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Il pendolo di Foucault 44 страница

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Dovevo tornare all'albergo. Avrei trovato un altro tassi? Per quel che ne avevo capito, avrei potuto essere in estrema banlieue. Avevo puntato verso la direzione da dove perveniva una luce più chiara e diffusa e si intravedeva il cielo aperto. La Senna?

E arrivato all'angolo la vidi.

Alla mia sinistra. Avrei dovuto sospettare che era lì, in agguato nei pressi, in quella città i nomi delle vie tracciavano un messaggio inequivocabile, si era sempre messi sull'avviso, peggio per me che non ci avevo pensato.

Era lì, l'immondo ragno minerale, il simbolo, lo strumento del loro potere: avrei dovuto fuggire e invece mi sentivo attratto verso la tela, muovendo la testa dal basso all'alto e viceversa, perché ormai non potevo più coglierla con un solo colpo d'occhio, ero praticamente dentro, ero sciabolato dai suoi mille spigoli, mi sentivo bombardato di saracinesche che calavano da ogni parte, se appena essa si fosse mossa avrebbe potuto schiacciarmi con una di quelle sue zampe di meccano.

La Tour. Ero nell'unico punto della città in cui non la si vede da lontano, di profilo, affacciarsi amichevole dall'oceano dei tetti, frivola come in un quadro di Dufy. Era sopra di me, mi planava addosso. Ne indovinavo la punta, ma mi muovevo prima intorno e poi dentro il basamento, stretto tra un piede e l'altro, ne scorgevo i garretti, il ventre, le pudenda, ne indovinavo il vertiginoso intestino, tutt'uno con l'esofago di quel suo collo di giraffa politecnica. Traforata, aveva il potere di oscurare la luce che aveva intorno, e come mi muovevo mi offriva, da prospettive diverse, diversi fornici cavernosi che inquadravano zumate sulla tenebra.

Ora alla sua destra, ancora bassa sull'orizzonte, verso nordest, era sorta una falce di luna. Talora la torre me la incorniciava come se fosse un'illusione ottica, una fluorescenza di uno di quei suoi schermi sbilenchi, ma bastava che mi muovessi, gli schermi cambiavano formato, la luna non c'era più, era andata ad aggrovigliarsi tra qualche costola metallica, l'animale l'aveva stritolata, digerita, fatta scomparire in un'altra dimensione.

Tesseract. Cubo tetradimensionale. Ora vedevo attraverso un'arcata una luce mobile, anzi due, rosso e bianco, che lampeggiavano, certamente un aereo in cerca di Roissy, o di Orly, che so. Ma subito — mi ero spostato io, o l'aereo, o la Torre — le luci scomparivano dietro una nervatura, attendevo di vederle riapparire nell'altro riquadro, e non c'erano più. La Tour aveva cento finestre, tutte mobili, e ciascuna dava su un segmento diverso dello spazio tempo. Le sue costole non segnavano delle pieghe euclidee, spezzavano il tessuto del cosmo, ribaltavano catastrofi, sfoglia-vano pagine di mondi paralleli.

Chi aveva detto che questa guglia di Notre Dame de la Brocante serviva a "suspendre Paris au plafond de l'univers"? Al contrario, serviva a sospendere l'universo alla propria guglia — è naturale, non è 1'Ersatz del Pendolo?

Come l'avevano chiamata? Supposta solitaria, obelisco vuoto, gloria del fil di ferro, apoteosi della pila, altare aereo di un culto idolatrico, ape nel cuore della rosa dei venti, triste come una rovina, laido colosso colore della notte, simbolo difforme di forza inutile, prodigio assurdo, insensata piramide, chitarra, calamaio, telescopio, prolissa come il discorso di un ministro, dio antico e bestia moderna... Questo e altro, era, e se avessi avuto il sesto senso dei Signori del Mondo, ora che ero preso nel suo fascio di corde vocali incrostate di polipi bullonati l'avrei sentita bisbigliare roca la musica delle sfere, la Tour stava in quel momento succhiando onde dal cuore della terra cava e le ritrasmetteva a tutti i menhir del mondo. Rizoma di snodi chiodati, artrosi cervicale, protesi di una protesi — che orrore, da dove mi trovavo, per sfracellarmi nell'abisso avrebbero dovuto precipitarmi verso il culmine. Stavo certo uscendo da un viaggio attraverso ilceptro della terra, ero nella vertigine antigravitazionale degli antipodi.

