosmico, e il gioco meccanico come evocazione talismanica. Stava già drogandosi con Abulafia e forse era già entrato nello spirito del progetto Hermes. Certamente aveva già visto il Pendolo. Lorenza Pellegrini, non so per quale cortocircuito, gli prometteva il Pendolo.

 

Per i primi tempi avevo provato fatica a riadattarmi a Pilade. A poco a poco, e non tutte le sere, tra la selva di volti estranei riscoprivo quelli, fa-miliari, dei sopravvissuti, anche se annebbiati dallo sforzo dell'agnizione: chi copywriter in un'agenzia pubblicitaria, chi consulente fiscale, chi venditore di libri a rate, ma se prima piazzavano le opere del Che, ora offrivano erboristeria, buddhismo, astrologia. Li rividi, un poco blesi, qualche filo bianco tra i capelli, un bicchiere di whisky tra le mani, e mi parve che fosse lo stesso baby di dieci anni prima, che avevano gustato con lentezza, una goccia al semestre.

"Che fai, perché non ti fai più vedere da noi?" mi chiese uno di costoro.

"Chi siete voi adesso?"

Mi guardò come se fossi stato via per anni: "Dico l'assessorato alla cultura, no?"

Avevo perso troppe battute.

 

Mi decisi a inventarmi un lavoro. Mi ero accorto che sapevo tante cose, tutte sconnesse tra loro, ma che ero in grado di connetterle in poche ore con qualche visita in biblioteca. Ero partito che occorreva avere una teoria, e soffrivo di non averla. Ora bastava avere nozioni, tutti ne erano ghiotti, e tanto meglio se erano inattuali. Anche all'università, dove avevo rimesso piede per vedere se potevo collocarmi da qualche parte. Le aule erano calme, gli studenti scivolavano per i corridoi come fantasmi, prestandosi a vicenda bibliografie fatte male. Io sapevo fare una buona bibliografia.

Un giorno un laureando, scambiandomi per un docente (gli insegnanti avevano ormai la stessa età degli studenti, o viceversa) mi chiese che cosa avesse scritto questo Lord Chandos di cui si parlava in un corso sulle crisi cicliche in economia. Gli dissi che era un personaggio di Hofmannsthal, non uneconomista.

Quella sera stessa ero auna festa da vecchi amici e riconobbi un tale, che lavorava per una casa editrice. Era entrato dopo che la casa aveva smesso di pubblicare i romanzi dei collaborazionisti francesi per dedicarsi a testi politici albanesi. Scoprii che facevano ancora dell'editoria politica, ma nell'area governativa. Però non trascuravano qualche buon libro di filosofia. Sul classico, mi precisò.

"A proposito," mi disse, "tu che sei un filosofo..."

"Grazie, purtroppo no."

"Dai, eri uno che sapevi tutto ai tuoi tempi. Oggi stavo rivedendo la traduzione di un testo sulla crisi del marxismo, e ho trovato citato un brano di un certo Annselm of Canterbury. Chi è? Non l'ho trovato neppure sul Dizionario degli Autori." Gli dissi che era Anselmo d'Aosta, solo che gli inglesi lo chiamano così perché vogliono sempre far diverso dagli altri.

Ebbi un'illuminazione: avevo un mestiere. Decisi di mettere in piedi un'agenzia di informazioni culturali.

Come una specie di piedipiatti del sapere. Invece di ficcare il naso nei bar notturni e nei bordelli, dovevo andare per librerie, biblioteche, corridoi di istituti universitari. E poi, stare nel mio ufficio, i piedi sul tavolo e un bicchiere di carta con whisky portato su in un sacchetto dal droghiere sull'angolo. Uno ti telefona e ti dice: "Sto traducendo un libro e m'imbatto in un certo o certi – Motocallemin. Non riesco a venirne a capo."

