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Il pendolo di Foucault 43 страница

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Bramanti si era precipitato davanti alla forca, avvampando di maestà nella sua zimarra scarlatta, e aveva salmodiato: "Exorcizo ígitur te per Pentagrammaton, et in nomine Tetragrammaton, per Alfa et Omega qui sunt in spiritu Azoth. Saddai, Adonai, Jotchavah, Eieazereie! Michael, Gabríel, Raphael, Anael. Fluat Udor per spiritum Eloim! Maneat Terra per Adam Iot-Cavah! Per Samael Zebaoth et in nomine Eloim Gibor, veni Adramelech! Vade retro Lilith!"

 

Belbo rimase ritto sullo scranno, la corda al collo. I giganti non avevano più bisogno di trattenerlo. Se avesse fatto un solo movimento falso sarebbe caduto da quell'instabile posizione, e il cappio gli avrebbe serrato la gola.

"Imbecilli," gridava Agliè, "come lo rimetteremo sul suo asse?" Pensava alla salvezza del Pendolo.

Bramanti aveva sorriso: "Non si preoccupi, conte. Qui non stiamo miscelando le sue tinture. Esso è il Pendolo, come è stato concepito da Loro. Esso saprà dove andare. E in ogni caso, per convincere una Forza ad agire, nulla di meglio di un sacrificio umano."

Sino a quel momento Belbo aveva tremato. Lo vidi distendersi, non dico rasserenarsi, ma guardare la platea con curiosità. Credo che in quell'istante, di fronte al diverbio tra i due avversari, vedendo davanti a sé i corpi disarticolati dei medium, ai suoi lati i dervisci che ancora sussulta-vano gemendo, i paramenti dei dignitari scomposti, avesse riacquistato la sua dote più autentica, il senso del ridicolo.

In quel momento, ne sono sicuro, ha deciso che non doveva più lasciarsi spaventare. Forse la sua posizione elevata gli aveva dato un senso di superiorità, mentre osservava dal boccascena quella accolta di forsennati perduti in una falda da Grand Guignol, e in fondo, quasi nell'atrio, i mostriciattoli ormai disinteressati alla vicenda, a darsi di gomito e a ridacchiare, come Annibale Cantalamessa e Pio Bo.

Volse soltanto l'occhio ansioso verso Lorenza, tenuta di nuovo per le braccia dai giganti, agitata da rapidi sussulti. Lorenza aveva riacquistato coscienza. Piangeva.

Non so se Belbo abbia deciso di non darle spettacolo della sua paura, o se la sua decisione sia stata piuttosto l'unico modo con cui poteva far pesare il suo disprezzo, e la sua autorità, su quella masnada. Ma si teneva ritto, la testa alta, la camicia aperta sul petto, le mani legate dietro la schiena, fieramente, come chi non avesse mai conosciuto la paura.

Placato dalla pacatezza di Belbo, rassegnato in ogni caso alla interruzione delle oscillazioni, sempre ansioso di conoscere il segreto, ormai alla resa dei conti con la ricerca di una vita, o di molte, risoluto a riprendere in mano i suoi seguaci, Agliè si era rivolto di nuovo a Jacopo: "Andiamo, Belbo, si decida. Lo vede, si trova in una situazione, a dir poco, imbarazzante. La smetta con la sua commedia."

Belbo non aveva risposto. Guardava altrove, come se per discrezione volesse evitare di ascoltare un dialogo che aveva sorpreso per caso.

Agliè aveva insistito, conciliante come se parlasse a un bambino: "Capisco il suo risentimento, e se mi permette, il suo riserbo. Capisco le ripugni confidare un segreto così intimo, e geloso, a una plebe che le ha appena offerto uno spettacolo così poco edificante. Ebbene, il suo segreto lo potrà confidare solo a me, all'orecchio. Ora io la faccio scendere e so che lei mi dirà una parola, una sola parola."

E Belbo: "Lei dice?"

