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Il pendolo di Foucault 8 страница

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dello stesso mese rilascia una deposizione timidissima e vaga, dice di essere un cavaliere povero e senza cultura, e si limita a elencare i meriti (or-mai remoti) del Tempio, le elemosine che ha fatto, il tributo di sangue dato in Terrasanta e così via. Per soprammercato arriva il Nogaret, che ricorda come il Tempio abbia avuto contatti, più che amichevoli, col Saladino: siamo all'insinuazione di un reato di alto tradimento. Le giustificazioni di Molay sono penose, in questa deposizione l'uomo, provato ormai da due anni di carcere, sembra uno straccio, ma uno straccio si era mostrato anche subito dopo l'arresto. A una terza deposizione, nel marzo dell'anno seguente, Molay adotta un'altra strategia: non parla, e non parlerà se non di fronte al papa.

Colpo di scena, e questa volta si passa al dramma epico. Nell'aprile del 1310 cinquecentocinquanta Templari chiedono di essere ascoltati in di-fesa dell'ordine, denunciano le torture a cui erano stati sottoposti i con-fessi, negano e dimostrano inconcepibili tutte le accuse. Ma il re e Nogaret conoscono il loro mestiere. Alcuni Templari ritrattano? Meglio, debbono essere dunque considerati recidivi e spergiuri, ovvero relapsi – terribile accusa a quei tempi – perché negano protervamente quello che ave-vano già ammesso. Si può anche perdonare chi confessa e si pente, ma non chi non si pente perché ritratta la confessione e dice, spergiurando, di non aver nulla di cui pentirsi. Cinquantaquattro ritrattatori spergiuri vengono condannati a morte.

Facile pensare alla reazione psicologica degli altri arrestati. Chi con-fessa rimane vivo in galera, e chi vivrà vedrà. Chi non confessa, o peggio ritratta, va sul rogo. I cinquecento ritrattatori ancora in vita ritrattano la ritrattazione.

Il calcolo dei pentiti fu quello vincente, perché nel 1312 coloro che non avevano confessato furono condannati alla prigione perpetua mentre i confessi vennero perdonati. A Filippo non interessava un massacro, voleva solo smembrare l'ordine. I cavalieri liberati, ormai distrutti nel corpo e nello spirito dopo quattro o cinque anni di carcere, defluiscono silenziosamente in altri ordini, vogliono solo esser dimenticati, e questa scomparsa, questa cancellazione peserà a lungo sulla leggenda della sopravvivenza clandestina dell'ordine.

Molay continua a chiedere di essere ascoltato dal papa. Clemente in-dice un concilio a Vienne, nel 1311, ma non convoca Molay. Sancisce la soppressione dell'ordine e ne assegna i beni agli Ospitaleri, anche se per il momento li amministra il re.

Passano altri tre anni, alla fine si raggiunge un accordo col papa, e il 19 marzo del 1314, sul sagrato di Notre-Dame, Molay viene condannato a vita. Udendo questa sentenza, Molay ha un sussulto di dignità. Aveva atteso che il papa gli permettesse di scolparsi, si sente tradito. Sa benissimo che se ritratta ancora una volta sarà anche lui spergiuro e recidivo. Cosa passa nel suo cuore, dopo quasi sette anni in attesa di giudizio? Ritrova il coraggio dei suoi maggiori? Decide che, ormai distrutto, con la prospettiva di finire i suoi giorni murato vivo e disonorato, tanto vale affrontare una bella morte? Protesta l'innocenza sua e dei suoi fratelli. I Templari hanno commesso un solo delitto, dice: per viltà hanno tradito il Tempio. Lui non ci sta.

Nogaret si frega le mani: a pubblico delitto, pubblica condanna, e definitiva, con procedura d'urgenza. Come Molay si era comportato anche il precettore di Normandia, Geoffroy di Charnay. Il re decide in giornata: si erige un rogo sulla punta dell'isola della Cité. Al tramonto, Molay e Charnay sono bruciati.

La tradizione vuole che il gran maestro prima di morire avesse profetizzato la rovina dei suoi persecutori. In effetti il papa, il re e Nogaret sarebbero morti entro l'anno. Quanto a Marigny, dopo la scomparsa del re sarà sospettato di malversazioni. I suoi nemici lo accuseranno di stregone-ria e lo faranno impiccare. Molti incominciano a pensare a Molay come a un martire. Dante riecheggerà lo sdegno di molti per la persecuzione dei Templari.