Non avevamo fantasticato, essa ora mi appariva la prova incombente del Piano, ma tra poco si sarebbe accorta che ero la spia, il nemico, il granello di polvere nell'ingranaggio di cui essa era l'immagine e il motore, avrebbe dilatato insensibilmente una losanga di quel suo merletto plumbeo e mi avrebbe inghiottito, sarei sparito in una piega del suo niente, trasferito nell'Altrove.

Se fossi restato ancora un poco sotto il suo traforo, i suoi grandi artigli si sarebbero rinserrati, si sarebbero incurvati come zanne, mi avrebbero succhiato, e poi l'animale avrebbe ripreso la sua posizione sorniona di temperamatite criminale e sinistro.

Un altro aereo: questo non arrivava da nessuna parte, lo aveva generato lei tra l'una e l'altra delle sue vertebre di mastodonte spolpato. La guardavo, non finiva mai, come il progetto per cui era nata. Se fossi restato senza essere divorato avrei potuto seguire i suoi spostamenti, le sue rivoluzioni lente, il suo scomporsi e ricomporsi infinitesimale sotto la brezza fredda delle correnti, forse i Signori del Mondo la sapevano interpretare come un tracciato geomantico, nelle sue impercettibili metamorfosi avrebbero letto segnali decisivi, mandati inconfessabili. La Torre mi girava sopra il capo, cacciavite del Polo Mistico. Oppure no, stava immobile come un perno magnetizzato, e faceva roteare la volta celeste. La vertigine era la stessa.

Come si difende bene la Tour, mi dicevo, da lontano ammicca affettuosa, ma se ti appressi, se cerchi di penetrare il suo mistero, ti uccide, ti gela le ossa, semplicemente ostentando lo spavento insensato di cui è fatta. Ora so che Belbo è morto e che il Piano è vero, perché è vera la Torre. Se non riesco a fuggire, a fuggire ancora una volta, non potrò dirlo a nessuno. Bisogna dare l'allarme.

 

Rumore. Alt, si torna alla realtà. Un tassì che avanzava a gran velocità. Riuscii con un balzo a sottrarmi alla cinta magica, feci ampi segni, quasi rischiai di farmi travolgere, perché il tassista frenò solo all'ultimo secondo, come se si fermasse malvolentieri – nel percorso mi avrebbe detto che anche a lui, quando vi passa sotto di notte, la Torre fa paura, e accelera. "Perché?" gli avevo chiesto. "Parce que... parce que ça fait peur, c'est tout."

 

Fui in breve al mio albergo. Dovetti suonare a lungo per svegliare un portiere sonnacchioso. Mi dissi: devi dormire, ora. Il resto a domani. Presi qualche pastiglia, tante da avvelenarmi. Poi non ricordo.
117

Ha la follia un enorme padiglione che d'ogni luogo ricetta persone, specie se han oro e potenza a profusione.

 

(Sebastian Brant, Das Narrenschif, f, 46)

 

Mi ero svegliato alle due del pomeriggio, intontito e catatonico. Ricordavo esattamente tutto, ma non avevo alcuna garanzia che quel che ricordavo fosse vero. Dapprima avevo pensato di correre da basso per comperare i giornali, poi mi ero detto che in ogni caso, quand'anche una compagnia di spahi fosse penetrata nel Conservatoire subito dopo l'evento, la notizia non avrebbe fatto in tempo ad apparire sui giornali del mattino.

E poi Parigi quel giorno aveva altro a cui pensare. Me lo aveva detto subito il portiere, appena ero sceso a cercare un caffè. La città era in subbuglio, molte stazioni del metró erano state chiuse, in alcuni luoghi la polizia caricava, gli studenti erano troppi e stavano esagerando.

Avevo trovato sulla guida telefonica il numero del dottor Wagner. Avevo anche provato a telefonare, ma era ovvio che di domenica non fosse in studio. Dovevo in ogni caso andare a controllare al Conservatoire. Ricordavo che apriva anche la domenica pomeriggio.

 

Il quartiere latino era agitato. Passavano gruppi vocianti con bandiere. Sull'Ile de la Cíté avevo visto uno sbarramento di polizia. Sul fondo si sentivano dei colpi. Doveva essere stato così nel sessantotto. All'altezza della Saínte Chapelle c'era stata maretta, sentivo un odore di lacrimogeni. Avevo udito una sorta di carica, non sapevo se fossero gli studenti o i flic, la gente intorno a me correva, ci eravamo rifugiati dietro una cancellata, con un cordone di poliziotti davanti, mentre nella strada avvenivano dei trambusti. Che vergogna, io ormai coi borghesi attempati, ad aspettare che la rivoluzione si calmasse.

