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Il pendolo di Foucault 40 страница

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"Ci sto solo due o tre ore. Debbo discutere un testo di epigrafia, abbiamo dei problemi con le riproduzioni." E poi aveva sparato: "Non è ancora la mia vacanza. Le ferie le prenderò intorno al solstizio d'estate, può darsi che mi decida a... Lei mi ha capito. E confido nella sua riservatezza. Le ho parlato come a un amico."

"So tacere anche meglio di lei. La ringrazio in ogni caso per la fiducia, davvero." E se n'era andato.

 

Belbo era uscito rasserenato da quell'incontro. Piena vittoria della sua astrale narratività sulle miserie e le vergogne del mondo sublunare.

 

Il giorno dopo aveva ricevuto una telefonata da Agliè: "Mi deve scusare, caro amico. Mi trovo di fronte a un piccolo problema. Lei sa che pratico un mio modesto commercio di libri antichi. Mi arrivano in serata da Parigi una dozzina di volumi rilegati, del Settecento, di un certo pregio, che debbo fare assolutamente avere a un mio corrispondente di Firenze entro domani. Dovrei portarli io, ma sono trattenuto qui da un altro impegno. Ho pensato a una soluzione. Lei deve andare a Bologna. Io l'attendo domani al treno, dieci minuti prima della partenza, le consegno una piccola valigetta, lei la pone sulla reticella e la lascia dove sta a Bologna, caso mai scende per ultimo, in modo di esser certo che nessuno la sottragga. A Firenze il mio corrispondente sale durante la fermata, e la ritira. Per lei è una noia, lo so, ma se può rendermi questo servizio le sarò grato in eterno."

"Volentieri," aveva risposto Belbo, "ma come farà il suo amico a Firenze a sapere dove ho lasciato la valigia?"

"Sono più previdente di lei e ho prenotato un posto, posto 45, vettura 8. Sino a Roma, così né a Bologna né a Firenze sale qualcuno a occuparlo. Vede, in cambio dell'incomodo che le do, le offro la sicurezza di viaggiare seduto, senza doversi accampare nel vagone ristorante. Non ho osato farle anche il biglietto, non volevo che lei pensasse che intendevo sdebitarmi in modo così indelicato."

Proprio un vero signore, aveva pensato Belbo. Mi invierà una cassetta di vini pregiati. Da bere alla sua salute. Ieri volevo farlo scomparire e ora gli sto facendo anche un favore. Pazienza, non posso dirgli di no.

Il mercoledì mattina Belbo era andato in stazione per tempo, aveva acquistato il biglietto per Bologna, e aveva trovato Agliè accanto alla vettura 8, con la valigetta. Era abbastanza pesante, ma non ingombrante.

Belbo aveva sistemato la valigia sopra il posto 45, e si era installato col suo pacco di giornali. La notizia del giorno erano i funerali di Berlinguer. Dopo poco un signore con la barba era venuto a occupare il posto accanto al suo. A Belbo pareva di averlo già visto (col senno di poi, forse alla festa in Piemonte, ma non ne era sicuro). Alla partenza lo scompartimento era al completo.

Belbo leggeva il giornale, ma il passeggero con la barba tentava di attaccar discorso con tutti. Aveva iniziato con osservazioni sul caldo, sull'inefficienza del sistema di condizionamento, sul fatto che a giugno non si sa mai se vestirsi d'estate o di mezza stagione. Aveva fatto notare che la tenuta migliore era un blazer leggiero, proprio come quello di Belbo, e aveva chiesto se era inglese. Belbo aveva risposto che era inglese, Burberry, e si era rimesso a leggere. "Sono i migliori," aveva detto il signore, "ma questo è particolarmente bello perché non ha quei bottoni d'oro che sono troppo vistosi. E se mi permette s'intona bene a quella cravatta bordò." Belbo aveva ringraziato e aveva riaperto il giornale. Il signore continuava a parlare con gli altri della difficoltà di intonare le cravatte alle giacche, e Belbo leggeva. Lo so, pensava, mi guardano tutti come un maleducato, ma in treno io vado per non aver rapporti umani. Ne ho già troppi a terra.

Allora il signore gli aveva detto: "Quanti giornali legge lei, e di tutte le tendenze. Dev'essere un giudice o un uomo politico." Belbo aveva risposto che no, che lui lavorava in una casa editrice che pubblicava libri di metafisica araba, lo aveva detto sperando di terrorizzare l'avversario. L'altro si era evidentemente terrorizzato.