Allora Agliè aveva cambiato tono. Per la prima volta in vita sua lo vedevo imperioso, sacerdotale, eccessivo. Parlava come se stesse indossando uno dei vestimenti egizi dei suoi amici. Avvertii che il suo tono era falso, pareva stesse parodiando coloro a cui non aveva mai lesinato la sua indulgente commiserazione. Ma al tempo stesso parlava assai compreso di quel suo ruolo inedito. Per qualche suo disegno — poiché non poteva essere per istinto — egli stava introducendo Belbo in una scena da melodramma. Se recitò, recitò bene, perché Belbo non avvertì alcun raggiro, e ascoltò il suo interlocutore come se altro non si attendesse da lui.

"Ora tu parlerai," disse Agliè, "parlerai, e non rimarrai fuori da questo grande gioco. Tacendo, sei perduto. Parlando parteciperai della vittoria. Perché in verità ti dico, questa notte tu, io e noi tutti siamo in Hod, la sefirah dello splendore, della maestà e della gloria, Hod che governa la magia cerimoniale e rituale, Hod il momento in cui si schiude l'eternità. Questo momento l'ho sognato per secoli. Parlerai e ti unirai ai soli che, dopo la tua rivelazione, potranno dichiararsi i Signori del Mondo. Umiliati, e sarai esaltato. Parlerai perché così io comando, parlerai perché io lo dico, e le mie parole efficiunt quod figurant!"

 

E Belbo aveva detto, ormai invincibile: "Ma gavte la nata..."

 

Agliè, se pure si attendeva un diniego, impallidì all'insulto. "Che cosa ha detto?" aveva chiesto Pierre isterico. "Non parla," aveva riassunto Agliè. Aveva allargato le braccia, con un gesto tra la resa e la condiscendenza, e aveva detto a Bramanti: "È vostro."

E Pierre, stravolto: "Assai, assai, le sacrifice humain, le sacrifice humain!"

"Sì, che muoia, troveremo lo stesso la risposta," gridava altrettanto stravolta Madame Olcott, ritornata in scena, e si era lanciata verso Belbo.

Quasi contemporaneamente si era mossa Lorenza. Si era svincolata dalla stretta dei giganti e si era messa davanti a Belbo, ai piedi della forca, con le braccia allargate come per arrestare un'invasione, gridando tra le lacrime: "Ma siete tutti pazzi, ma è così che si fa?" Agliè, che già stava ritirandosi, era rimasto un attimo interdetto, quindi l'aveva rincorsa per trattenerla.

Poi tutto si è svolto in un secondo. Alla Olcott si era sciolta la crocchia di capelli, livoree fiamme come una medusa, e protendeva i suoi artigli contro Agliè, graffiandogli il viso e poi spingendolo da parte con la violenza dell'impeto che aveva accumulato in quel balzo, Agliè arretrava, incespicava in una gamba del braciere, piroettava su se stesso come un derviscio e andava a battere col capo contro una macchina piombando a terra col viso coperto di sangue. Pierre nello stesso istante si era gettato su Lorenza, mentre si lanciava aveva tratto dalla guaina il pugnale che gli pendeva sul petto, io ormai lo vedevo di schiena, non capii subito quello che era accaduto, ma vidi Lorenza scivolare ai piedi di Belbo col volto di cera, e Pierre che levava la lama urlando: "Enfin, le sacrifice humain!" E quindi, volgendosi alla navata, a gran voce: "I'a Cthulhu! I'a S'ha-t'n!"

Insieme, la massa che gremiva la navata si era mossa, e alcuni cadevano travolti, altri minacciavano di far crollare la macchina di Cugnot. Udii — credo almeno, ma non posso essermi immaginato un particolare così grottesco — la voce di Garamond che diceva: "Prego, signori, un minimo di educazione..." Bramanti, estatico, s'inginocchiava davanti al corpo di Lorenza, declamando: "Asar, Asar! Chi mi afferra alla gola? Chi mi inchioda al suolo? Chi pugnala il mio cuore? Sono indegno di varcare la soglia della casa di Maat!"

