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Il pendolo di Foucault 12 страница

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"Come nessuno?" chiese Belbo.

"Non c'è nessun cadavere. E da quel momento il medico se ne torna a casa e i miei colleghi trovano solo quel che vedete. Interrogano veda e portiere, coi risultati che vi ho detto. Dove erano i due signori saliti con l'Ardenti alle dieci? E chi lo sa, potevano essere usciti tra le undici e l'una e nessuno se ne sarebbe accorto. Erano ancora in camera quando è entrato il vecchio? E chi lo sa, lui ci è rimasto un minuto, e non ha guardato né nel cucinotto né nel gabinetto. Possono essere usciti mentre i due disgraziati andavano a chiamare aiuto, e portandosi via un cadavere? Non sarebbe impossibile, perché c'è una scala esterna che finisce in cortile, e lì si potrebbe uscire dal portone, che dà su una via laterale. Ma soprattutto, c'era davvero il cadavere, o il colonnello se ne era uscito diciamo a mezzanotte coi due tipi; e il vecchio si è sognato tutto? Il portiere ripete che non è la prima volta che ha le traveggole, anni fa ha detto che aveva visto una cliente impiccata nuda, e poi la cliente era rientrata mezz'ora dopo fresca come una rosa, e sulla brandiva del vecchio era stata trovata una rivista sadoporno, magari gli era venuta la bella idea di andare a sbirciare nella camera della signora dal buco della serratura e aveva visto una tenda che si agitava nel chiaroscuro. L'unico dato sicuro è che la camera non è in stato normale, e che l'Ardenti si è volatilizzato. Ma adesso ho parlato troppo. Tocca a lei, dottor Belbo. L'unica traccia che abbiamo trovato è un foglio che stava per terra vicino a quel tavolino. Ore quattordici, Hotel Principe e Savoia, Mr. Rakosky; ore sedici, Garamond, dottor Belbo. Lei mi ha confermato che è venuto da voi. Mi dica quello che è successo."
22

I cavalieri del Graal non volevano più che si facessero loro domande.

(Wolfram von Eschenbach, Parzival, XVI, 819)

 

Belbo fu breve: gli ripeté tutto quello che aveva già detto per telefono, senza altri particolari, se non inessenziali. Il colonnello aveva raccontato una storia fumosa, dicendo di aver scoperto le tracce di un tesoro in certi documenti trovati in Francia, ma non ci aveva detto molto di più. Pareva pensasse di possedere un segreto pericoloso, e voleva renderlo pubblico prima o poi, per non esserne l'unico depositario. Aveva accennato al fatto che altri prima di lui, una volta scoperto il segreto, erano scomparsi misteriosamente. Avrebbe mostrato i documenti solo se gli avessimo assicurato il contratto, ma Belbo non poteva assicurare alcun contratto se prima non vedeva qualcosa, e si erano lasciati con un vago appuntamento. Aveva menzionato un incontro con tale Rakasky, e aveva detto che era il direttore dei Cahiers du Mystère. Voleva chiedergli una prefazione. Sembrava che Rakosky gli avesse consigliato di soprassedere alla pubblicazione. Il colonnello non gli aveva detto che sarebbe venuto alla Garamond. Era tutto.

"Bene, bene," disse De Angelis. "Che impressione vi ha fatto?"

"Ci è parso un esaltato ed ha accennato a un passato, come dire, un poco nostalgico, e a un periodo nella legione straniera."

"Vi ha detto la verità, anche se non tutta. In un certo senso lo si teneva già d'occhio, ma senza troppo impegno. Di casi così ne abbiamo tanti... Dunque, Ardenti non era neppure il suo nome, ma aveva un regolare passaporto francese. Era riapparso in Italia, saltuariamente, da qualche anno, ed era stato identificato, senza certezza, con un certo capitano Arcoveggi, condannato a morte in contumacia nel 1945. Collaborazione con le SS per mandare un po' di gente a Dachau.Anche in Francia lo tenevano d'occhio, era stato processato per truffa e se l'era cavata per un pelo. Si presume, si presume, badino, che sia la stessa persona che sotto il nome di Fassotti, l'anno scorso, è stato denunciato da un piccolo industriale di Peschiera Borromeo. Lo aveva convinto che nel lago di Como si trovava ancora il tesoro di Dongo, che lui aveva identificato il posto, che bastavano poche decine di milioni per due sommozzatori e un motoscafo... Una volta presi i soldi si era volatilizzato. Ora loro mi confermano che aveva la mania dei tesori”

"E quel Rakosky?" Chiese Belbo.