Poi era arrivato il controllore. Aveva chiesto come mai Belbo aveva un biglietto per Bologna e la prenotazione era per Roma. Belbo aveva detto che aveva cambiato idea all'ultimo minuto. "Che bello," aveva detto il signore con la barba, "poter prendere le proprie decisioni così come tira il vento, senza dover fare i conti col borsellino. La invidio." Belbo aveva sorriso e si era voltato dall'altra parte. Ecco, si diceva, ora tutti mi guardano come se fossi uno sprecone, o avessi svaligiato una banca.

A Bologna Belbo si era alzato e si era disposto a scendere. "Guardi che dimentica quella valigetta," aveva detto il suo vicino. "No, deve passare a ritirarla un signore a Firenze," aveva detto Belbo, "anzi, la prego di darci un'occhiata."

"Ci penso io," aveva detto il signore con la barba. "Si fidi di me."

 

Belbo era rientrato a Milano verso sera, si era messo in casa con due scatolette di carne e alcuni cracker, aveva acceso la televisione. Ancora Berlinguer, naturale. Così la notizia era apparsa quasi di sfuggita, in chiusura.

Nella tarda mattinata, sul TEE nel tratto Bologna-Firenze, sulla vettura 8, un passeggero con la barba aveva espresso dei sospetti su un viaggiatore sceso a Bologna lasciando una valigetta sulla reticella. È vero che aveva detto che qualcuno l'avrebbe ritirata a Firenze, ma non è così che agiscono i terroristi? E poi perché aveva prenotato il posto sino a Roma, se era sceso a Bologna?

Una spessa inquietudine si era diffusa tra i coabitanti dello scompartimento. A un certo punto il passeggero con la barba aveva detto che non resisteva alla tensione. Meglio commettere un errore che morire, e aveva avvertito il capotreno. Il capotreno aveva fatto arrestare il convoglio e aveva chiamato la Polfer. Non so esattamente che cosa fosse successo, il treno fermo in montagna, i passeggeri che sciamavano inquieti lungo la linea, gli artificieri che arrivavano... Gli esperti avevano aperto la valigetta e vi avevano trovato un dispositivo a orologeria fissato sull'ora di arrivo a Firenze. Abbastanza per far fuori qualche decina di persone.

La polizia non era più riuscita a trovare il signore con la barba. Forse aveva cambiato vettura ed era sceso a Firenze perché non voleva finire sui giornali. Gli si lanciava un appello perché si facesse vivo.

Gli altri passeggeri ricordavano in modo eccezionalmente lucido l'uomo che aveva lasciato la valigia. Doveva essere un individuo che suscitava sospetto a prima vista. Aveva una giacca inglese blu senza bottoni d'oro, una cravatta bordò, era un tipo taciturno, sembrava voler passare inosservato a ogni costo. Ma si era lasciato sfuggire che lavorava per un giornale, per un editore, per qualche cosa in cui c'entrava (e qui le opinioni dei testimoni variavano) la fisica, il metano o la metempsicosi. Ma sicuramente c'entravano gli arabi.

Questure e tenenze dei carabinieri in allarme. Stavano già arrivando segnalazioni, al vaglio degli inquirenti. Due cittadini libici fermati a Bologna. Il disegnatore della polizia aveva tentato un identikit, che campeggiava ora sullo schermo. Il disegno non assomigliava a Belbo, ma Belbo assomigliava al disegno.

Belbo non poteva aver dubbi. L'uomo della valigetta era lui. Ma la valigetta conteneva i libri di Agliè. Aveva chiamato Agliè, ma il telefono non rispondeva.

Era già sera tardi, non aveva osato andare in giro, si era messo a dormire con un sonnifero. Il mattino dopo aveva riprovato a cercare Agliè. Silenzio. Era sceso a comperare i giornali. Per fortuna la prima pagina era ancora occupata dai funerali, e la notizia del treno con l'identikit era nelle pagine interne. Era risalito tenendo il bavero alzato, poi si era accorto che portava ancora il blazer. Per fortuna era senza cravatta bordò.