 

Forse nessuno voleva, forse il sacrificio di Lorenza doveva bastare, ma gli accoliti stavano ormai spingendosi dentro il cerchio magico; reso accessibile dalla stasi del Pendolo, e qualcuno — e avrei giurato fosse Ardenti — fu scaraventato dagli altri contro il tavolo, che scomparve letteralmente sotto ai piedi di Belbo, schizzò via, mentre, in virtù della stessa spinta, il Pendolo iniziava un'oscillazione rapida e violenta strappando la sua vittima con sé. La corda si era tesa sotto il peso della sfera e si era avvolta, ora strettamente come un laccio, intorno al collo del mio povero amico, sbalzato a mezz'aria, pendulo lungo il filo del Pendolo e, volato di colpo verso l'estremità orientale del coro, ora stava tornando indietro, già privo di vita (spero), nella mia direzione.

La folla calpestandosi si era di nuovo ritirata ai bordi, per lasciar spazio al prodigio. L'addetto alle oscillazioni, inebriato dalla rinascita del Pendolo, ne assecondava l'impeto agendo direttamente sul corpo dell'impiccato. L'asse di oscillazione formava una diagonale dai miei occhi a una delle finestre, certamente quella con la scrostatura, da cui avrebbe dovuto penetrare tra poche ore il primo raggio di sole. Io quindi non vedevo Jacopo oscillare di fronte a me, ma credo che così siano andate le cose, che questa sia la figura che egli tracciava nello spazio...

Il collo di Belbo appariva come una seconda sfera inserita lungo il tratto del filo che andava dalla base alla chiave di volta e — come dire — mentre la sfera di metallo si tendeva a destra, il capo di Belbo, l'altra sfera, inclinava a sinistra, e poi l'inverso. Per lungo tratto le due sfere andarono in direzioni opposte così che quello che sciabolava nello spazio non era più una retta, ma una struttura triangolare. Ma, mentre il capo di Belbo seguiva la trazione del filo teso, il suo corpo — forse, prima nell'ultimo spasimo, ora con la spastica agilità di una marionetta di legno — tracciava altre direzioni nel vuoto, indipendente dal capo, dal filo e dalla sfera sottostante, le braccia qua, le gambe là — ed ebbi la sensazione che se qualcuno avesse fotografato la scena col fucile di Muybridge, inchiodando sulla lastra ogni momento in una successione spaziale, registrando i due punti estremi in cui veniva a trovarsi la testa a ogni periodo, i due punti di arresto della sfera, i punti dell'incrocio ideale dei fili, indipendenti, di entrambi, e i punti intermedi segnati dall'estremità del piano di oscillazione del tronco e delle gambe, Belbo impiccato al Pendolo, dico, avrebbe disegnato nel vuoto l'albero dei sefirot riassumendo nel suo estremo momento la vicenda stessa di tutti gli universi, fissando nel suo vagare le dieci tappe dello sfiato esangue e della deiezione del divino nel mondo.

Poi, mentre l'oscillatore continuava a incoraggiare quella funebre altalena, per un atroce comporsi di forze, una migrazione di energie, il corpo di Belbo era divenuto immobile, e il filo con la sfera si muovevano a pendolo soltanto dal suo corpo verso terra, il resto — che collegava Belbo con la volta — rimanendo ormai a piombo. Così Belbo, sfuggito all'errore del mondo e dei suoi moti, era divenuto lui, ora, il punto di sospensione, il Perno Fisso, il Luogo a cui si sostiene la volta del mondo, e solo sotto i suoi piedi oscillavano il filo e la sfera, dall'uno all'altro polo, senza pace, con la terra che sfuggiva sotto di essi, mostrando sempre un continente nuovo — né la sfera sapeva indicare, e avrebbe mai saputo, dove stesse 1'Umbilico del Mondo.