"Già controllato. Al Principe e Savoia è sceso un Rakosky, Wladimir, registrato con passaporto francese. Descrizione vaga, signore distinto. La stessa descrizione del portiere di qui. Al banco Alitalia risulta registrato stamattina sul Primo volo per Parigi. Ho interessato l'Interpol. Annunziata, è arrivato qualche cosa da Parigi?"

"Ancora nulla, dottore."

"Ecco. Dunque il colonnello Ardenti, o come si chiama, arriva a Milano quattro giorni fa, non sappiamo checosa faccia i primi tre, ieri alle due vede presumibilmente il Rakosky all'hotel, non gli dice che sarebbe venuto da voi, e questo mi pare interessante. Alla sera viene qui, probabilmente con lo stesso Rakosky e un altro tipo... dopo di che tutto diventa impreciso. Anche se non lo ammazzano, certo gli perquisiscono l'appartamento. Che cosa cercano? Nella giacca — ah sì, perché anche se esce, esce in maniche di camicia, la giacca col passaporto rimane in camera, ma non credano che questo semplifichi le cose, perché il vecchio dice che era steso sul letto con la giacca, ma magari era una giacca da camera, mio dio, qui mi pare di muovermi in una gabbia di matti — dicevo, nella giacca aveva ancora parecchio denaro, anche troppo.... Quindi cercavano altro. E l'unica idea buona mi viene da loro. Il colonnello aveva dei documenti. Che aspetto avevano?"

"Aveva in mano una cartella marrone," disse Belbo.

"A me è parsa rossa," dissi io.

"Marrone,» insistette Belbo, "ma forse mi sbaglio."

"Rossa o marrone che fosse," disse De Angelis, "qui non c'è. I signori di ieri sera se la sono portata via. Quindi è intorno a quella cartella che si deve girare. Secondo me l'Ardenti non voleva affatto pubblicare un libro. Aveva messo insieme qualche dato per ricattare il Rakosky e cercava di millantare contatti editoriali come elemento di pressione. Sarebbe nel suo stile. E a questo punto si potrebbero fare altre ipotesi. I due se ne vanno minacciandolo, Ardenti si spaventa e fugge nella notte lasciando tutto, con la cartella sottobraccio. E magari per chissà quale ragione fa credere al vecchio di essere stato ucciso. Ma sarebbe tutto troppo romanzesco, e non spiegherebbe la stanza in disordine. D'altra parte se i due l'ammazzano e rubano la cartella, perché rubare anche il cadavere? Vedremo. Scusino, sono costretto a richiedere le loro coordinate."

Girò due volte tra le mani il mio tesserino universitario. "Studente di filosofia, eh?"

"Siamo in molti," dissi.

"Anche troppi. E fa degli studi su questi Templari... Se dovessi farmi una cultura su questa gente, che cosa dovrei leggere?"

Gli suggerii due libri divulgativi, ma abbastanza seri. Gli dissi che avrebbe trovato notizie attendibili sino al processo e che dopo erano solo farneticazioni.

"Vedo, vedo," disse. "Anche i Templari, adesso. Un gruppuscolo che non conoscevo ancora."

Arrivò quell'Annunziata con un fonogramma: «Ecco la risposta di Parigi, dottore.

Lesse. "Ottimo. A Parigi questo Rakosky è ignoto, e comunque il numero del suo passaporto corrisponde a quello di un documento rubato due anni fa. E così siamo a posto. Il signor Rakosky non esiste. Lei dice che era direttore di una rivista... come si chiamava?" Prese nota. "Proveremo, ma scommetto che scopriremo che non esiste neppure la rivista, o che ha cessato le pubblicazioni chissà da quanto. Bene, signori. Grazie per la collaborazione, forse li disturberò ancora qualche volta. Oh, un'ultima domanda. Questo Ardenti ha lasciato empire di avere connessioni con qualche gruppo politico?"

"No," disse Belbo. "Avevi l'aria di aver lasciato la politica per i tesori."

"E per la circonvenzione d'incapace." Si rivolse a me: "A lei non è piaciuto, immagino."

"A me non piacciono i tipi come lui," dissi. "Ma non mi viene in mente di strangolarli con il fil di ferro. Se non idealmente."