Qui finisce la storia e inizia la leggenda. Uno dei suoi capitoli vuole che uno sconosciuto, il giorno in cui Luigi XVI viene ghigliottinato, salga sul patibolo e gridi: "Jacques de Molay, sei stato vendicato!"

 

Questa più o meno la vicenda che raccontai quella sera da Pilade, interrotto ad ogni istante.

Belbo mi chiedeva: "Ma è sicuro, questa, di non averla letta in Orwell o in Koestler?" Oppure: "Ma andiamo, questo è il caso... come si chiama quello della rivoluzione culturale?..." Diotallevi allora interloquiva sentenzioso, ogni volta: "Historia magistra vitae." Belbo gli diceva: "Suvvia, un cabalista non crede alla storia." E lui, invariabilmente: "Appunto, tutto si ripete in circolo, la storia è maestra perché ci insegna che non c'è. Però contano le permutazioni."

"Ma insomma," disse Belbo alla fine, "chi erano i Templari? Prima ce li ha presentati come sergenti di un film di John Ford, poi come dei sudicioni, quindi come cavalieri di una miniatura, poi ancoa come banchieri di Dio che si facevano i loro sporchi affari, poi ancora come un esercito in rotta, poi come adepti di una setta luciferina, infine come martiri del libero, pensiero... Chi erano?"

"Ci sarà pure una ragione per cui sono diventati un mito. Erano probabilmente tutte queste cose insieme. Che cos'è stata la chiesa cattolica, potrebbe chiedersi uno storico marziano del tremila, quelli che si facevano mangiare dai leoni o quelli che ammazzavano gli eretici? Tutto insieme."

"Ma insomma, quelle cose, le hanno fatte o no?"

"La cosa più divertente è che i loro seguaci, voglio dire i neotemplaristi di epoche diverse, dicono di sì. Le giustificazioni sono molte. Prima tesi, si trattava di riti goliardici: vuoi diventare Templare, mostra che hai un paio di coglioni così, sputa sul crocifisso e vediamo se Dio ti fulmina, come entri in questa milizia devi darti mani e piedi ai fratelli, fatti baciare sul culo. Seconda tesi, venivano invitati a rinnegare Cristo per vedere come se la sarebbero cavata quando i saraceni li avessero presi. Spiega-

zinne idiota, perché non si educa qualcuno a resistere alla tortura facendogli fare, sia pure simbolicamente, quello che il torturatore gli richiederà. Terza tesi: i Templari in oriente erano entrati in contatto con eretici manichei che disprezzavano la croce, perché era lo strumento della tortura del Signore, e predicavano che occorre rinunciare al mondo e scoraggiare il matrimonio e la procreazione. Idea vecchia, tipica di molte eresie dei primi secoli, che passerà ai catari - e c'è tutta una tradizione che vuole i Templari imbevuti di catarismo. E allora si capirebbe il perché della sodomia, anche solo simbolica. Poniamo che i cavalieri fossero entrati in contatto con questi eretici: non erano certo degli intellettuali, un po' per ingenuità, un po' per snobismo e per spirito di corpo, si creano un loro Folclore personale, che li distingue dagli altri crociati. Praticano dei riti come gesti di riconoscimento, senza chiedersi che cosa significhino."

"Ma quel Bafometto lì?"

"Guardi, in molte deposizioni si parla di una figura Baf f ometi, ma po trebbe trattarsi di un errore del primo scrivano e, se i verbali sono manipolati, il primo errore si sarebbe riprodotto in tutti i documenti. In altri casi qualcuno ha parlato di Maometto (istud caput vester deus est, et vester Mahumet), e questo vorrebbe dire che i Templari avevano creato una loro liturgia sincretistica. In alcune deposizioni si dice anche che furono invitati a invocare `yalla', che doveva essere Allah. Ma i musulmani non veneravano immagini di Maometto, e quindi da chi mai sarebbero stati influenzati i Templari? Le deposizioni dicono che molti hanno visto queste teste, talora invece di una testa è un idolo intero, in legno, coi capelli crespi, coperto d'oro, e ha sempre una barba. Pare che gli inquirenti trovino queste teste e le mostrino agli inquisiti, ma insomma, delle teste non rimane traccia, tutti le hanno viste, nessuno le ha viste. Come la storia del gatto, chi lo ha visto grigio, chi lo ha visto rosso, chi lo ha visto nero. Ma immaginatevi un interrogatorio col ferro rovente: hai visto un gatto durante l'iniziazione? E come no, una fattoria templare, con tutti i raccolti da salvare dai topi, doveva essere piena di gatti. A quei tempi, in Europa, il gatto non era molto comune come animale domestico, mentre in Egitto sì. Chissà che i Templari non avessero tenuto gatti in casa, contro gli usi della brava gente, che li considerava animali sospetti. E così avviene per le teste di Bafometto, forse erano reliquiari in forma di testa, all'epoca si usava. Naturalmente c'è chi sostiene che il Bafometto era una figura alchemica."