Poi avevo trovato via libera, facendo strade secondarie intorno alle vecchie Halles, e mi ero ritrovato in me St-Martin. Il Conservatoire era aperto, col suo cortile bianco, la placca sulla facciata: "Il conservatoire des arts et métiers istituito per decreto della convenzione del 19 vendemmiaio anno III... nell'antico priorato di Saint-Martin-des-Champs fondato nell'undicesimo secolo." Tutto regolare, con una piccola folla domenicale, insensibile alla kermesse studentesca.

Ero entrato – gratis di domenica – e ogni cosa era come il pomeriggio prima alle cinque. I guardiani, i visitatori, il Pendolo al suo posto consueto... Cercavo le tracce di quanto era avvenuto ma, se era avvenuto, qualcuno aveva fato una coscienziosa polizia. Se era avvenuto.

 

Non mi ricordo come ho passato il resto del pomeriggio. Non mi ricordo neppure che cosa ho visto bighellonando per le strade, costretto ogni tanto a svicolare per evitare un trambusto. Ho chiamato Milano, tanto per provare. Scaramanticamente, ho fatto il numero di Belbo. Poi quello di Lorenza. Poi la Garamond, che non poteva essere che chiusa. Eppure, se stanotte è ancora oggi, tutto è avvenuto ieri. Ma dall'altro ieri a questa notte è passata un'eternità.

Verso sera mi sono accorto che ero digiuno. Volevo tranquillità, e qualche fasto. Presso al Forum des Halles sono entrato in un ristorante che mi prometteva del pesce. Anche troppo. Il tavolo proprio di fronte a un acquario. Un universo abbastanza irreale da ripiombarmi in un clima di sospetto assoluto. Nulla è per caso. Quel pesce sembra un esicasta asmatico che sta perdendo la fede e accusa Dio di aver diminuito di senso l'universo. Sabaoth Sabaoth, come fai a essere così maligno da farmi credere che non ci sei? Come una cancrena, la carne si stende sul mondo... Quell'altro sembra Minnie, sbatte le lunghe ciglia e fa la boccuccia a cuore. Minnie è la fidanzata di Topolino. Mangio una salade folle con un haddock morbido come carni di bimbi. Con miele e pepe. I pauliciani sono qui. Quello plana tra i coralli come l'aeroplano di Breguet — lunghi battiti d'ali di lepidottero, cento a uno che ha addocchiato il suo feto di homunculus abbandonato sul fondo di un atanòr ormai bucato, gettato tra la spazzatura di fronte alla casa di Flamel. E poi un pesce templare, tutto loricato di nero, cerca Noffo Dei. Sfiora l'esicasta asmatico, che naviga assorto e corrucciato verso l'indicibile. Volgo lo sguardo, al di là della strada scorgo l'insegna di un altro ristorante, CHEZ R... Rosa-Croce? Reuchlin? Rosispergius? Raèkovskijragotzitzarogi? Segnature, segnature...

Vediamo, l'unico modo di mettere in imbarazzo il diavolo è fargli credere che non ci credi. Non c'è da ragionar molto sulla corsa notturna per Parigi, e sulla visione della Torre. Uscire dal Conservatoire, dopo che si è visto o creduto di vedere quel che si è visto, e vivere la città come un incubo, è normale. Ma che cosa ho visto al Conservatoire?

Dovevo assolutamente parlare col dottor Wagner. Non so perché mi fossi messo in testa che quella era la panacea, ma era così. Terapia della parola.

Come ho fatto venire stamattina? Mi pare di essere entrato in un cinema dove davano La signora di Shanghai, di Orson Welles. Quando sono arrivato alla scena degli specchi, non ho retto e sono uscito. Ma forse non è vero, me lo sono immaginato.

Questa mattina ho telefonato alle nove al dottor Wagner, il nome Garamond mi ha permesso di superare la barriera della segretaria, il dottore è parso ricordarsi di me, di fronte all'urgenza che gli prospettavo mi ha detto di andare subito, alle nove e mezzo, prima che arrivassero gli altri pazienti. Mi era parso gentile e comprensivo.