"Naturale. Troppo faticoso. Non tema, signor Casaubon, non sono di quelli che pensano che tutti gli studenti siano criminali. Vada tranquillo. Auguri per la sua tesi."

Belbo chiese: "Scusi, commissario, ma è tanto per capire. Lei è dell'omicidi o della politica?"

"Buona domanda. Il mio collega dell'omicidi è venuto stanotte. Dopo che in archivio hanno scoperto qualcosa di più sui trascorsi dell'Ardenti, ha passato la faccenda a me. Sono della politica. Ma proprio non so se sono la persona giusta. La vita non è semplice come nei libri gialli."

"Lo supponevo, disse Belbo, dandogli la mano.

Ce ne andammo, e non ero tranquillo. Non per via del commissario, che mi era parso una brava persona, ma mi ero trovato, per la prima volta in vita mia, al centro di una storia oscura. E avevo mentito. E Belbo con me.

Lo lasciai sulla porta della Garamond ed eravamo entrambi imbarazzati.

"Non abbiamo fatto niente di male," disse Belbo in tono colpevole. "Che il commissario sappia di Ingolf o dei catari, non fa molta differenza. Erano tutti vaneggiamenti. Maganti è stato costretto a eclissarsi per altre ragioni, e ce n'erano mille. Magari Rakosky è del servizio segreto israeliano e ha regolato dei vecchi conti. Magari è stato mandato da un pezzo grosso che il colonnello ha raggirato. Magari era un commilitone della legione straniera con vecchi rancori. Magari era un sicario algerino. Magari la storia del tesoro templare era solo un episodio secondario nella vita del nostro colonnello. Sì, lo so, manca la cartella, rossa o marrone che fosse. Ha fatto bene a contraddirmi, così era chiaro che 1'avevamo vista solo di sfuggita..."

Io tacevo, e Belbo non sapeva come concludere.

"Mi dirà che sono scappato di nuovo, come in via Larga."

"Sciocchezze. Abbiamo fatto bene. Arrivederci."

Provavo pietà per lui, perché si sentiva un vile. Io no, mi avevano insegnato che con la polizia si mente. Per principio. Ma così è, la cattiva coscienza inquina l'amicizia.

Da quel giorno non lo vidi più. Io ero il suo rimorso, e lui era il mio.

Ma fu allora che mi convinsi che ad essere studenti si è sempre più sospetti che ad essere laureati. Lavorai ancora un anno e compilai duecentocinquanta cartelle sul processo dei Templari. Erano anni in cui presentare la tesi era prova di leale adesione alle leggi dello stato, e si era trattati con indulgenza.

 

Nei mesi che seguirono alcuni studenti cominciarono a sparare, l'epoca delle grandi manifestazioni a cielo aperto stava finendo.

 

Ero a corto di ideali. Avevo un alibi, perché amando Amparo facevo all'amore con il Terzo Mondo. Amparo era bella, marxista, brasiliana, entusiasta, disincantata, aveva una borsa di studio e un sangue splendidamente misto. Tutto insieme.

L'avevo incontrata a una festa e avevo agito d'impulso: "Scusami, ma vorrei fare all'amore con te.",

"Sei uno sporco maschilista."

"Come non detto."

"Come detto. Sono una sporca femminista."

Stava per rientrare in patria e non volevo perderla. Fu lei che mi mise in contatto con un'università di Rio dove cercavano un lettore d'italiano. Ottenni il posto per due anni, rinnovabili. Visto che l’Italia mi stava andando stretta, accettai.

E poi, nel Nuovo Mondo, mi dicevo, non avrei incontrato i Templari.

 

Illusione, pensavo sabato sera nel periscopio. Salendo i gradini della Garamond mi ero introdotto nel Palazzo. Diceva Diotallevi: Binah è il palazzo che Hokmah si costruisce espandendosi dal punto primordiale. Se Hokmah è la fonte, Binah è il fiume che ne scaturisce dividendosi poi nei suoi vari rami, sino a che tutti non si gettano nel gran mare dell'ultima sefirah é in Binah tutte le forme sono già preformate.
4

HESED

L'analogia dei contrari è il rapporto della luce all'ombra, della vetta all'abisso, del pieno al vuoto. L'allegoria, madre di tutti i dogmi, è la sostituzione dell'impronta al suggello, delle ombre alla realtà, è la menzogna della verità e la verità della menzogna.