Tu non lo sai ma non importa, chiedi due giorni di tempo. Vai a sfogliare qualche schedario in biblioteca, offri una sigaretta al tizio dell'ufficio consulenza, cogli una traccia. La sera inviti un assistente di islamistica al bar, gli paghi una birra, due, quello allenta il controllo, ti dà l'informazione che cerchi, per niente. Poi chiami il cliente: "Dunque, i Motocallemin erano teologi radicali musulmani dei tempi di Avicenna, dicevano che il mondo era, come dire, un pulviscolo di accidenti, e si coagulava in forme solo per un atto istantaneo e provvisorio della volontà divina. Ba-stava che Dio si distraesse per un momento e l'universo cadeva in pezzi. Pura anarchia di atomi senza senso. Basta? Ci ho lavorato tre giorni, faccia lei."

Ebbi la fortuna di trovare due stanze e un cucinotto in un vecchio edificio di periferia, che doveva essere stato una fabbrica, con un'ala per gli uffici. Gli appartamenti che ne avevano ricavato si aprivano tutti su di un lungo corridoio: stavo tra un'agenzia immobiliare e il laboratorio di un impagliatore di animali (A. Salon – Taxidermista). Sembrava di essere in un grattacielo americano degli anni trenta, mi sarebbe bastato avere la porta a vetri e mi sarei sentito Marlowe. Sistemai un divano letto nella seconda stanza, e l'ufficio all'ingresso. Collocai in due scaffalature atlanti, enciclopedie, cataloghi che acquisivo a poco a poco. Al principio dovetti venire a patti con la coscienza e scrivere anche delle tesi per studenti disperati. Non era difficile, bastava andare a copiare quelle del decennio precedente. Poi gli amici editori mi mandarono manoscritti e libri stranieri in lettura, naturalmente i più sgradevoli e per modico compenso.

Ma accumulavo esperienze, nozioni, e non buttavo via nulla. Schedavo tutto. Non pensavo a tenere le schede su un computer (entravano in com-'mercio proprio allora, e Belbo sarebbe stato un pioniere), procedevo con mezzi artigianali, ma mi ero creato una sorta di memoria fatta di tesserine di cartone tenero, con indici incrociati. Kant... nebulosa... Laplace, Kant... Koenigsberg... i sette ponti di Koenigsberg... teoremi della topologia... Un poco come quel gioco che ti sfida ad andare da salsiccia a Platone in cinque passaggi, per associazione di idee. Vediamo: salsiccia-maiale-setola-pennello-manierismo-Idea-Platone. Facile. Anche il mano-scritto più spappolato mi faceva guadagnare venti schedine per la mia catena di sant'Antonio. Il criterio era rigoroso, e credo sia lo stesso seguito dai servizi segreti: non ci sono informazioni migliori delle altre, il potere sta nello schedarle tutte, e poi cercare le connessioni. Le connessioni ci sono sempre, basta volerle trovare.

Dopo circa due anni di lavoro ero soddisfatto di me stesso. Mi divertivo. E frattanto avevo incontrato Lia.
35

Sappia qualunque il mio nome dimanda ch'i' mi son Lia, evo movendo intorno le belle mani a farmi una ghirlanda.

(Purgatorio, svii, 100-102)

 

Lia. Ora dispero di rivederla, ma potrei non averla mai incontrata, e sarebbe stato peggio. Vorrei che fosse qui, a tenermi per mano, mentre ricostruisco le tappe della mia rovina. Perché lei me lo aveva detto. Ma deve rimanere fuori da questa storia, lei e il bambino. Spero che ritardino il ritorno, che arrivino a cose finite, comunque le cose finiscano.

 

Era il 16 luglio dell'ottantuno. Milano si stava spopolando, la sala consultazione della biblioteca era quasi vuota.

"Guarda che il tomo 109 stavo per prenderlo io."


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 39 | Нарушение авторских прав



mybiblioteka.su - 2015-2024 год. (0.023 сек.)