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Il pendolo di Foucault 39 страница

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"Spiegazione ingegnosa. Ma vale quanto la congettura del colonnello."

"Sino a questo punto sì. Ma immagina che di congetture ne fai più d'una, e tutte insieme si sostengono l'una con l'altra. Sei già più sicuro di avere indovinato, no? Io sono partita da un sospetto. Le parole usate da Ingolf non sono quelle suggerite da Tritemio. Sono dello stesso stile assíro babilonese cabalistico, ma non sono le stesse. Eppure se Ingolf voleva delle parole che iniziassero con le lettere che gli interessavano, in Tritemio ne trovava quante ne voleva. Perché non ha scelto quelle?"

"Perché?"

"Forse aveva bisogno di certe lettere precise anche in seconda, in terza, in quarta posizione. Forse il nostro ingegnoso Ingolf voleva un messaggio a cifratura multipla. Voleva essere più bravo di Tritemio. Tritemio suggerisce quaranta criptosistemi maggiori: in uno valgono solo le iniziali, nell'altro la prima e la terza lettera, nell'altro ancora un'iniziale sì e una no, e così via, in modo che con un poco di buona volontà di sistemi può inventarne cento altri ancora. Quanto ai dieci criptosistemi minori, il colonnello ha considerato solo la prima rotula, che è la più facile. Ma le seguenti funzionano secondo il principio della seconda, di cui eccoti la copia. Immagina che il cerchio interno sia mobile e che tu possa farlo ruotare in modo che la A iniziale coincida con qualsiasi lettera del cerchio esterno. Avrai così un sistema dove la A si trascrive X e via di seguito, un altro dove la A coincide con la U e via di seguito... Con ventidue lettere su ciascun cerchio, tiri fuori non dieci ma ventuno criptosistemi, e resta nullo solo il ventiduesimo, dove la A coincide con la A...."

"Non dirmi che tu per ciascuna lettera di ogni parola hai provato tutti i ventuno sistemi..."

"Ho avuto sale in zucca e fortuna. Siccome le parole più corte sono di sei lettere, è ovvio che solo le prime sei sono importanti, e il resto sta per bellezza. Perché sei lettere? Ho immaginato che Ingolf avesse cifrato la prima, poi ne avesse saltato una, avesse cifrato la terza, poi ne avesse saltato due e avesse cifrato la sesta. Se per l'iniziale ha usato la rotula numero uno, per la terza lettera ho provato la rotula numero due, e faceva senso. Allora ho provato la rotula numero tre per la sesta lettera, e faceva di nuovo senso. Non escludo che Ingolf abbia usato anche altre lettere, ma tre evidenze mi bastano, e se vuoi continua da te."

"Non tenermi in sospeso. Che cosa ti è venuto fuori?"

"Riguardati il messaggio, ho sottolineato le lettere che contano."

 

 

"Ora, il primo messaggio sappiamo qual è, è quello sui trentasei invisibili. Ora ascolta che cosa viene fuori sostituendo secondo la seconda rotula le terze lettere: chambre des demoiselles, l'aiguille creuse."

"Ma lo conosco, è..."

"En aval d'Etretat — La Chambre des Demosselles — Sous le Fort du Fréf ossé — Aiguille Creuse. È il messaggio decrittato da Arsène Lupin quando scopre il segreto della Guglia Cava! Te lo ricorderai: a Etretat si erge al bordo della spiaggia 1'Aiguille Creuse, un castello naturale, abitabile all'interno, arma segreta di Giulio Cesare quando invadeva le Gallie, e poi dei re di Francia. La sorgente dell'immensa potenza di Lupin. E tu sai che i lupinologi vanno pazzi per questa storia, vanno in pellegrinaggio a Etretat, cercano altri passaggi segreti, anagrammano ogni parola di Leblanc... Ingolf era anche un lupinologo così come era un rosacrociologo, e quindi cifra che ti cifro."

"Ma i miei diabolici potrebbero sempre dire che i Templari conoscevano íl segreto della guglia, e che quindi il messaggio è stato scritto a Provins nel Trecento..."

"Certo, lo so. Ma adesso viene il terzo messaggio. Terza rotula applicata alle seste lettere. Sentilo: merde i'en ai marre de cette steganographie. E questo è francese moderno, i Templari non parlavano così. Parlava così Ingolf, che dopo essersi rotto la testa a cifrare le sue fanfaluche, si è divertito ancora una volta mandando al diavolo, in cifra, quello che stava facendo. Ma siccome non era privo di arguzia, ti faccio notare che i tre messaggi sono ciascuno di trentasei lettere. Mio povero Pim, Ingolf giocava quanto voi, e quell'imbecille del colonnello lo ha preso sul serio."