(Eliphas Levi, Dogme de la haute magie, Paris, Baillère, 1856, LXII, 22)

 

Ero arrivato in Brasile per amore di Amparo, vi ero rimasto per amore del paese. Non ho mai capito perché questa discendente di olandesi che si erano installati a Recife e si erano mescolati con indios e negri sudanesi, dal volto di una giamaicana e dalla cultura di una parigina, avesse un nome spagnolo. Non sono mai riuscito a venire a capo dei nomi propri brasiliani. Sfidano ogni dizionario onomastico ed esistono solo laggiù.

Amparo mi diceva che nel loro emisfero, quando l'acqua viene risucchiata dallo scolo del lavabo, il mulinello va da destra a sinistra, mentre da noi va al contrario – o viceversa. Non ho potuto verificare se fosse vero. Non solo perché nel nostro emisfero nessuno ha mai guardato da che parte vada l'acqua, ma anche perché dopo vari esperimenti in Brasile mi ero accorto che è molto difficile capirlo. Il risucchio è troppo rapido per poterlo seguire, e probabilmente la sua direzione dipende dalla forza e dall'inclinazione del getto, dalla forma del lavabo o della vasca. E poi, se fosse vero, che cosa accadrebbe all'equatore? Forse l'acqua colerebbe a picco, senza mulinello, o non colerebbe affatto?

A quel tempo non drammatizzai troppo il problema, ma sabato sera pensavo che tutto dipendesse dalle correnti telluriche e che il Pendolo ne celasse il segreto.

Amparo era ferma nella sua fede. "Non importa che cosa accada nel caso empirico," mi diceva, "si tratta di un principio ideale, da verificare in condizioni ideali, e quindi mai. Ma è vero."

A Milano Amparo mi era apparsa desiderabile per il suo disincanto. Laggiù, reagendo agli acidi della sua terra, diventava qualcosa di più imprendibile, lucidamente visionaria e capace di razionalità sotterranee. La sentivo agitata da passioni antiche, vigile nel tenerle a freno, patetica nel suo ascetismo che le comandava di rifiutarne la seduzione.

Misurai le sue splendide contraddizioni vedendola discutere coi suoi compagni. Erano riunioni in case malmesse, decorate con pochi poster e molti oggetti folcloristici, ritratti di Lenin e terrecotte nordestine che celebravano il cangaceiro, o feticci amerindi. Non ero arrivato in uno dei momenti politicamente più limpidi e avevo deciso, dopo l'esperienza in patria, di tenermi lontano dalle ideologie, specie laggiù, dove non le capivo. I discorsi dei compagni di Amparo aumentarono la mia incertezza, ma mi stimolarono nuove curiosità. Erano naturalmente tutti marxisti, e a prima vista parlavano quasi come un marxista europeo, ma parlavano di una cosa diversa, e improvvisamente nel corso di una discussione sulla lotta di classe parlavano di "cannibalismo brasiliano", o del ruolo rivoluzionario dei culti afro-americani.

Fu sentendo parlare di questi culti che mi convinsi che laggiù anche il risucchio ideologico va per il verso opposto. Mi disegnavano un panorama di migrazioni pendolari interne, coi diseredati del nord che scendevano verso il sud industriale, si sottoproletarizzavano in metropoli immense, asfissiati da nuvole di smog, ritornavano disperati al nord, per riprendere un anno dopo la fuga verso il sud; ma in questa oscillazione molti si arenavano nelle grandi città e venivano assorbiti da una pleiade di chiese autoctone, si davano allo spiritismo, all'evocazione divinità africane... E qui i compagni di Amparo si dividevano, per alcuni questo dimostrava un ritorno alle radici, un’opposizione al mondo dei bianchi, per altri i culti erano la droga con cui la classe dominante teneva a freno un immenso potenziale rivoluzionario, per altri ancora erano il crogiolo dove bianchi, indios e negri si fondevano, disegnando prospettive ancora vaghe e dall'incerto destino. Amparo era decisa, le religioni sono state ovunque l’oppio dei popoli e a maggior ragione lo erano i culti pseudo-tribali. Poi la tenevo alla vita nelle "escolas de samba", quando partecipavo anch'io ai serpenti di danzatori, che disegnavano sinusoidi ritmate dal battito insostenibile dei tamburi, e mi accorgevo che a quel mondo essa aderiva coi muscoli dell'addome, col cuore, con la testa, con le narici... E poi ancora uscivamo, e lei era la prima ad anatomizzarmi con sarcasmo e rancore la religiosità profonda, orgiastica, di quella lenta dedizione, settimana per settimana, mese per mese, al rito del carnevale. Altrettanto tribale e stregonesco, diceva con odio rivoluzionario, dei riti calcistici, che vedono i diseredati spendere la loro energia combattiva, e il senso della rivolta, per praticare incantesimi e fatture, e ottenere dagli dei di ogni mondo possibile la morte del terzino avversario, dimentichi del dominio che li voleva estatici ed entusiasti, condannati all'irrealtà.