 

Mentre la canea dei diabolici, per un istante attonita di fronte al portento, riprendeva a vociare, mi dissi che la storia era veramente finita. Se Hod è la sefirah della Gloria, Belbo aveva avuto la gloria. Un solo gesto impavido lo aveva riconciliato con l'Assoluto.
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Il pendolo ideale consiste di un filo sottilissimo, incapace di

resistenza a flessione e torsione, di lunghezza L, cui è attaccata una massa al suo baricentro. Per la sfera il baricentro è il centro, per un corpo umano è un punto a 0.65 della sua altezza, misurato dai piedi. Se l'impiccato è alto m. 1.70 il bari-centro è a m. 1.10 dai suoi piedi e la lunghezza L comprende questa lunghezza. Cioè, se la testa fino al collo è lunga m. 0.30, il baricentro è a 1.70 — 1.10 = 0.60 m. dalla testa e a m. 0.60 — 0.30 = m. 0.30 dal collo dell'impiccato.

Il periodo di piccole oscillazioni del pendolo, determinato da

Nrnvoens_ è dato da:

Nota bene: T è indipendente dal peso dell'impiccato (uguaglianza degli uomini davanti a Dio)...

Un doppio pendolo con due masse attaccato allo stesso filo... Se sposti A, A oscilla e dopo un po' si ferma e oscilla B. Se i pendoli accoppiati hanno masse o lunghezze diverse, l'energia passa dall'uno all'altro ma i tempi di queste oscillazioni dell'energia non sono uguali... Questo vagolare dell'energia avviene anche se invece di cominciare a far oscillare A libera-mente dopo averlo spostato, seguiti a spostarlo periodicamente con una forza. Cioè se il vento soffia a raffiche sull'impiccato (regolarmente), dopo un po' l'impiccato non si muove e il pendolo di Foucault oscilla come se fosse imperniato all'impiccato.

 

(Da una lettera privata di Mario Salvadori, Columbia University, 1984)

 

Non avevo più nulla da apprendere, in quel luogo. Approfittai del trambusto, per arrivare alla statua di Gramme.

Il basamento era ancora aperto. Entrai, discesi, e al termine della scaletta mi trovai su di un piccolo pianerottolo, illuminato dalla lampadida, su cui si apriva una scala a chiocciola, in pietra. E alla fine di questa entrai in un corridoio dalle volte piuttosto alte, illuminato fiocamente. A tutta prima non mi resi conto dov'ero, e da dove provenisse lo sciacquio che udivo. Poi abituai gli occhi: ero in un condotto fognario, una sorta di ringhiera con un corrimano mi avrebbe impedito di cadere nell'acqua, ma non mi impediva di percepire un tanfo disgustoso, tra il chimico e l'organico. Almeno qualcosa, di tutta la nostra storia, era vero: le fogne di Parigi. Quelle di Colbert, di Fantomas, di de Caus?

Seguivo il condotto maggiore scartando le deviazioni più buie, e sperando che qualche segnale mi avrebbe avvisato dove por termine alla mia corsa sotterranea. In ogni caso correvo lontano dal Conservatoire, e rispetto a quel regno della notte le fogne di Parigi erano il sollievo, la libertà, l'aria pulita, la luce.

Avevo negli occhi una sola immagine, il geroglifico tracciato nel coro dal corpo morto di Belbo. Non riuscivo a capacitarmi di quel disegno, a quale disegno corrispondesse. Ora so che era una legge fisica, ma il modo in cui lo so rende ancor più emblematico il fenomeno. Qui, nella casa di campagna di Jacopo, fra i tanti suoi appunti, ho trovato una lettera di qualcuno, che in risposta a una sua questione gli raccontava come funziona un pendolo, e come si comporterebbe se lungo il suo filo fosse appeso un altro peso. Dunque Belbo, chissà da quando, pensando al Pendolo, lo immaginava e come un Sinai e come un Calvario. Non era morto vittima di un Piano di recente fattura, aveva preparato nella fantasia la sua morte da tempo, senza sapere che, credendosi negato alla creazione, il suo rimuginare stava progettando la realtà. O forse no, in tal modo aveva voluto morire per provare a se stesso e agli altri che, anche in difetto del genio, l'immaginazione è sempre creatrice.