"L'alchimia c'entra sempre," disse Diotallevi con convinzione, "i Templari probabilmente conoscevano il segreto della fabbricazione dell'oro."

"Certo che lo conoscevano," disse Belbo. "Si assale una città saracena, si sgozzano donne e bambini, si arraffa tutto quello che capita sottomano. La verità è che tutta questa storia è un gran casino."

"E forse avevano un casino nella testa, capite, cosa gliene importava dei dibattiti dottrinali? La Storia è piena di storie di questi corpi scelti che si creano il loro stile, un po' spaccone, un po' mistico, neppure loro sapevano bene che cosa facevano. Naturalmente c'è poi l'interpretazione esoterica, loro sapevano benissimo tutto, erano adepti dei misteri orientali, e persino il bacio sul culo aveva un significato iniziatico."

"Mi spieghi un poco il significato iniziatico del bacio sul sedere," disse Diotallevi.

"Certi esoteristi moderni ritengono che i Templari si rifacessero a dottrine indiane. Il bacio sul culo sarebbe servito a risvegliare il serpente Kundalini, una forza cosmica che risiede nella radice della spina dorsale,

nelle ghiandole sessuali, e che una volta risvegliato raggiunge la ghiandola pineale..."

"Quella di Cartesio?"

"Credo, e lì dovrebbe aprire nella fronte un terzo occhio, quello della

visione diretta nel tempo e nello spazio. Per questo si ricerca ancora il segreto dei Templari."

"Filippo il Bello avrebbe dovuto bruciare gli esoteristi moderni, non quei poveretti."

"Sì, ma gli esoteristi moderni non hanno una lira."

"Ma guardi lei che storie si debbono sentire," concluse Belbo. "Adesso capisco perché questi Templari ossessionano tanti dei miei matti."

"Credo che sia un poco la sua storia dell'altra sera. Tutta la loro vicenda è un sillogismo contorto. Comportati da stupido e diventerai impenetrabile per l'eternità. Abracadabra, Manel Tekel Phares, Pape Satan Pape Satan Aleppe, le vierge le vivace et le bel aujourd'hui, ogni volta che un poeta, un predicatore, un capo, un mago hanno emesso-borborigmi insignificanti, l'umanità spende secoli a decifrare il loro messaggio.

I Templari rimangono indecifrabili a causa della loro confusione mentale. Per questo tanti li venerano."

"Spiegazione positivistica," disse Diotallevi.

"Sì," dissi, "forse sono un positivista. Con una bella operazione chirurgica alla ghiandola pineale i Templari avrebbero potuto diventare Ospita-fieri, vale a dire persone normali. La guerra corrompe i circuiti cerebrali,

deve essere il rumore delle cannonate, o del fuoco greco... Guardi i generali."

Era l'una. Diotallevi, inebriato dall'acqua tonica, ciondolava. Ci salutammo. Mi ero divertito. E anche loro. Non sapevamo ancora che stavamo iniziando a giocare col fuoco greco, che brucia, e consuma.
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Erardo di Siverey mi disse: "Sire, se voi provvedete che né io né il mio erede ne abbiamo disonore, andrò a chiedervi soccorso al conte d'Angiò, che vedo là mezzo ai campi." E io gli dissi: "Messere Erardo, parrai che vi farete grand'onore se andrete a cercare aiuto per le nostre vite, essendo ben incerta la vostra."