 

Forse ho sognato anche la visita al dottor Wagner. La segretaria mi ha chiesto le generalità, ha preparato una scheda, mi ha fatto pagare l'onorario. Per fortuna avevo già il biglietto di ritorno.

Uno studio di dimensioni ridotte, senza divanetto. Finestre sulla Senna, a sinistra l'ombra della Tour. Il dottor Wagner mi ha accolto con affabilità professionale — in fondo è giusto, non ero più uno dei suoi editori, ero un suo cliente. Con un gesto ampio e pacato mi ha invitato a sedere davanti a lui, dall'altra parte del tavolo, come un impiegato del ministero. "Et alors?" Ha detto così, e ha impresso un impulso alla sua poltrona girevole, dandomi le spalle. Stava a capo chino, e mi pareva tenesse le mani giunte. Non mi rimaneva che parlare.

Ho parlato, come una cateratta, ho tirato fuori tutto, dall'inizio alla fine, quello che pensavo due anni fa, quello che pensavo l'anno scorso, quello che pensavo che Belbo avesse pensato, e Diotallevi. E soprattutto quello che è accaduto la notte di San Giovanni.

Wagner non mi ha mai interrotto, non ha mai annuito, o mostrato disapprovazione. Per quel che ne so, poteva essere sprofondato nel sonno. Ma dev'essere la sua tecnica. E io parlavo. Terapia della parola.

Poi ho atteso, di parola, la sua, che mi salvasse.

Wagner si è alzato, lentissimamente. Senza voltarsi verso di me ha fatto un giro intorno alla scrivania e si è portato alla finestra. Ora guardava dai vetri, con le mani incrociate dietro la schiena, assorto.

In silenzio, per circa dieci, quindici minuti.

Poi, sempre dandomi le spalle, con voce incolore, calma, rassicurante: "Monsieur, vous étes fou."

Lui è rimasto immobile, io lo stesso. Dopo altri cinque minuti, ho capito che non avrebbe più continuato. Fine della seduta.

Sono uscito senza salutare. La segretaria mi ha fatto un ampio sorriso, e mi sono ritrovato in avenue Elisée Reclus.

 

Erano le undici. Ho raccolto le mie cose all'albergo e mi sono precipitato all'aeroporto, fidando nella buona sorte. Ho dovuto attendere due ore, e frattanto ho chiamato a Milano la Garamond, collect, perché non avevo più un soldo. Ha risposto Gudrun, sembrava inebetita più del solito, le ho dovuto gridare tre volte che dicesse sì, oui, yes, che accettava la chiamata.

Piangeva: Diotallevi è morto sabato sera a mezzanotte.

"E nessuno, nessuno dei suoi amici al funerale, stamattina, che vergogna! Neppure il signor Garamond, che dicono che è in viaggio all'estero. Io, la Grazia, Luciano, e un signore tutto nero, la barba, le basette a ricciolo e un cappellone che sembrava un beccamorto. Dio sa da dove veniva. Ma dov'era lei, Casaubon? E dov'è Belbo? Che cosa sta succedendo?"

Ho mormorato spiegazioni confuse e ho messo giù il telefono. Mi hanno chiamata, e sono salito sull'aereo.

 

JESOD

 


La teoria sociale della cospirazione... è una conseguenza del venir meno del riferimento a Dio, e della conseguente do-manda: "Chi c'è al suo posto?"

 

(Karl Popper, Conjectures and rei utations, London, Routledge, 1969, i, 4)

 

Il viaggio mi ha fatto bene. Non solo avevo lasciato Parigi, ma avevo lasciato il sottosuolo, addirittura il suolo, la crosta terrestre. Cielo e montagne ancora bianche di neve. La solitudine a diecimila metri, e quel senso di ebbrezza che dà sempre il volo, la pressurizzazione, l'attraversamento di una lieve turbolenza. Pensavo che solo lassù stavo ritornando coi piedi per terra. E ho deciso di fare il punto, dapprima elencando dei punti sul mio taccuino, poi lasciandomi andare, a occhi chiusi.

 

Ho deciso di elencare anzitutto le evidenze inconfutabili.

È indubbio che Diotallevi è morto. Me lo ha detto Gudrun. Gudrun è sempre rimasta fuori della nostra storia, non l'avrebbe capita, e dunque è rimasta la sola a dire la verità. Poi è vero che Garamond non era a Milano. Certo, potrebbe essere ovunque, ma il fatto che non ci sia e non ci fosse nei giorni scorsi lascia credere che fosse a Parigi, dove l'ho visto.