In qualche modo, perdendo, aveva vinto. O ha perso tutto, chi si voti a quest'unico modo di vincere? Ha perso tutto chi non abbia capito che la vittoria era stata un'altra. Ma io sabato sera non l'avevo ancora scoperto.

 

Andavo per il condotto, amens come Postel, forse smarrito nella stessa tenebra, e all'improvviso ebbi il segnale. Una lampada più forte, fissata al muro, mi mostrava un'altra scala, di natura provvisoria, che arrivava a una botola di legno. Tentai l'impresa, e mi trovai in uno scantinato ingombro di bottiglie vuote, che immetteva in un corridoio con due cessi, sulle porte l'ornino e la donnina. Ero nel mondo dei vivi.

Mi fermai ansimando. Solo in quel momento pensai a Lorenza. Ora piangevo io. Ma essa stava scivolando via dalle mie vene, come se non fosse mai esistita. Non riuscivo neppure più a ricordarne il volto. Di quel mondo di morti, era la più morta.

 

Alla fine del corridoio trovai una nuova scala, una porta. Entrai in un ambiente fumoso e maleodorante, una taverna, un bistrot, un bar orientale, camerieri di colore, avventori sudaticci, spiedini grassi e boccali di birra. Uscivo dalla porta come uno che fosse già lì, e fosse andato a orinare. Nessuno mi notò, o forse l'uomo della cassa che, vedendomi emergere dal fondo, mi fece un segno impercettibile con gli occhi socchiusi, un okay, come per dire ho capito, passa, io non ho visto niente.
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Se l'occhio potesse vedere i demoni che popolano l'universo, l'esistenza sarebbe impossibile.

 

(Talmud, Berakhoth, 6)

 

Ero uscito dal bar e mi ero trovato tra le luci della Porte St-Martin. Orientale era la taverna da cui ero uscito, orientali le altre botteghe intorno, ancora illuminate. Odore di cuscus e di falafel, e folla. Giovani a frotte, affamati, molti col sacco a pelo, comitive. Non potevo entrare in un bar a bere qualcosa. Avevo chiesto a un ragazzo cosa succedeva. La manifestazione, il giorno dopo c'era la grande manifestazione contro la legge Savary. Arrivavano coi pullman.

Un turco — un druso, un ismailita travestito mi invitava in cattivo francese a entrare in qualche luogo. Giammai, fuggire da Alamut. Non so chi sia al servizio di chi. Diffidare.

Attraverso l'incrocio. Ora odo solo il rumore dei miei passi. Il vantaggio delle grandi città, ti sposti di pochi metri e ritrovi la solitudine.

Ma di colpo, dopo pochi isolati, alla mia sinistra, il Conservatoire, pallido nella notte. Dall'esterno, perfetto. Un monumento che dorme il sonno del giusto. Proseguo a sud, verso la Senna. Avevo una meta in mente, ma non mi era chiara. Volevo chiedere a qualcuno che cosa era successo.

Belbo morto? Il cielo è sereno. Incrocio un gruppo di studenti. Silenziosi, presi dal genius loci. A sinistra la sagoma di Saint-Nicolas-des-Champs.

Proseguo per me St-Martin, attraverso ru aux Ours, grande, sembra un boulevard, temo di perdere la direzione, che peraltro non conosco. Mi guardo intorno e alla mia destra, sull'angolo, vedo le due vetrine delle Editions Rosicruciennes. Sono spente, ma un poco alla luce dei lampioni, un poco con la pila, riesco a decifrarne il contenuto. Libri e oggetti. Histoire des juifs, comte de St-Germain, alchimie, monde caché, les maison secrètes de la Rose-Croix, il messaggio dei costruttori delle cattedrali, catari, Nuova Atlantide, medicina egiziana, il tempio di Karnak, Bagavad Gita, reincarnazione, croci e candelabri rosicruciani, busti di Iside e Osiride, incensi in scatola e a tavolette, tarocchi. Un pugnale, un tagliacarte di stagno, col manico rotondo che reca il sigillo dei Rosa-Croce. Che fanno, mi prendono in giro?