(Joinville, Histoire de Saint Louis, 46, 226)

 

Dopo la giornata dei Templari non ebbi con Belbo che conversazioni fugaci al bar, dove andavo sempre più di rado, perché stavo lavorando

alla tesi.

Un giorno c'era un grande corteo contro le trame nere, che doveva partire dall'università, e a cui erano stati invitati, come accadeva allora, tutti gli intellettuali antifascisti. Fastoso schieramento di polizia, ma sembrava che l'intesa fosse di lasciar correre. Tipico di quei tempi: corteo non autorizzato, ma se non fosse successo nulla di grave la forza pubblica sarebbe stata a guardare e a controllare (allora i compromessi territoriali erano molti) che la sinistra non trasgredisse alcuni confini ideali che erano stati tracciati nel centro di Milano. Entro un'area si muoveva la contestazione, al di là di largo Augusto e in tutta la zona di piazza San Babila stazionavano i fascisti. Se qualcuno sconfinava erano incidenti, ma per il resto non succedeva nulla, come tra domatore e leone. Noi crediamo di solito che il domatore sia assalito dal leone, ferocissimo, e che poi lo domi levando in alto la frusta o sparando un colpo di pistola. Errore: il leone è già sazio e drogato quando entra nella gabbia e non desidera aggredire nessuno. Come tutti gli animali ha un'area di sicurezza, al di fuori della quale può succedere quel che vuoi, e lui sta tranquillo. Quando il domatore mette il piede nell'area del leone, il leone ruggisce; poi il domatore leva la frusta, ma in effetti fa un passo indietro (come per prendere lo slancio per un balzo in avanti), e il leone si calma. Una rivoluzione simulata deve avere le proprie regole.

Ero andato al corteo, ma non mi ero collocato in uno dei gruppi. Stavo ai margini, in piazza Santo Stefano, dove circolavano giornalisti, redattori editoriali, artisti venuti a manifestare solidarietà. Tutto il bar Pilade.

Mi trovai accanto a Belbo. Era con una donna con cui l'avevo visto sovente al bar, e ritenevo che fosse la sua compagna (scomparve più tardi — ora so anche il perché, per aver letto la storia nel file sul dottor Wagner).

"Anche lei?" chiesi.

"Cosa vuole," sorrise imbarazzato. "Bisogna pur salvare l'anima. Crede firmiter et pecca fortiter. Non le ricorda qualcosa questa scena?"

Mi guardai intorno. Era un pomeriggio di sole, di quei giorni in cui Milano è bella, con le facciate gialle delle case e un cielo dolcemente metallico. La polizia di fronte a noi era catafratta nei suoi elmi e nei suoi scudi di plastica, che sembravano rinviare bagliori d'acciaio, mentre un commissario in borghese, ma cinto di un tricolore sgargiante, caracollava lungo il fronte dei suoi. Guardai dietro di me, la testa del corteo: la folla si muoveva, ma segnando il passo, le file erano composte ma irregolari, quasi serpentine, la massa appariva irta di picche, stendardi, striscioni, bastoni. Schieramenti impazienti intonavano a tratti slogan ritmati; lungo i fianchi del corteo caracollavano i katanga, con fazzoletti rossi sul viso, camicie multicolori, cinture torchiate sui jeans che avevano conosciuto tutte le piogge e tutti i soli; anche le armi improprie che impugnavano, mascherate da bandiere arrotolate, apparivano come elementi di una tavolozza, pensai a Dufy e alla sua allegria. Per associazione, da Dufy passai a Guillaume Dufay. Ebbi l'impressione di vivere in una miniatura, intra-vidi nella piccola folla ai lati delle schiere, alcune dame, androgine, che attendevano la grande festa di ardimento che era stata loro promessa. Ma tutto mi traversò la mente ín un lampo, sentii di rivivere un'altra esperienza, ma senza riconoscerla.

"Non è la presa di Ascalona?" domandò Belbo.

"Per il signor san Giacomo, mio buon signore," gli dissi, "è veramente la tenzone crociata! Tengo per fermo che questa sera alcuni tra costoro saranno in paradiso!"

"Sì," disse Belbo, "ma il problema è di sapere da che parte stanno i saraceni.''