Mentre cercava di ricostruire ancora una volta i fatti, aveva ricevuto una telefonata. Una voce sconosciuta, straniera, con un accento vagamente balcanico. Una telefonata melliflua, come di uno che non c'entrasse per nulla e che parlasse per puro buon cuore. Povero signor Belbo, diceva, si era trovato compromesso in una storia spiacevole. Non si dovrebbe mai accettare di fare il corriere per altri, senza controllare il contenuto dei colli. Sarebbe stato un bel guaio se qualcuno avesse segnalato alla polizia che il signor Belbo era lo sconosciuto del posto 45.

Certo, si sarebbe potuto evitare quel passo estremo, se solo Belbo avesse deciso di collaborare. Per esempio, se avesse detto dov'era la mappa dei Templari. E siccome Milano era diventata città calda, perché tutti sapevano che l'attentatore del TEE era partito da Milano, era più prudente trasferire l'intera faccenda in territorio neutro, diciamo a Parigi. Perché non darsi appuntamento alla libreria Sloane, 3 Rue de la Manticore, entro una settimana? Ma forse Belbo avrebbe fatto meglio a mettersi in viaggio subito, prima che qualcuno lo identificasse. Libreria Sloane, 3 Rue de la Manticore. A mezzogiorno di mercoledì 20 giugno vi avrebbe trovato un volto noto, quel signore con la barba con cui aveva conversato così amabilmente in treno. Lui gli avrebbe detto dove trovare altri amici, e poi pian piano, in buona compagnia, in tempo per il solstizio d'estate, finalmente avrebbe raccontato quel che sapeva, e tutto sarebbe finito senza traumi. Rue de la Manticore, numero 3, facile da ricordare.
109

San Germano... Molto fine e spiritoso... Diceva di possedere ogni genere di segreto... Si serviva spesso, per le sue apparizioni, di quel famoso specchio magico che fece parte della sua fama... Siccome evocava, per effetti catottrici, le ombre attese, e quasi sempre riconosciute, il suo contatto con l'altro mondo era cosa provata.

 

(Le Coulteux de Canteleu, Les sectes et les sociétés secrètes, Paris, Didier, 1863, pp. 170-171)

 

Belbo si era sentito perduto. Tutto era chiaro. Agliè riteneva che la sua storia fosse vera, voleva la mappa, gli aveva organizzato una trappola, e ora lo aveva in pugno. O Belbo andava a Parigi, a rivelare quel che non sapeva (ma che non lo sapesse lo sapeva solo lui, io ero partito senza lasciare un indirizzo, Diotallevi stava morendo), oppure tutte le questure d'Italia gli sarebbero saltate addosso.

Ma possibile che Agliè si fosse piegato a un gioco tanto sordido? Che cosa gliene veniva in tasca? Bisognava prendere per il bavero quel vecchio pazzo, e solo trascinando lui in questura avrebbe potuto uscire da quella storia.

Aveva preso un tassì ed era andato alla palazzina, vicino a piazza Piola. Finestre chiuse, e sul cancello il cartello di un'agenzia immobiliare: AFFITTASI. Ma siamo matti, Agliè abitava lì sino a una settimana prima, gli aveva telefonato lui. Aveva suonato alla porta della palazzina adiacente. "Quel signore? Ma ha traslocato proprio ieri. Non so proprio dove sia andato, lo conoscevo appena di vista, era una persona così riservata, ed era sempre in viaggio, credo."

Non restava che informarsi all'agenzia. Ma laggiù di Agliè non avevano mai sentito parlare. La palazzina era stata affittata a suo tempo da una ditta francese. I pagamenti arrivavano regolarmente per via bancaria. L'affitto era stato disdetto nel giro di ventiquattr'ore, e avevano rinunciato al deposito cauzionale. Tutti i loro rapporti, e per lettera, erano stati con un certo signor Ragotgky. E non sapevano altro.

Non era possibile. Rakosky o Ragotgky che fosse, il misterioso visitatore del colonnello, ricercato dall'astuto De Angelis e dall'Interpol, ecco che andava in giro ad affittare immobili. Nella nostra storia il Rakosky di Ardenti era una reincarnazione del Rackovskij dell'Ochrana, e questi dei solito San Germano. Ma che cosa c'entrava con Agliè?

Belbo era andato in ufficio, salendo come un ladro, chiudendosi nella sua stanza. Aveva cercato di fare il punto.