Ora incrocio la facciata del Beaubourg. Di giorno è una sagra paesana, adesso la piazza è quasi deserta, qualche,gruppo silenzioso e addormentato, rade luci dalle brasseries di fronte. È vero. Grandi sfiatatoi che assorbono energia dalla terra. Forse le folle che lo riempiono di giorno servono a fornire vibrazioni, la macchina ermetica si nutre di carne fresca.

Chiesa di Saint-Merri. Di fronte, una Librairie la Vouivre, per tre quarti occultistica. Non debbo farmi prendere dall'isteria. Giro per rue des Lombards, forse per evitare una schiera di ragazze scandinave che escono ridendo da una taverna ancora aperta. Tacete, non sapete che anche Lorenza è morta?

Ma è morta? E se fossi morto io? Rue des Lombards: vi si innerva perpedicolare rue Flamel, e in fondo a rue Flamel si scorge, bianca, la Tour Saint-Jacques. All'incrocio, la libreria Arcane 22, tarocchi e pendoli. Nicolas Flamel, l'alchimista, una libreria alchemica, e la Tour Saint-Jacques: con quei grandi leoni bianchi alla base, questa inutile torre tardogotica lungo la Senna, a cui era intitolata anche una rivista esoterica, la torre dove Pascal aveva compiuto esperimenti sul peso dell'aria e pare che ancora oggi, a 52 metri d'altezza, vi sia una stazione per ricerche climatologiche. Forse avevano incominciato li, prima di erigere la Tour Eiffel. Ci sono zone privilegiate. E nessuno se ne accorge.

Torno verso Saint-Merri. Altre risate di fanciulle. Non voglio vedere gente, giro intorno alla chiesa, per rue du Cloitre Saint-Merri — una porta del transetto, vecchia, di legno grezzo. Sulla sinistra si apre una piazza, confine estremo del Beaubourg, illuminata a giorno. Sullo spiazzo le macchine di Tinguely e altri artefatti multicolori che galleggiano sull'acqua di una piscina o laghetto artificiale, in un sornione dinoccolare di ruote dentate, e sullo sfondo ritrovo l'impalcatura a tubi Dalmine e le grandi bocche beanti del Beaubourg — come un Titanic abbandonato contro una parete mangiata dall'edera, naufragato in un cratere della luna. Dove le cattedrali non sono riuscite, i grandi boccaporti transoceanici bisbigliano in contatto con le Vergini Nere. Li scopre solo chi sa circumnavigare Saint-Merri. E dunque bisogna continuare, ho una traccia, sto mettendo a nudo una delle trame di Coloro, al centro stesso della Ville Lumière, la trama degli Oscuri..

Piego per me des Juges Consules, mi ritrovo sulla facciata di Saint-Merri. Non so perché, ma qualcosa mi spinge ad accendere la pila e a dirigerla verso il portale. Gotico fiorito, archi in accolade.

E di colpo, cercando quello che non mi attendevo di trovare, sull'archivolto del portale lo vedo.

Bafometto. Proprio dove i semiarchi si congiungono, mentre al culmine del primo c'è una colomba dello spirito santo con una gloria in raggi di pietra, sul secondo, assediato da angeli oranti, lui, il Bafometto, con le sue ali tremende. Sulla facciata di una chiesa. Senza pudore.