Lentamente smarrii il senso della differenza. Così come mi stavo a poco a poco abituando a non cercar di riconoscere le razze, in quell'universo di volti che raccontavano storie centenarie di ibridazioni incontrollate. Rinunciai a stabilire dove stesse il progresso, dove la rivolta, dove la trama – come si esprimevano i campagli di Amparo – del capitale. Come potevo pensare ancora europeo, quando apprendevo che le speranze dell'estrema sinistra erano tenute vive da un vescovo del Nordeste, sospetto di aver simpatizzato in gioventù per il nazismo, che con intrepida fede teneva alta la fiaccola della rivolta, sconvolgendo il Vaticano spaurito, e i barracuda di Wall Street, infiammando di giubilo l'ateismo dei mistici proletari, conquistati dallo stendardo minaccioso e dolcissimo di una Bella Signora, che trafitta di sette dolori mirava le sofferenze del suo popolo?

Una mattina, uscito con Amparo da un seminario sulla struttura di classe del Lumpenproletariat, percorrevamo in macchina una litoranea.

Lungo la spiaggia vidi delle offerte votive, delle candeline, delle corbeille bianche. Amparo mi disse che erano offerte a Yemanjà, la dea delle acque. Scese dalla macchina, si recò compunta sulla battigia, ristette alcuni momenti in silenzio. Le chiesi se ci credeva. Mi domandò con rabbia come potessi crederlo. Poi aggiunse: "Mia nonna mi portava qui sulla spiaggia, ed invocava la dea, perché io potessi crescere bella e buona e felice. Chi è quel vostro filosofo che parlava dei gatti neri, e delle corna di corallo, e ha detto ‘non è vero, ma ci credo’? Bene, io non ci credo, ma è vero." Fu quel giorno che decisi di risparmiare sugli stipendi, e tentare un viaggio a Bahia.

 

Ma fu anche allora, lo so, che iniziai a lasciarmi cullare dal sentimento della somiglianza: tutto poteva avere misteriose analogie con tutto.

Quando tornai in Europa trasformai questa metafisica in una meccanica – e per questo precipitai nella trappola ove ora mi trovo. Ma allora mi mossi in un crepuscolo dove si annullavano le differenze. Razzista, pensai che le credenze altrui sono per l'uomo forte occasioni di blando fantasticare.

Appresi dei ritmi, dei modi di lasciare andare il corpo e la mente. Me lo dicevo l'altra sera nel periscopio, mentre per combattere il formicolio delle membra le muovevo come se percotessi ancora l'agogò. Vedi, mi dicevo, per sottrarti al potere dell'ignoto, per mostrare a te stesso, che non ci credi, né accetti gli incantamenti. Come un ateo confesso, che di notte veda il diavolo, e ragioni ateisticamente così: lui certo non esiste, e questa è un'illusione dei miei sensi eccitati, forse dipende dalla digestione, ma lui non lo sa, e crede nella sua teologia a rovescio. Che cosa, a lui sicuro di esistere, farebbe paura? Ti fai il segno della croce e lui, credulo, scompare in un'esplosione di zolfo.

Così è accaduto a me come a un etnologo saccente che per anni abbia studiato il cannibalismo e, per sfidare l'ottusità dei bianchi, racconti a tutti che la carne umana ha un sapore delicato. Irresponsabile, perché sa che non gli accadrà mai di assaggiarla. Sino a che qualcuno, ansioso di verità, non voglia provare su di lui. E mentre viene divorato brano a brano non saprà più chi abbia ragione, e quasi spera che il rito sia buono, per giustificare almeno la propria morte. Così l'altra sera dovevo credere che il Piano fosse vero, altrimenti negli ultimi due anni sarei stato l'architetto onnipossente di un incubo maligno. Meglio che l'incubo fosse realtà, se una cosa è vera è vera, e tu non c'entri.
24

Sauvez la faible Aischa des vertiges de Nahash, sauvez la plaintive Héva des mirages de la sensibilité, et que les Khérubs me gardent.