 

C'era di che perdere il senno, e Belbo era certo di averlo già perduto. E nessuno con cui potersi confidare. E mentre stava ad asciugarsi il sudore, quasi macchinalmente sfogliava dei dattiloscritti sul tavolo, arrivati il giorno prima, senza sapere neppure che cosa si facesse, e di colpo ad apertura di pagina aveva visto scritto il nome di Agliè.

Aveva guardato il titolo del dattiloscritto. L'operetta di un diabolico qualsiasi, La verità sul Conte di Saint-Germain. Era tornato a rileggere la pagina. Vi si diceva, citando la biografia di Chacornac, che Claude-Louis de Saint-Germain si era fatto via via passare per Monsieur de Surmont, conte Soltikof, Mister Welldone, Marchese di Belmar, principe Rackoczi o Ragozki, e così via, ma i nomi di famiglia erano conte di Saint-Martin e marchese di Agliè, da un possedimento piemontese dei suoi avi.

Benissimo, ora Belbo poteva stare tranquillo. Non solo lui era ricercato senza scampo per terrorismo, non solo il Piano era vero, non solo Agliè era scomparso nel giro di due giorni, ma per soprammercato non era un mitomane bensì il vero e immortale conte di San Germano, né aveva mai fatto nulla per nasconderlo. L'unica cosa vera, in quel vortice di falsità che si stavano verificando, era il suo nome. Oppure no, anche il suo nome era falso, Agliè non era Agliè, ma non importava chi fosse veramente, perché di fatto si stava comportando, e ormai da anni, come il personaggio di una storia che noi avremmo inventato solo più tardi.

In qualsiasi caso, Belbo era senza alternative. Scomparso Agliè, non poteva mostrare alla polizia chi gli aveva dato la valigia. E se pure la polizia gli avesse creduto, ne sarebbe venuto fuori che egli l'aveva avuta da un ricercato per omicidio, che da almeno due anni lui usava come consulente. Bell'alibi.

Ma per poter concepire tutta questa storia – che già da sola era passabilménte romanzesca – e per indurre la polizia a prenderla per buona, occorreva presupporne un'altra, che andava al di là della stessa finzione. E cioè che il Piano, inventato da noi, corrispondesse punto per punto, compresa l'affannosa ricerca finale della mappa, a un piano vero, dentro a cui Agliè, Rakosky, Rackovskij, Ragotgky, il signore con la barba, il Tres, tutti, su su sino ai Templari di Provins, ci fossero già. E che il colonnello avesse visto giusto. Ma che avesse visto giusto sbagliando, perché in fin dei conti il Piano nostro era diverso dal suo, e se era vero il suo non avrebbe potuto essere vero íl nostro, o il contrario, e dunque se avevamo ragione noi perché dieci anni prima Rakosky doveva rubare al colonnello un memoriale falso?

Al solo leggere quanto Belbo aveva confidato ad Abulafia, l'altra mattina mi veniva la tentazione di battere la testa contro il muro. Per convincermi che il muro, almeno il muro, c'era davvero. Immaginavo come doveva essersi sentito lui, Belbo, quel giorno, e nei giorni seguenti. Ma non era finita.

Alla ricerca di qualcuno da interrogare aveva telefonato a Lorenza. E non c'era. Era pronto a scommettere che non l'avrebbe più rivista. In qualche modo Lorenza era una creatura inventata da Agliè, Agliè era una creatura inventata da Belbo e Belbo non sapeva più da chi era stato inventato lui. Aveva ripreso in mano il giornale. L'unica cosa certa era che lui era l'uomo dell'identikit. Per convincerlo gli era arrivata proprio in quel momento, in ufficio, una nuova telefonata. Lo stesso accento balcanico, le stesse raccomandazioni. Appuntamento a Parigi.

"Ma chi siete?" aveva gridato Belbo.

"Siamo il Tres," aveva risposto la voce. "E lei sul Tres ne sa più di noi."

 

Allora si era deciso. Aveva preso il telefono e aveva chiamato De Angelis. In questura gli avevano fatto delle difficoltà, pareva che il commissario non lavorasse più lì. Poi avevano ceduto alle sue insistenze e gli avevano passato un ufficio.

"Oh chi si sente, il dottor Belbo," aveva detto De Angelis in tono che a Belbo era parso sarcastico. "Mi trova per caso. Sto facendo le valigie."