"La polizia è teutonica," osservai, "tanto che noi potremmo essere le orde di Aleksandr Nevskij, ma forse confondo i miei testi. Guardi laggiù quel gruppo, debbono essere i sodali del conte d'Artois, fremono di attaccar tenzone, ché non possono sopportar l'oltraggio, e già si dirigono verso la fronte nemica, e la provocano con grida di minaccia!"

Fu a questo punto che accadde l'incidente. Non ricordo bene, il corteo si era mosso, un gruppo di attivisti, con catene e passamontagna, aveva cominciato a forzare lo schieramento della polizia per dirigersi in piazza San Babila, lanciando slogan aggressivi. Il leone si mosse, e con una certa decisione. La prima fila dello schieramento si aprì ed apparvero gli idranti. Dagli avamposti del corteo partirono le prime le prime pietre, un gruppo di poliziotti partì deciso in avanti, picchiando con violenza, e il corteo si mise a ondeggiare. In quel momento, lontano, verso il fondo di via Laghetto, si udì uno sparo. Forse era soltanto lo scoppio di un pneumatico, forse un petardo, forse una vera pistolettata d'avviso da parte di quei gruppi che entro qualche anno avrebbero usato regolarmente la P38.

Fu il panico. La polizia incominciò a mostrare le armi, si udirono gli squilli di tromba della carica, il corteo si divise tra i pugnaci, che accetta-vano lo scontro, e gli altri, che consideravano finito il loro compito. Mi trovai a fuggire per via Larga, con la paura folle di essere raggiunto da qualsiasi corpo contundente, manovrato da chiunque. Improvvisamente mi trovai accanto Belbo con la sua compagna. Correvano abbastanza veloci, ma senza panico.

Sull'angolo di via Rastrelli, Belbo mi afferrò per un braccio: "Per di qua, giovanotto," mi disse. Tentai di chiedere perché, via Larga mi pareva più confortevole e abitata, e fui preso da claustrofobia nel dedalo di viuzze tra via Pecorari e l'Arcivescovado. Mi pareva che, dove Belbo mi stava conducendo, mi sarebbe stato più difficile mimetizzarmi nel caso che la polizia ci venisse incontro da qualche parte. Mi fece cenno di stare zitto, girò due o tre angoli, decelerò gradatamente, e ci trovammo a camminare, senza correre, proprio sul retro del Duomo, dove il traffico era normale e non arrivavano echi della battaglia che si stava svolgendo a meno di duecento metri. Sempre in silenzio circumnavigammo il Duomo, e ci trovammo davanti alla facciata, dalla parte della Galleria. Belbo comperò un sacchetto di mangime e si mise a nutrire i piccioni con serafica le-tizia. Eravamo completamente mimetizzati con la folla del sabato, io e Belbo in giacca e cravatta, la donna in divisa da signora milanese, un maglione girocollo grigio e un filo di perle, coltivate o meno che fossero. Belbo me la presentò: "Questa è Sandra, vi conoscete?"

"Di vista. Salve."

"Vede Casaubon," mi disse allora Belbo, "non si scappa mai in linea retta. Sull'esempio dei Savoia a Torino, Napoleone III ha fatto sventrare Parigi trasformandola in una rete di boulevard, che tutti ammiriamo come capolavoro di sapienza urbanistica. Ma le strade dritte servono a controllare meglio le folle in rivolta. Quando si può, vedi i Champs Elysées, anche le vie laterali debbono essere larghe e dritte. Quando non si è potuto, come nelle stradette del Quartiere Latino, allora è lì che il maggio '68 ha dato il meglio di sé. Quando si scappa si entra nelle viuzze. Nessuna forza pubblica può controllarle tutte, e anche i poliziotti hanno paura di penetrarvi in gruppi isolati. Se ne incontri due da soli, hanno più paura di te, e per comune accordo vi mettete a scappare in direzioni opposte. Quando si partecipa a un raduno di massa, se non si conosce bene la zona il giorno prima si fa una ricognizione dei luoghi, e poi ci si colloca all'angolo da dove si dipartono le strade piccole."

"Ha seguito un corso in Bolivia?"