Del pari, non c'è Belbo.

Ora, proviamo a pensare che quello che ho visto sabato sera a Saint-Martin-des-Champs sia realmente accaduto. Forse non come l'ho visto io, sedotto dalla musica e dagli incensi, ma qualcosa è avvenuto. E come la storia di Amparo. Rientrando a casa lei non era certo sicura di essere stata invasata dalla Pomba Gira, ma sapeva di certo che nella tenda de umbanda c'era stata, e che aveva creduto che – o si era comportata come se – la Pomba Gira l'avesse posseduta.

Infine, quello che mi ha detto Lia in montagna è vero, la sua lettura era assolutamente convincente, il messaggio di Provins era una nota della lavandaia. Non ci sono mai state riunioni di Templari alla Grange-aux-Dimes. Non c'era Piano e non c'era messaggio.

La nota della lavandaia per noi è stato un cruciverba dalle caselle ancora vuote, ma senza le definizioni. Dunque occorre riempire le caselle in modo che tutto si incroci a dovere. Ma forse l'esempio è impreciso. Nel cruciverba si incrociano parole e le parole debbono incrociarsi su una lettera comune. Nel nostro gioco non incrodavamo parole, ma concetti e fatti, e dunque le regole erano diverse, ed erano fondamentalmente tre.

Prima regolai concetti si collegano per analogia. Non ci sono regole per decidere all'inizio se un'analogia sia buona o cattiva, perché qualsiasi cosa è simile a qualsiasi altra sotto un certo rapporto. Esempio. Patata si incrocia con mela, perché entrambe sono vegetali e tondeggianti. Da mela a serpente, per connessione biblica. Da serpente a ciambella, per similitudine formale, da ciambella a salvagente e di lì a costume da bagno, dal bagno alla carta nautica, dalla carta nautica alla carta igienica, dall'igiene all'alcool, dall'alcool alla droga, dalla droga alla siringa, dalla siringa al buco, dal buco al terreno, dal terreno alla patata.

Perfetto. La seconda regola dice infatti che, se alla fine tout se tient, il gioco è valido. Da patata a patata, tout se tient. Dunque è giusto.

Terza regola: le connessioni non debbono essere inedite, nel senso che debbono essere già state poste almeno una volta, e meglio se molte, da altri. Solo così gli incroci appaiono veri, perché sono ovvi.

Che era poi l'idea del signor Garamond: i libri dei diabolici non debbono innovare, debbono ripetere il già detto, altrimenti dove va a finire la forza della Tradizione?

Così abbiamo fatto noi. Non abbiamo inventato nulla, salvo la disposizione dei pezzi. Così aveva fatto Ardenti, non aveva inventato nulla, salvo che aveva disposto i pezzi in modo goffo, e inoltre era meno colto di noi, i pezzi non li aveva tutti.

Essi avevano i pezzi, ma non avevano lo schema del cruciverba. E poi noi — ancora una volta — eravamo più bravi.

Ricordavo una frase che mi aveva detto Lia in montagna, quando mi rimproverava per aver fatto un brutto gioco: "La gente è affamata di piani, se gliene offri uno ci si getta sopra come una muta di lupi. Tu inventi e loro credono. Non bisogna suscitare più immaginario di quanto ce ne sia."

In fondo accade sempre così. Un giovane Erostrato si rode perché non sa come diventare famoso. Poi vede un film in cui un ragazzo fragile spara contro la diva della country music e crea l'evento del giorno. Ha trovato la formula, va e spara a John Lennon.

È come per gli APS. Come faccio a diventare un poeta pubblicato che finisce sulle enciclopedie? E Garamond gli spiega: semplice, paghi. L'APS non ci aveva mai pensato prima, ma visto che esiste il piano della Manuzio, vi si identifica. L'APS è convinto che attendeva la Manuzio sin dall'infanzia, solo che non sapeva che c'era.

Conseguenza, noi abbiamo inventato un Piano inesistente ed Essi non solo lo hanno preso per buono, ma si sono convinti di esserci dentro da tempo, ovvero hanno identificato i frammenti dei loro progetti disordinati e confusi come momenti del Piano nostro, scandito secondo un'inconfutabile logica dell'analogia, della parvenza, del sospetto.