"E allora perché Ingolf è scomparso?"

"Chi ti dice che lo abbiano assassinato? Ingolf era stufo di stare ad Auxerre, vedendo solo il farmacista e una figlia zitella che piagnucolava tutto il giorno. Magari va a Parigi, fa un bel colpo rivendendo uno dei suoi libri vecchi, si trova una vedovella che ci sta e cambia vita. Come quelli che escono per comperare le sigarette e la moglie non li vede più."

"E il colonnello?"

"E non mi hai detto che neppure quel poliziotto era sicuro che lo avessero ammazzato? Ha combinato qualche pasticcio, le sue vittime lo hanno individuato, e lui ha alzato i tacchi. In questo momento sta magari vendendo la Tour Eiffel a un turista americano e si chiama Dupont."

Non potevo cedere su tutti i fronti. "Va bene, siamo partiti da una nota della lavandaia, ma a maggior ragione siamo stati ingegnosi. Lo sapevamo anche noi che stavamo inventando. Abbiamo fatto della poesia."

"Il vostro piano non è poetico. È grottesco. Alla gente non viene in mente di tornare a bruciare Troia perché ha letto Omero. Con lui l'incendio di Troia è diventato qualcosa che non è mai stato, non sarà mai eppure sarà sempre. Ha tanti sensi perché è tutto chiaro, tutto limpido. I tuoi manifesti dei Rosa-Croce non erano né chiari né limpidi, erano un borborigmo e promettevano un segreto. Per questo tanti hanno cercato di farli diventare veri, e ciascuno ci ha trovato quel che voleva. In Omero non c'è nessun segreto. Il vostro piano è pieno di segreti, perché è pieno di contraddizioni. Per questo potresti trovare migliaia di insicuri disposti a riconoscervisi. Buttate via tutto. Omero non ha fatto finta. Voi avete fatto finta. Guai a fare finta, ti credono tutti. La gente non ha creduto a Semmelweis, che diceva ai medici di lavarsi le mani prima di toccare le partorienti. Diceva cose troppo semplici. La gente crede a chi vende la lozione per far ricrescere i capelli. Sentono per istinto che quello mette insieme verità che non stanno insieme, che non è logico e non è in buona fede. Ma gli hanno detto che Dio è complesso, e insondabile, e quindi l'incoerenza è la cosa che avvertono più simile alla natura di Dio. L'inverosimile è la cosa più simile al miracolo. Voi avete inventato una lozione per far ricrescere i capelli. Non mi piace, è un brutto gioco."

 

Non è che questa storia ci abbia rovinato le settimane di montagna. Ho fatto delle belle camminate, ho letto dei libri seri, non sono mai stato tanto accanto al bambino. Ma tra me e Lía era rimasto qualcosa di non detto. Da un lato Lia mi aveva messo con le spalle al muro e le spiaceva di avermi umiliato, dall'altro non era convinta di avermi convinto.

Infatti io provavo nostalgia del Piano, non volevo buttarlo via, ci avevo convissuto troppo.

Poche mattine fa mi sono alzato presto, per prendere l'unico treno per Milano. E a Milano avrei ricevuto la telefonata di Belbo da Parigi, e avrei dato inizio alla vicenda che non ho ancora finito di vivere.

Lia aveva ragione. Dovevamo parlarne prima. Ma non le avrei creduto lo stesso. Avevo vissuto la creazione del Piano come íl momento di Tiferet, il cuore del corpo sefirotico, l'accordo della regola con la libertà. Diotallevi mi aveva detto che Mosè Cordovero ci aveva avvertito: "Chi si inorgoglisce a causa della sua Torah sull'ignorante, vale a dire sull'insieme del popolo di Iahveh, porta Tiferet a inorgoglirsi su Malkut." Ma cosa sia Malkut, il Regno di questa terra, nella sua sfolgorante semplicità, lo capisco solo ora. In tempo per capire ancora, troppo tardi forse per sopravvivere alla verità.

Lia, non so se ti rivedrò. Se così fosse, l'ultima immagine che ho di te è di poche mattine fa, insonnolita sotto le coperte. Ti ho baciata ed esitavo a uscire.