"Le tecniche di sopravvivenza si imparano solo da bambini, a meno che uno da grande non si arruoli nei Berretti Verdi. Io ho passato i tempi brutti, quelli della guerra partigiana, a ***," e mi nominò un paese tra Monferrato e Langhe. "Sfollati dalla città nel '43, un calcolo mirabile: il luogo e il tempo giusto per goderci tutto, i rastrellamenti, le SS, le sparatorie per le str Ricordo una sera, salivo la collina per andare a prendere del latte esco in una cascina, e sento un rumore sopra la testa, tra le cime degli alberi: frr, frr. Mi rendo conto che da una collina distante, da-vanti a me, stanno mitragliando la linea ferroviaria, che è a valle, dietro di me. L'istinto è quello di scappare, o di buttarsi a terra. Io commetto un errore, corro verso valle, e a un certo punto sento nei campi intorno a me un ciacc ciacc ciacc. Erano i tiri corti, che cadevano prima di arrivare alla ferrovia. Capisco che se sparano da monte, molto in alto, lontano verso valle, devi scappare in salita: più sali, più i proiettili ti passano alti sopra

la testa. Mia nonna, durante una sparatoria tra fascisti e partigiani che si affrontavan dai due lati di un campo di granoturco, ebbe un'idea sublime: siccome da qualsiasi parte fosse scappata rischiava di beccarsi una pallottola vagante, si è buttata a terra nel mezzo del campo, proprio tra le due linee di tiro. E stata dieci minuti così, faccia a terra, sperando che una delle due schiere non avanzasse troppo. Le è andata bene. Vede, quando uno queste cose le impara da piccolo, rimangono nei circuiti nervosi."

"Così lei si è fatto la resistenza, come si suoi dire."

"Da spettatore," disse. E avvertii un lieve imbarazzo nella sua voce. "Nel quarantatré avevo undici anni, alla fine della guerra ne avevo appena tredici. Troppo presto per prendere parte, abbastanza per seguire tutto, con un'attenzione direi fotografica. Ma che potevo fare? Stavo a guardare. E a scappare, come oggi."

"Adesso potrebbe raccontare, invece di correggere i libri degli altri."

"E già stato raccontato tutto, Casaubon. Se allora avessi avuto vent'anni, negli anni cinquanta avrei fatto poesia della memoria. Per fortuna sono nato troppo tardi, quando avrei potuto scrivere non mi rimaneva che leggere i libri già scritti. D'altra parte, avrei potuto anche finire con una pallottola in testa, sulla collina."

"Da che parte?" chiesi, poi mi sentii imbarazzato. "Scusi, era una battuta."

"No, non era una battuta. Certo, io oggi lo so, ma lo so oggi. Lo sapevo allora? Sa che si può essere ossessionati dal rimorso tutta la vita, non per aver scelto l'errore, di cui almeno ci sí può pentire, ma per essersi trovati nell'impossibilità di provare a se stessi che non si sarebbe scelto l'errore... Io sono stato un traditore potenziale. Che diritto avrei ormai di scrivere qualsiasi verità e di insegnarla agli altri?"

"Mi scusi," dissi, "potenzialmente lei poteva diventare anche il mostro della via Salaria, ma non lo è diventato. Questa è nevrosi. O il suo rimorso si appoggia su indizi concreti?"

"Che cos'è un indizio in queste cose? E a proposito di nevrosi, questa sera c'è una cena col dottor Wagner. Vado a prendere un tassi in piazza della Scala. Andiamo, Sandra?"

"Il dottor Wagner?" chiesi, mentre li salutavo. "In perso

"Sì, è a Milano per qualche giorno e forse lo convinco a darci qualcuno dei suoi saggi inediti per farne un volumetto. Sarebbe un bel colpo."

Dunque a quell'epoca Belbo era già in contatto col dottor Wagner. Mi chiedo se sia stata quella sera che Wagner (pronuncia Wagnère) psicoanalizzò Belbo gratis, e senza che nessuno dei due lo sapesse. O forse accadde dopo.

Comunque quel giorno fu la prima volta che Belbo accennò alla sua infanzia a ***. Curioso che fosse il racconto di alcune fughe — quasi gloríose, nella gloria del ricordo, ma riaffiorate alla memoria dopo che, con me ma di fronte a me, ingloriosamente, se pure con saggezza, egli era di nuovo fuggito.
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Dopodiché fratello Stefano di Provins, portato alla presenza dei detti commissari, e richiesto da questi se voleva difendere l'ordine, disse che non voleva, e che se i maestri volevano di-fenderlo, che lo facessero, ma lui prima dell'arresto era stato nell'ordine solo per nove mesi.