Ma se inventando un piano gli altri lo realizzano, il Piano è come se ci fosse, anzi, ormai c'è.

Da questo momento torme di diabolici percorreranno il mondo alla ricerca della mappa.

Abbiamo offerto una mappa a persone che cercavano di vincere una loro oscura frustrazione. Quale? Me lo aveva suggerito l'ultimo file di Belbo: non ci sarebbe fallimento se davvero ci fosse un Piano. Sconfitta, ma non per colpa tua. Soccombere di fronte a un complotto cosmico non è vergogna. Non sei vile, sei martire.

Non ti lamenti di essere mortale, preda di mille microrganismi che non domini, non sei responsabile dei tuoi piedi poco prensili, della scomparsa della coda, dei capelli e dei denti che non ricrescono, dei neuroni che semini strada facendo, delle vene che si induriscono. Sono gli Angeli Invidiosi.

E lo stesso vale per la vita di tutti i giorni. Come i crolli in borsa. Avvengono perché ciascuno fa un movimento sbagliato, e tutti i movimenti sbagliati insieme creano il panico. Poi chi non ha í nervi saldi si chiede: ma chi ha ordito questo complotto, a chi giova? E guai a non trovare un nemico che abbia complottato, ti sentiresti colpevole. Ovvero, siccome ti senti colpevole, inventi un complotto, anzi molti. E per batterli, devi organizzare il tuo complotto.

E più escogiti i complotti altrui, per giustificare la tua incomprensione, più te ne innamori, e concepisci il tuo sulla loro misura. Che è poi quello che era successo quando tra gesuiti e baconiani, pauliciani e neotemplari, ciascuno si rinfacciava il piano dell'altro. Allora Diotallevi aveva osservato: "Certo, attribuisci agli altri quello che stai facendo tu, e siccome tu stai facendo una cosa odiosa gli altri diventano odiosi. Siccome però gli altri vorrebbero, di solito, fare proprio quella cosa odiosa che stai facendo tu, essi collaborano con te lasciando credere che — sì — in realtà quello che gli attribuisci è quello che essi hanno sempre desiderato. Dio accieca coloro che vuol perdere, basta aiutarLo."

Un complotto, se complotto dev'essere, è segreto. Ci dev'essere un segreto conoscendo il quale noi non saremmo più frustrati, perché o sarebbe il segreto che ci porta alla salvezza o il conoscere il segreto si identificherebbe con la salvezza. Esiste un segreto così luminoso?

Certo, a patto di non conoscerlo mai. Svelato, non potrebbe che deluderci. Non mi aveva parlato Agliè della tensione verso il mistero, che agitava l'epoca degli Antonini? Eppure era appena arrivato qualcuno che si era dichiarato il figlio di Dio, il figlio di Dio che si fa carne, e redime i peccati del mondo. Era un mistero da poco? E prometteva la salvezza a tutti, bastava amare il prossimo loro. Era un segreto da nulla? E lasciava in legato che chiunque pronunciasse le parole giuste nel momento giusto poteva trasformare un pezzo di pane e mezzo bicchiere di vino nella carne e nel sangue del figlio di Dio, e nutrirsene. Era un enigma da buttar via? E induceva i padri della chiesa a congetturare, e poi a dichiarare, che Dio fosse e Uno e Trino e che lo Spirito procedesse dal Padre e dal Figlio, ma non il Figlio dal Padre e dallo Spirito. Era una formuletta per gli Ilici? Eppure quelli, che avevano ormai la salvezza a portata di mano — do it yourself — niente. La rivelazione è tutta qui? Che banalità: e via a girare isterici con le loro liburne per tutto il Mediterraneo a cercare un altro sapere perduto, di cui quei dogmi da trenta denari fossero solo il velo superficiale, la parabola per i poveri di spirito, il geroglifico allusivo, la strizzata d'occhi agli Pneumatici. Il mistero trinitario? Troppo facile, ci dev'essere qualcosa d'altro sotto.

C'era un tale, forse Rubinstein, che quando gli avevano chiesto se credeva in Dio aveva risposto: "Oh no, io credo... in qualcosa di molto più grande..." Ma c'era un altro (forse Chesterton?) che aveva detto: da quando gli uomini non credono più in Dio, non è che non credano più a nulla, credono a tutto.