Perché lì? Perché siamo poco lontani dal Tempio. Dove sta il Tempio, o quel che ne è restato? Ritorno indietro, risalgo verso nordest, e mi trovo all'angolo di me de Montmorency. Al numero 51, la casa di Nicolas Flamel. Tra il Bafometto e il Tempio. L'accorto spagirico sapeva bene con chi doveva fare í conti. Poubelles piene di sporcizia immonda, da-vanti una casa di epoca imprecisa, Taverne Nicolas Flamel. La casa è vecchia, l'hanno restaurata a scopi turistici, per diabolici di infimo rango, Ilici. C'è accanto un american bar con una pubblicità dell'Apple: "secouez vous les puces" (le pulci sono i bugs, gli errori di programma). Soft-Hermes. Dir Temurah.

Ora sono in rue du Tempie, la percorro e arrivo all'angolo con rue de Bretagne dove c'è lo square du Tempie, un giardino livido come un cimitero, la necropoli dei cavalieri sacrificati.

Rue de Bretagne sino all'incrocio con me nenie du Tempie. Rue Vieille du Tempie dopo l'incrocio con me Barbette ha degli strani negozi di lampade elettriche di forme bizzarre, ad anatra, a foglia d'edera. Troppo ostentatamente moderni. Non m'ingannano.

Rue des Francs-Bourgeois: sono nel Marais, lo conosco, tra poco appariranno le vecchie macellerie kosher, che cosa c'entrano gli ebrei coi Templari, ora che abbiamo stabilito che il loro posto nel Piano competeva agli Assassini di Alamut? Perché sono qui? Cerco una risposta? No, forse voglio solo allontanarmi dal Conservatoire. Oppure mi dirigo confusamente verso un luogo, so che non può essere qui, ma cerco solo di ricordarmi dove sia, come Belbo che cercava in sogno un indirizzo scordato.

Incontro un gruppo osceno. Ridono male, marciano in ordine sparso obbligandomi a scendere dal marciapiede. Per un momento temo che siano inviati del Veglio della Montagna, e che siano lì per me. Non è vero, scompaiono nella notte, ma parlano una lingua straniera, che sibila sciita, talmudica, copta come un serpente del deserto.

Mi vengono incontro figure androgine con lunghe palandrane. Palandrane Rosa-Croce. Mi oltrepassano, voltano in me de Sévigné. Ormai è notte alta. Sono fuggito dal Conservatoire per ritrovare la città di tutti, e mi accorgo che la città di tutti è concepita come una catacomba di per-corsi preferenziali per gli iniziati.

Un ubriaco. Forse finge. Diffidare, diffidare sempre. Incrocio un bar ancora aperto, i camerieri coi grembialoni lunghi sino alla caviglia stanno già radunando le sedie e i tavolini. Faccio in tempo a entrare e mi danno una birra. La tracanno e ne chiedo un'altra. "Una bella sete, eh?" dice uno di loro. Ma senza cordialità, con sospetto. Certo, ho sete, è dalle cinque del pomeriggio che non bevo, ma si può aver sete anche senza aver passato la notte sotto un pendolo. Imbecilli. Pago e me ne vado, prima che possano imprimersi i miei tratti nella memoria.

E sono all'angolo di piace des Vosges. Percorro i portici. Qual era quel vecchio film che risuonava dei passi solitari di Mathias, l'accoltellatore folle, di notte, per piace des Vosges? Mi arresto. Sento passi dietro di me? Certo che no, si sono fermati anche loro. Basterebbero alcune teche, e questi portici diventerebbero sale del Conservatoire.

Soffitti bassi del Cinquecento, archi a tutto sesto, gallerie di stampe e antiquariato, mobili. Piace des Vosges, così bassa coi portoni vecchi e rigati e slabbrati e lebbrosi, ci sta gente che non si è mossa da centinaia d'anni. Uomini con la palandrana gialla. Una piazza abitata solo 'da taxidermisti. Escono solo di notte. Conoscono la piastra, il tombino, da cui si penetra nel Mundus Subterraneus. Sotto gli occhi di tutti.