(Deposizione del 27.11.1309)

 

Avevo trovato su Abulafia il racconto di altre fughe. E ci pensavo l'al-tra sera nel periscopio, mentre al buio percepivo una sequenza di fruscii, scricchiolii, cigolii — e mi dicevo di star calmo perché quello era il modo in cui i musei, le biblioteche, gli antichi palazzi si parlano addosso di notte, sono solo vecchi armadi che si assestano, cornici che reagiscono al-l'umidità vespertina, intonachi che si sgretolano avari, un millimetro al secolo, muraglie che sbadigliano. Non puoi fuggire, mi dicevo, perché sei qui proprio per sapere cosa sia accaduto a qualcuno che ha cercato di por fine a una serie di fughe con un atto di coraggio dissennato (o disperato), forse per accelerare quell'incontro tante volte rinviato con la verità.

 

filename: Canaletto

Sono scappato davanti a una carica di polizia o di nuovo davanti alla sto-ria? E fa differenza? Sono andato al corteo per una scelta morale o per mettermi ancora una volta alla prova davanti all'Occasione? Va bene, ho perduto le grandi occasioni perché arrivavo troppo presto, o troppo tardi, ma la colpa era dell'anagrafe. Avrei voluto essere in quel prato a sparare, anche a costo di colpire la nonna. Non ero assente per viltà, ma per età. D'accordo. E al corteo? Sono fuggito di nuovo per ragioni generazionali, quello scontro non mi riguardava. Ma avrei potuto rischiare, anche senza entusiasmo, per provare che allora, nel prato, avrei saputo scegliere. Ha senso scegliere l'Occasione sbagliata per convincersi che si sarebbe scelta l'Occasione giusta? Chissà quanti di quelli che oggi hanno accettato lo scontro hanno fatto così. Ma un'occasione falsa non è l'Occasione buona.

Si può essere vili perché il coraggio degli altri ti pare sproporzionato alla vacuità della circostanza? Allora la saggezza rende vili. E quindi si manca l'Occasione buona quando si passa la vita a spiare l'Occasione e a ragionarci su. L'Occasione si sceglie d'istinto, e sul momento non sai che è l'Occasione. Forse una volta l'ho colta, e non l'ho mai saputo? Come si fa ad avere la coda di paglia e a sentirsi vigliacco solo perché si è nato nel decennio sbagliato? Risposta: ti senti vigliacco perché una volta sei stato vigliacco.

E se anche quella volta avessi evitato l'Occasione perché la sentivi inadeguata?

Descrivere la casa di ***, isolata sulla collina tra le vigne - non si dice le colline a forma di mammella? - e poi la strada che conduceva ai margini del

paese, all'imbocco dell'ultimo viale abitato - o il primo (certo che non lo saprai mai se non scegli il punto di vista). Il piccolo sfollato che abbandona la protezione familiare e penetra nell'abitato tentacolare, lungo il viale costeggia e invidioso paventa il Viottolo.

Il Viottolo era il luogo di raccolta della banda del Viottolo. Ragazzi di campagna, sporchi, vocianti. Ero troppo di città, meglio evitarli. Ma per raggiungere la piazza, e l’edicola, e la cartoleria, a meno di tentare un periplo quasi equatoriale e poco dignitoso, non restava che passare per il Canaletto. I ragazzi del Viottolo erano dei piccoli gentiluomini rispetto a quelli della banda del Canaletto, dal nome di un ex torrente, diventato canalaccio di scolo, che ancora traversava la zona più povera dell'abitato. Quelli del Canaletto erano davvero luridi, sottoproletari e violenti.

Quelli del Viottolo non potevano attraversare la zona del Canaletto senza essere assaliti e picchiati. All'inizio non sapevo di essere del Viottolo, ero appena arrivato, ma quelli del Canaletto mi avevano già identificato come nemico. Passavo dalle loro parti con un giornalino aperto davanti agli occhi, camminavo leggendo, e quelli mi avvistarono. Mi misi a correre, e loro dietro, tirarono dei sassi, uno attraversò il giornalino, che continuavo a tenere aperto davanti a me mentre correvo, per darmi un contegno. Salvai la vita ma perdetti il giornalino. Il giorno dopo decisi di arruolarmi nella banda del Viottolo.


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 36 | Нарушение авторских прав



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