"Le valigie?" Belbo aveva temuto a un'allusione.

"Sono stato trasferito in Sardegna. Pare che sia un lavoro tranquillo."

"Dottor De Angelis, devo parlarle d'urgenza. Per quella storia..."

"Storia? Quale?"

"Quella del colonnello. E per quell'altra... Una volta lei aveva domandato a Casaubon se avesse sentito parlare del Tres. Ne ho sentito parlare io. Ho delle cose da dirle, importanti."

"Non me le dica. Non è più affar mio. E poi non le pare un po' tardi?"

"Lo ammetto, le avevo taciuto qualcosa, anni fa. Ma ora voglio parlarle."

"No dottor Belbo, non mi parli. Intanto sappia che qualcuno sta certamente ascoltando la nostra telefonata e voglio che si sappia che io non voglio sentire nulla e non so nulla. Ho due figli. Piccoli. E qualcuno mi ha fatto sapere che potrebbe succedergli qualcosa. E per mostrarmi che non scherzavano, ieri mattina mia moglie ha messo in moto la macchina ed è saltato in aria il cofano. Una carica molto piccola, poco più di un mortaretto, ma abbastanza per farmi capire che se si vuole si può. Sono andato dal questore e gli ho detto che ho sempre fatto il mio dovere, più del necessario, ma che non sono un eroe. Arriverei a dare la mia vita, ma non quella di mia moglie e dei bambini. Ho chiesto di essere trasferito. E poi sono andato a dire a tutti che sono un vigliacco, che me la sto facendo addosso. E adesso lo dico anche a lei e a quelli che ci ascoltano. Mi sono rovinato la carriera, ho perso la stima in me stesso, detto alla buona mi accorgo di essere un uomo senza onore, ma salvo i miei cari. La Sardegna è bellissima, mi dicono, non dovrò neppure più risparmiare per mandare i bambini al mare d'estate. Arrivederci."

"Aspetti, la cosa è grave, io sono nei guai..."

"è nei guai? Sono proprio contento. Quando le ho chiesto aiuto non me lo ha dato. E neppure il suo amico Casaubon. Ma adesso che si trova nei guai chiede aiuto a me. Sono nei guai anch'io. Lei è arrivato in ritardo. La polizia è al servizio del cittadino, come dicono nei film, é a questo che lei pensa? Bene, si rivolga alla polizia, al mio successore."

Belbo aveva messo giù il telefono. Tutto perfetto: gli avevano anche impedito di ricorrere all'unico poliziotto che avrebbe potuto credergli.

Poi aveva pensato che Garamond, con tutte le sue conoscenze, prefetti, questori, alti funzionari, avrebbe potuto dargli una mano. Era corso da lui.

Garamond aveva ascoltato con affabilità la sua storia, interrompendolo con cortesi esclamazioni come "ma non mi dica", "guarda che cosa mi tocca sentire", "ma sembra proprio un romanzo, dirò di più, un'invenzione". Poi aveva congiunto le mani, aveva fissato Belbo con infinita simpatia, e aveva detto: "Ragazzo mio, permetta che la chiami così perché potrei essere suo padre – oh dio, suo padre forse no, perché sono ancora un uomo giovane, dirò di più, giovanile, ma un fratello maggiore, se me lo consente. Le parlo col cuore, e ci conosciamo da tanti anni. La mia impressione è che lei sia sovreccitato, al limite delle sue forze, coi nervi a pezzi, dirò di più, affaticato. Non creda che non apprezzi, so che lei si dà corpo e anima alla casa editrice, e un giorno occorrerà tenerne conto anche in termini, come dire, materiali, perché anche quello non guasta. Ma se fossi in lei mi prenderei una vacanza. Dice che si trova in una situazione imbarazzante. Francamente, non drammatizzerei anche se, mi consenta, sarebbe spiacevole per la Garamond se un suo funzionario, il migliore, fosse coinvolto in una storia poco chiara. Lei dice che qualcuno la vuole a Parigi. Non voglio entrare nei dettagli, semplicemente io le credo. E allora? Ci vada, non è meglio mettere subito le cose in chiaro? Lei dice che si trova in termini – come dire – conflittuali con un gentiluomo come il dottor Agliè. Non voglio sapere che cosa sia accaduto esattamente tra voi due, e non starei a rimuginare troppo su quel caso di omonimia di cui mi parla. Quanta gente a questo mondo si chiama Germani, non le pare? Se Agliè le fa dire, lealmente, venga a Parigi che si chiarisce tutto, ebbene, vada a Parigi e non sarà la fine del mondo. Nei rapporti umani ci vuole schiettezza. Vada a Parigi e se ha delle cose sullo stomaco non sia reticente. Quello che si ha nel cuore sia anche sulla bocca. Che cosa sono tutti questi segreti! Il dottor Agliè, se ho capito bene, si duole perché lei non vuole dirgli dove si trova una mappa, una carta, un messaggio o che so io, che lei ha e di cui non si fa nulla, mentre magari al buon Agliè fa comodo per ragioni di studio. Siamo al servizio della cultura, o sbaglio? E gliela dia, questa mappa, questo atlante, questa carta topografica che io non voglio neppure sapere che cosa sia. Se lui ci tiene tanto ci sarà una ragione, certamente rispettabile, un gentiluomo è sempre un gentiluomo. Vada a Parigi, una bella stretta di mano e tutto è finito. Va bene? E non si affligga più del necessario. Lei sa che sono sempre qui." Poi aveva attivato l'interfonico: "Signora Grazia... Ecco, non c'è, non c'è mai quando si ha bisogno di lei. Lei ha i suoi fastidi caro Belbo, ma sapesse i miei. Arrivederci, se vede in corridoio la signora Grazia me la mandi. E si riposi, mi raccomando."