Qoséphin Péladan, Comment on devient Fée, Paris, Chamuel, 1893, p. XIII)

 

Mentre mi inoltravo nella selva delle somiglianze, ricevetti la lettera di Belbo.

 

Caro Casaubon,

Non sapevo, sino all'altro giorno, che lei fosse in Brasile, avevo perso del tutto le sue tracce, non sapevo neppure che si fosse laureato (complimenti), ma da Pilade ho trovato chi mi ha fornito le sue coordinate. Mi pare opportuno metterla al corrente di alcuni fatti nuovi che riguardano la sfortunata vicenda del colonnello Ardenti. Sono passati più di due anni, mi pare, e mi deve scusare ancora, sciino io che l'ho messa nei pasticci quella mattina, senza volerlo.

Avevo quasi dimenticato quella brutta storia, ma due settimane fa sono andato in gita nel Montefeltro e sono capitato alla rocca di San Leo. Pare che nel Settecento fosse dominio pontificio, e il papa vi abbia chiuso dentro Cagliostro, in una cella senza porta (si entrava, per la prima e per l'ultima volta, da una botola nel soffitto) e con una finestrella da cui il condannato poteva vedere solo le due chiese del villaggio. Sul ripiano dove Cagliostro dormiva ed è morto ho visto un mazzo di rose, e mi hanno spiegato che vi sono ancora molti devoti che vanno in pellegrinaggio nel luogo del martirio. Mi hanno detto che tra i pellegrini più assidui c'erano i membri di Picatrix, un cenacolo milanese di studi misteriosofici, che pubblica una rivista — apprezzi la fantasia — che si chiama Picatrix.

Sa che sono curioso di queste bizzarrie, e a Milano mi sono procurato un numero di Picatrix, da cui ho appreso che si doveva celebrare entro qualche giorno un'evocazione dello spirito di Cagliostro. Ci sono andato.

Le pareti erano damascate con stendardi pieni di segni cabalistici, grande spreco di gufi e civette, scarabei e ibis, divinità orientali di incerta provenienza. Sul fondo c'era un palco, con un proscenio di fiaccole ardenti su supporti di rozzo ceppo, sullo sfondo un altare con pala triangolare e due statuette di Iside e Osiride. Intorno, un anfiteatro di figure di Anubi, un ritratto di Cagliostro (di chi se no, le pare?), una mummia dorata formato Cheope, due candelabri a cinque braccia, un gong sostenuto da due serpenti rampanti, un leggio su un podio ricoperto di cotonina stampata a geroglifici, due corone, due tripodi, un sarcofaghetto ventiquattrore, un trono, una poltrona falso Seicento, quattro sedie scompagnate tipo banchetto presso lo sceriffo di Nottingham, candele, candeline, candelone, tutto un ardore molto spirituale.

Insomma, entrano sette chierichetti in sottanina rossa e torcia, e poi il celebrante, che pare sia il direttore di Picatrix — e si chiamava Brambilla, gli dei lo perdonino — con paramenti rosa e oliva, e poi la pupilla, o medium, e poi sei ac-coliti biancovestiti che sembravano tanti Ninetto Davoli ma con infula, quella del dio, se ricorda i nostri poeti.

I1 Brambilla si mette in testa un triregno con mezzaluna, afferra uno spadone rituale, traccia sul palco figure magiche, evoca alcuni spiriti angelici col finale in "el", e a quel punto a me vengono vagamente in mente quelle diavolerie pseudo-semitiche del messaggio di Ingolf, ma è faccenda di un attimo e poi mi distraggo. Anche perché a quel punto succede qualcosa di singolare, i microfoni del palco sono collegati con un sintonizzatore, che dovrebbe raccogliere delle onde vaganti per lo spazio, ma l'operatore, con infula, deve aver commesso un errore, e prima si sente della disco-music e poi entra in onda Radio Mosca. Il Brambilla apre il sarcofago, ne trae un grimoire, sciabola con un turibolo e grida "o signore venga il tuo regno" e sembra ottenere qualcosa perché Radio Mosca tace, ma nel momento più magico riprende con un canto di cosacchi avvinazzati, di quelli che ballano col sedere raso terra. Brambilla invoca la Clavicula Salomonis, brucia una pergamena sul tripode rischiando un rogo, evoca alcune divinità del tempio di Karnak, chiede con petulanza di essere posto sulla pietra cubica di Esod, e chiama insistentemente un certo Familiare 39, che al pubblico doveva essere familiarissimo perché un fremito pervade la sala. Una spettatrice cade in trance con gli occhi in su, che si vede solo il bianco, la gente grida un medico un medico, a questo punto il Brambilla chiama in causa il Potere dei Pentacoli e la pupilla, che si era frattanto seduta sulla poltrona falso Seicento, incomincia ad agitarsi, a gemere, il Brambilla le si fa addosso interrogandola ansiosamente, ovvero interrogando il Familiare 39, che come intuisco in quel momento è il Cagliostro stesso medesimo.