Tutto non è un segreto più grande. Non ci sono segreti più grandi, perché appena rivelati appaiono piccoli. C'è solo un segreto vuoto. Un segreto che slitta. Il segreto della pianta orchis è che significa e agisce sui testicoli, ma i testicoli stanno a significare un segno zodiacale, questo una gerarchia angelica, questa una gamma musicale, la gamma un rapporto tra umori, e così di seguito, l'iniziazione è apprendere a non fermarsi mai, si sbuccia l'universo come una cipolla, e una cipolla è tutta buccia, immaginiamoci una cipolla infinita, che abbia il centro da ogni parte e la circonferenza in nessun luogo, o fatta ad anello di Moebius.

Il vero iniziato è colui che sa che il più potente dei segreti è un segreto senza contenuto, perché nessun nemico riuscirà a farglielo confessare, nessun fedele riuscirà a sottrarglielo.

Ora mi risultava più logica, conseguente, la dinamica del rito notturno davanti al Pendolo. Belbo aveva sostenuto di possedere un segreto, e per questo aveva acquistato potere su di Essi. Il loro impulso, persino di un uomo così avveduto come Agliè, che aveva subito battuto il tam tam per convocare tutti gli altri, è stato di carpirglielo. E quanto più Belbo si rifiutava di rivelarlo, tanto più Essi ritenevano che il segreto fosse grande, e quanto più lui giurava di non possederlo, tanto più erano convinti che lo possedesse, e fosse un segreto vero, perché se fosse stato falso lo avrebbe rivelato.

Per secoli la ricerca di questo segreto era stato il cemento che li aveva tenuti insieme, pur tra le scomuniche, le lotte intestine, i colpi di mano. Ora erano in procinto di conoscerlo. E sono stati assaliti da due terrori: che il segreto fosse deludente, e che — diventando noto a tutti — non rimanesse più alcun segreto. Sarebbe stata la loro fine.

É stato a quel punto che Agliè ha intuito che se Belbo avesse parlato, tutti avrebbero saputo, e lui, Agliè, avrebbe perduto l'aura imprecisata che gli conferiva carisma e potere. Se Belbo si fosse confidato con lui soltanto, Agliè avrebbe continuato a essere San Germano, l'immortale — la dilazione della sua morte coincideva con la dilazione del segreto. Ha tentato di indurre Belbo a parlargli all'orecchio, e quando ha capito che non sarebbe stato possibile, lo ha provocato preconizzando la sua resa, ma ancor più dandogli spettacolo di fatuità. Oh, lo conosceva bene, il vecchio conte, sapeva che su gente di quelle parti la testardaggine e il senso del ridicolo la vincono anche sulla paura. Lo ha obbligato ad alzare il tono della sfida e a dire no in modo definitivo.

E gli altri, per lo stesso timore, hanno preferito ucciderlo. Perdevano la mappa — avrebbero avuto i secoli per cercarla ancora — ma salvavano la freschezza del loro decrepito e bavoso desiderio.

Ricordavo una storia che mi aveva raccontato Amparo. Prima ancora di venire in Italia, era stata alcuni mesi a New York, ed era andata ad abitare in un quartiere di quelli dove al massimo ci girano i telefilm sulla squadra omicidi. Rientrava da sola, alle due di notte. E quando le avevo chiesto se non aveva paura dei maniaci sessuali, mi aveva raccontato il suo metodo. Non appena il maniaco si avvicinava e si dava a divedere per tale, lei lo prendeva sottobraccio e gli diceva: "Allora andiamo a letto." E quello scappava, confuso.

Se sei un maniaco del sesso, il sesso non lo vuoi, vuoi desiderarlo, al massimo rubarlo, ma possibilmente all'insaputa della vittima. Se ti mettono di fronte al sesso e dicono qui Rodi, qui salta, è naturale che scappi, altrimenti che maniaco saresti.

E noi siamo andati a vellicare le loro voglie, a offrirgli un segreto che più vuoto non si può, perché non solo non lo conoscevamo neppure noi, ma per giunta sapevamo che era falso.

L'aereo sorvolava il monte Bianco e i viaggiatori si buttavano tutti insieme dallo stesso lato per non perdere la rivelazione di quell'ottuso bubbone cresciuto per una distonia delle correnti sotterranee. Io pensavo che se quello che stavo pensando era giusto, allora forse le correnti non esistevano, tanto quanto non era esistito il messaggio di Provins, ma la storia della decifrazione del Piano, così come noi l'avevamo ricostruita, altro non era che la Storia.


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 40 | Нарушение авторских прав



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