 

Belbo era uscito. Nella segreteria la signora Grazia non c'era, e aveva visto accendersi la luce rossa della linea personale di Garamond, che evidentemente stava chiamando qualcuno. Non era riuscito a resistere (credo che fosse la prima volta in vita sua che commetteva un'indelicatezza). Aveva alzato il microfono e aveva intercettato la conversazione. Garamond stava dicendo a qualcuno: "Non si preoccupi. Credo di averlo convinto. Verrà a Parigi... Mio dovere. Non per nulla apparteniamo alla stessa cavalleria spirituale."

Dunque anche Garamond era parte del segreto. Di quale segreto? Di quello che solo lui, Belbo, ormai poteva rivelare. E che non esisteva.

 

Era ormai sera. Era andato da Pilade, aveva scambiato quattro parole con chissà chi, aveva ecceduto con l'alcool. E la mattina dopo aveva cercato l'unico amico che gli fosse rimasto. Era andato da Diotallevi. Era andato a chiedere aiuto a un uomo che stava morendo.

E dell'ultimo loro colloquio aveva lasciato su Abulafia un resoconto febbrile in cui non riuscivo a dire quanto ci fosse di Diotallevi o di Belbo, perché in entrambi i casi era come il mormorio di chi dice la verità sapendo che non è più il momento di trastullarsi con l'illusione.
110

E così accadde a Rabbi Ismahel ben Elisha con i suoi discepoli, che studiarono íl libro Jesirah e sbagliarono i movimenti e camminarono all'indietro, finché sprofondarono essi stessi nella terra sino all'ombelico, a causa della forza delle lettere.

 

(Pseudo Saadya, Commento al Se/er Jesirah)

 

Non lo aveva visto mai così albino, anche se non aveva quasi più peli, né capelli, né sopracciglia, né palpebre. Sembrava una palla da biliardo. "Scusa," gli aveva detto, "posso parlarti dei casi miei?"

"Fai pure. Io non ho più casi. Solo necessità. Con la enne maiuscola."

"So che hanno trovato una nuova terapia. Queste cose divorano chi ha vent'anni, ma a cinquanta vanno adagio e si fa in tempo a trovare la soluzione."

"Parla per te. Io non ho ancora cinquant'anni. Io ho ancora un fisico giovane. Ho il privilegio di morire più in fretta di te. Ma lo vedi che parlo a fatica. Dimmi la tua storia, così io mi riposo."

Per obbedienza, per rispetto, Belbo gli aveva raccontato tutta la sua storia.

E allora Diotallevi, respirando come la Cosa dei film di fantascienza, aveva parlato. E della Cosa aveva ormai le trasparenze, quell'assenza di limite tra l'esterno e l'interno, tra la pelle e la carne, tra la lieve peluria bionda che gli traspariva ancora dal pigiama aperto sul ventre e la mucillaginosa vicenda di viscere che solo i raggi x, o una malattia a stadio avanzati, riescono a rendere evidente.