 


7
NEZAH
107

Non vedi quel cane nero che si aggira per i seminati e per le stoppie?... Mi sembra che egli tenda attorno ai nostri piedi dei sottili lacci magici... Il circolo sì restringe, egli è già vicino.

 

(Faust, 1, Fuori porta)

 

Quello che era accaduto durante la mia assenza, e in particolare negli ultimi giorni prima del mio ritorno, lo potevo desumere solo dai files di Belbo. Ma di questi uno solo era chiaro, scandito per notizie ordinate, ed era l'ultimo, quello che egli aveva probabilmente scritto prima di partire per Parigi, perché io o qualcun altro — a futura memoria — lo potessimo leggere. Gli altri testi, che certamente aveva come al solito scritto per sé, non erano di facile interpretazione. Solo io, che ormai ero entrato nell'universo privato delle sue confidenze ad Abulafia, potevo decrittarli, o almeno trarne delle congetture.

Era inizio giugno. Belbo era agitato. I medici si erano adattati all'idea che gli unici parenti di Diotallevi fossero lui e Gudrun, e finalmente avevano parlato. Alle domande dei tipografi e dei correttori Gudrun ora rispondeva abbozzando un bisillabo con le labbra protese, senza lasciar uscire alcun suono. Così si nomina la malattia tabù.

Gudrun andava a trovare Diotallevi ogni giorno, e credo lo disturbasse per via dei suoi occhi lucidi di pietà. Egli sapeva, ma si vergognava che lo sapessero gli altri. Parlava a fatica. Belbo aveva scritto: "Il volto è tutto zigomi." Gli stavano cadendo i capelli, ma quella era la terapia. Belbo aveva scritto: "Le mani sono tutte dita."

Credo che nel corso di uno dei loro penosi colloqui Diotallevi avesse anticipato a Belbo quello che poi gli avrebbe detto l'ultimo giorno. Belbo si stava già rendendo conto che immedesimarsi nel Piano era male, forse era il Male. Ma, forse per oggettivare il Piano e restituirlo alla sua dimensione puramente fittizia, lo aveva scritto, parola per parola, come se fossero le memorie del colonnello. Lo raccontava come un iniziato che comunicasse il suo ultimo segreto. Credo che per lui fosse la cura: restituiva alla letteratura, per cattiva che fosse, quello che non era vita.

Ma il 10 giugno doveva essere accaduto qualcosa che lo aveva sconvolto. Gli appunti in proposito sono confusi, tento di congetturare.

 

Dunque Lorenza gli aveva chiesto di accompagnarla in macchina in Riviera, dove doveva passare da un'amica a ritirare non so che cosa, un documento, un atto notarile, una sciocchezza che avrebbe potuto essere spedita per posta. Belbo aveva acconsentito, folgorato dall'idea di passare una domenica al mare con lei.

Erano andati in quel luogo, non sono riuscito a capire esattamente dove, forse vicino a Portofino. La descrizione di Belbo era fatta di umori, non ne trasparivano paesaggi ma eccessi, tensioni, scoramenti. Lorenza aveva fatto la sua commissione mentre Belbo aspettava in un bar, e poi aveva detto che potevano andare a mangiar pesce in un posto proprio a picco sul mare.

Da questo momento la storia si frammentava, la deduco da spezzoni di dialogo che Belbo allineava senza virgolette, come se trascrivesse a caldo per non lasciar sfumare una serie di epifanie. Erano andati in macchina sinché si poteva, poi avevano proseguito per quei sentieri liguri lungo la costa, fioriti e impervi, e avevano trovato il ristorante. Ma appena seduti, sul tavolo accanto al loro avevano visto un cartellino che lo riservava per il dottor Agliè.

Ma guarda che combinazione, doveva aver detto Belbo. Una brutta combinazione, aveva detto Lorenza, non voleva che Agliè sapesse che lei era lì e con lui. Perché non voleva, che cosa c'era di male, perché Agliè aveva il diritto di essere geloso? Ma che diritto, è un fatto di buon gusto, mi aveva invitata fuori per oggi e ho detto che ero occupata, non vorrai che faccia la figura della bugiarda. Non fai la figura della bugiarda, eri davvero occupata con me, è una cosa di cui bisogna vergognarsi? Vergognarsi no, ma mi permetterai di avere le mie regole di delicatezza.