L'Union de Recouvrement des Cotisation de sécurité sociale et d'allocations familiales de la Patellerie numero 75, u 1. Porta nuova, forse cistanno dei ricchi, ma subito dopo c'è una porta vecchia scrostata come una casa di via Sincero Renato, poi al numero 3 una porta rifatta di recente. Alternanza di Ilici e Pneumatici. I Signori e i loro schiavi. Qui dove ci sono assi inchiodate su quello che doveva essere un arco. È evidente, qui c'era una libreria occultistica e ora non c'è più. Un intero blocco è stato svuotato. Evacuato in una notte. Come Agliè. Ora sanno che qualcuno sa, incominciano a entrare nella clandestinità.

Sono sull'angolo di rue de Birague. Vedo la teoria dei portici infinita senza anima viva, preferirei fosse buio, ma c'è la luce gialla delle lampade. Potrei gridare e nessuno mi ascolterebbe. Silenziosi, dietro quelle finestre chiuse da cui non trapela un filo di luce, i taxidermisti sogghignerebbero nelle loro palandrane gialle.

Eppure no, tra i portici e íl giardino centrale ci sono automobili parcheggiate e qualche rara ombra che passa. Ma questo non rende più affabile il rapporto. Un grande pastore tedesco mi attraversa la strada. Un cane nero solo di notte. Dov'è Faust? Forse manda il fido Wagner a far pisciare il cane?

Wagner. Ecco l'idea che mi stava girando per il capo senza affiorare. Il dottor Wagner, è lui che voglio. Lui potrà dirmi se deliro, a quali fantasmi ho dato sostanza. Potrà dirmi che non è vero niente, che Belbo è vivo e il Tres non esiste. Che sollievo se fossi malato.

Abbandono la piazza quasi di corsa. Sono seguito da una macchina. No, forse sta solo cercando di parcheggiare. Inciampo su sacchi di plastica per spazzatura. La macchina parcheggia. Non voleva me. Sono su me St-Antoine. Cerco un tassì. Come per evocazione, passa.

Gli dico: "Sept, avenue Elisée Reclus."
116

Je voudrais étre la tour, pendre à la Tour Eiffel.

 

(Blaise Cendrars)

 

Non sapevo dove fosse, non osavo chiederlo al. tassista, perché chi prende il tassì a quell'ora lo fa per andare a casa propria, altrimenti è come minimo un assassino, e d'altra parte lui bofonchiava che il centro era ancora pieno di quei maledetti studenti, pullman parcheggiati ovunque, uno schifo, se dipendeva da lui, tutti al muro, e che valeva la pena di fare il giro lungo. Aveva fatto praticamente il periplo di Parigi, lasciandomi infine al numero sette di una via solitaria.

Non risultava alcun dottor Wagner. Allora era il diciassette? O il ventisette? Feci due o tre tentativi, poi tornai in me. Anche se avessi individuato il portone, stavo forse pensando di tirare il dottor Wagner giù dal letto a quell'ora per raccontargli la mia storia? Ero finito lì per le stesse ragioni per cui avevo vagato dalla Porte St-Martin a piace des Vosges. Fuggivo. E ora ero fuggito dal luogo in cui ero fuggito fuggendo dal Conservatoire. Non avevo bisogno di uno psicoanalista, ma di una camicia di forza. O della cura del sonno. O di Lia. Che mi prendesse la testa, me la stringesse forte tra il seno e l'ascella sussurrandomi di stare buono.

Avevo cercato il dottor Wagner o avenue Elisée Reclus? Perché ora me ne ricordavo, quel nome lo avevo incontrato nel corso delle mie letture per il Piano, era qualcuno del secolo scorso che aveva scritto non ricordo quale libro sulla terra, sul sottosuolo, sui vulcani, qualcuno che col pretesto di far geografia accademica metteva il naso nel Mundus Subterraneus. Uno dei loro. Li sfuggivo, e me li ritrovavo sempre intorno. A poco a poco nel giro di qualche secolo avevano occupato tutta Parigi. E il resto del mondo.


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 37 | Нарушение авторских прав



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