"Jacopo, sono qui in un letto, non posso vedere quello che accade fuori. Per quel che io so, o quello che mi racconti si svolge solo dentro di te, o accade fuori. In un caso o nell'altro, che siate diventati matti tu o il mondo, è la stessa cosa. In tutti e due i casi qualcuno ha elaborato e me-scolato e accavallato le parole del Libro più del dovuto."

"Che cosa vuoi dire?"

"Abbiamo peccato contro la Parola, quella che ha creato e mantiene in piedi il mondo. Tu ora ne sei punito, come ne sono punito io. Non c'è differenza tra te e me."

Era venuta un'infermiera, gli aveva dato qualcosa da umettare le labbra, aveva detto a Belbo che occorreva non affaticarlo, ma Diotallevi si era ribellato: "Mi lasci stare. Gli devo dire la Verità. Lei conosce la Verità?"

"Oh io, cosa mi chiede mai, dottore..."

"E allora vada via. Debbo dire al mio amico una cosa importante. Sta' a sentire, Jacopo. Come nel corpo dell'uomo ci sono membra e articolazioni e organi, così ci sono nella Torah, va bene? E così come nella Torah ci sono membra e articolazioni e organi, così ci sono nel corpo dell'uomo, va bene?"

"Va bene."

"E rabbi Meir, quando imparava da rabbi Akiba, mescolava vetriolo nell'inchiostro, e il maestro non diceva nulla. Ma quando rabbi Meir aveva chiesto a rabbi Ismahel se faceva bene, lui gli aveva detto: figliolo, sii cauto nel tuo lavoro, perché è un lavoro divino, e se soltanto ometti una lettera o scrivi una lettera di troppo, distruggi il mondo intero... Noi abbiamo cercato di riscrivere la Torah, ma non ci siamo occupati delle lettere in più o in meno..."

"Scherzavamo..."

"Non si scherza con la Torah."

"Ma noi scherzavamo con la storia, con le scritture degli altri..."

"C'è una scrittura che fondi il mondo e che non sia il Libro? Dammi un po' d'acqua, no, non con il bicchiere, bagna quella pezzuola. Grazie. Ora ascolta. Mescolare le lettere del Libro significa mescolare il mondo. Non si scappa. Qualsiasi libro, anche il sillabario. Quei tipi là, come il tuo dottor Wagner, non dicono che uno che gioca con le parole, e anagramma, e stravolge il lessico, ha delle cose brutte nell'animo e odia suo padre?"

"Non è proprio così. Quelli sono psicoanalisti, dicono così per far soldi, non sono i tuoi rabbini."

"Rabbini, rabbini tutti. Parlano tutti della stessa cosa. Credi che i rabbini che parlavano della Torah parlassero di un rotolo? Parlavano di noi, che cerchiamo di rifare il nostro corpo attraverso il linguaggio. Ora ascolta. Per manipolare le lettere del Libro ci vuole molta pietà, e noi non l'abbiamo avuta. Ogni libro è intessuto del nome di Dio, e noi abbiamo anagrammato tutti i libri della storia, senza pregare. Stai zitto, ascolta. Colui che si occupa della Torah mantiene il mondo in movimento e mantiene in movimento il suo corpo mentre legge, o riscrive, perché non c'è parte del corpo che non abbia un equivalente nel mondo... Bagna la pezzuola, grazie. Se tu alteri il Libro, alteri il mondo, se alteri il mondo alteri il corpo. Questo non abbiamo capito. La Torah lascia uscire una parola dal suo scrigno, appare per un momento e subito si nasconde. E si rivela per un momento solo al suo amante. È come una donna bellissima che si nasconde nel suo palazzo in una piccola camera sperduta. Ha un unico amante, di cui nessuno conosce l'esistenza. E se qualcuno che non è lui vuole violarla, e porle le sue sudice mani addosso, si ribella. Lei conosce il suo amante, apre un piccolo spiraglio, e si mostra per un attimo. E subito si nasconde di nuovo. La parola della Torah si rivela solo a colui che l'ama. E noi abbiamo cercato di parlare di libri senza amore e per irrisione..."

Belbo gli aveva ancora bagnato le labbra con la pezzuola. "E allora?"


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 36 | Нарушение авторских прав



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