Ed ecco che incomincia la parte inquietante, perché la ragazza fa davvero pena e soffre sul serio, suda, trema, bramisce, incomincia a pronunciare frasi spezzate, parla di un tempio, di una porta da aprire, dice che si sta creando un vortice di forza, che bisogna salire verso la Grande Piramide, il Brambilla si agita sul palco percotendo il gong e chiamando Iside a gran voce, io mi sto godendo lo spettacolo, quando sento che la ragazza, tra un sospiro e un gemito, parla di sei sigilli, di centoventi anni di attesa e di trentasei invisibili. Non ci sono più dubbi, sta parlando del messaggio di Provins. Mentre mi attendo di sentire di più, la ragazza si accascia esausta, il Brambilla la accarezza sulla fronte, benedice gli astanti col turibolo e dice che il rito è finito.

Un poco ero impressionato, un poco volevo capire, e cerco di avvicinarmi alla ragazza, che intanto si è riavuta, si è infilata un soprabito abbastanza malmesso e sta uscendo dal retro. Sto per toccarla su una spalla e mi sento prendere per un braccio. Mi volto ed è il commissario De Angelis, che mi dice di lasciarla stare, tanto lui sa dove trovarla. Mi invita a prendere un caffè. Lo seguo, come se mi avesse colto in fallo, e in un certo senso era vero, e al bar mi chiede perché io ero là e perché cercavo di avvicinare la ragazza. Mi secco, gli rispondo che non viviamo in una dittatura, e che io posso avvicinare chi voglio. Lui si scusa, e mi spiega: le indagini su Ardenti erano andate a rilento, ma avevano cercato di ricostruire come avesse passato i due giorni a Milano prima di vedere quelli della Garamond e il misterioso Rakosky. A distanza di un anno, per un colpo di fortuna, era venuto fuori che qualcuno aveva visto l'Ardenti uscire dalla sede di Picatrix, con la sensitiva. La sensitiva d’altra parte lo interessava perché conviveva con un individuo non ignoto alla squadra narcotici.

Gli dico che ero là per puro caso, e che mi aveva colpito il fatto che la ragazza aveva detto una frase su sei sigilli che avevo sentito dire dal colonnello. Lui mi fa osservare che è strano che mi ricordi così bene a due anni di distanza che cosa aveva detto il colonnello, visto che il giorno dopo avevo accennato solo a un vago discorso sul tesoro dei Templari. Io gli dico che il colonnello aveva parlato appunto di un tesoro, protetto da qualcosa come sei sigilli, ma che non avevo pensato fosse un particolare importante, perché tutti i tesori sono protetti da sette sigilli e da scarabei d'oro. E lui osserva che non vede perché avessero dovuto colpirmi le parole della medium, dato che tutti i tesori sono protetti da scarabei d'oro. Gli chiedo che non mi tratti come un pregiudicato, e lui cambia tono e si mette a ridere. Dice che non trovava strano che la ragazza avesse detto quello che aveva detto, perché in qualche modo Ardenti doveva averle parlato delle sue fantasie, magari cercando di usarla come tramite per qualche contatto astrale, come dicono in quell'ambiente. La sensitiva è una spugna, una lastra fotografica, deve avere un inconscio che sembra un luna park — mi ha detto — quelli di Picatrix le fanno probabilmente il lavaggio del cervello tutto l'anno, non è inverosimile che in stato di trance — perché la ragazza fa sul serio, non finge, e non ha la testa a posto — le siano riaffiorate delle immagini che l'avevano impressionata tempo fa.


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 38 | Нарушение авторских прав



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