Avevano abbandonato il ristorante, e avevano iniziato a risalire il sentiero. Ma di colpo Lorenza si era fermata, aveva visto arrivare della gente che Belbo non conosceva, amici di Agliè, diceva lei, e non voleva farsi vedere. Situazione umiliante, lei appoggiata a un ponticello a picco su una discesa di ulivi, con la faccia coperta dal giornale, come se morisse dalla voglia di sapere cosa stava succedendo nel mondo, lui a dieci passi di distanza, fumando come se passasse di lì per caso.

I commensali di Agliè erano passati ma ora, diceva Lorenza, a continuare lungo il sentiero avrebbero incontrato lui, che certo stava arrivando. Belbo diceva al diavolo, al diavolo, e se così fosse? E Lorenza gli diceva che non aveva un minimo di sensibilità. Soluzione, raggiungere il luogo del parcheggio evitando il sentiero, tagliando lungo le balze. Fuga ansimante, per una serie di terrazze assolate, e a Belbo si era rotto un tacco. Lorenza diceva non vedi come è più bello così, certo che se continui a fumare tanto poi ti manca il fiato.

Avevano raggiunto la macchina e Belbo aveva detto che tanto valeva tornare a Milano. No, gli aveva detto Lorenza, forse Agliè è in ritardo, lo incrociamo sull'autostrada, lui conosce la tua macchina, guarda che bella giornata, tagliamo attraverso l'interno, dev'essere delizioso, raggiungiamo l'autostrada del Sole e andiamo a cena nell'Oltrepò pavese.

Ma perché nell'Oltrepò pavese, ma che cosa vuol dire attraverso l'interno, c'è una sola soluzione, guarda la carta, dobbiamo montare sui monti dopo Uscio, e poi valicare tutto l'Appennino, e far sosta a Bobbio, e di lì si arriva a Piacenza, sei matta, peggio che Annibale con gli elefanti. Non hai il senso dell'avventura, aveva detto lei, e poi pensa quanti bei ristorantini troviamo su quelle colline. Prima di Uscio c'è Manuelina che ha dodici stelle sulla Michelin, tutto il pesce che vogliamo.

Manuelina era pieno, con una fila di clienti che guatavano í tavoli dove stava arrivando il caffè. Lorenza aveva detto non importa, salendo qualche chilometro si trovano cento altri posti meglio di questo. Avevano trovato un ristorante alle due e mezzo, in un borgo infame che a detta di Belbo anche le carte militari si vergognavano di registrare, e avevano mangiato pasta scotta condita con carne in scatola. Belbo le chiedeva cosa c'era sotto, perché non era un caso che si fosse fatta portare proprio dove doveva arrivare Agliè, voleva provocare qualcuno e lui non riusciva a capire chi dei due, e lei gli chiedeva se era paranoico.

Dopo Uscio avevano tentato un passo, e attraversando un paesino che sembrava di essere la domenica pomeriggio in Sicilia e al tempo dei Borsoni, un grande cane nero si era parato attraverso la strada, come se non avesse mai visto un'automobile. Belbo l'aveva colpito col paraurti anteriore, pareva niente, e invece appena erano scesi si erano accorti che la povera bestia aveva l'addome rosso di sangue, con alcune cose strane e rosa (pudenda, viscere?) che spuntavano fuori, e guaiva sbavando. Erano accorsi alcuni villici, si era creata un'assemblea popolare. Belbo chiedeva chi era il padrone, avrebbe pagato i danni, ma il cane non aveva padrone. Rappresentava forse il dieci per cento della popolazione di quel posto abbandonato da Dio, ma nessuno sapeva chi fosse anche se tutti lo conoscevano di vista. Qualcuno diceva che bisognava trovare il maresciallo dei carabinieri che gli avrebbe sparato un colpo, e via.

Stavano cercando il maresciallo, quando era arrivata una signora che si era dichiarata zoofila. Ho sei gatti, aveva detto. Che c'entra, aveva detto Belbo, questo è un cane, ormai sta morendo e io ho fretta. Cane o gatto, ci vuole un poco di cuore, aveva detto la signora. Niente maresciallo, occorre andare a cercare qualcuno della protezione animali, o dell'ospedale del paese vicino, forse la bestia si salva.

Il sole picchiava su Belbo, su Lorenza, sulla macchina, sul cane e sugli astanti, e non tramontava mai, Belbo aveva l'impressione di essere uscito in mutande, ma non riusciva a svegliarsi, la signora non demordeva, il maresciallo era irreperibile, il cane continuava a sanguinare e ansimava con flebili suoni. Uggiola, aveva detto Belbo, cruscante, e la signora diceva certo, certo che uggiola, soffre povero caro, anche lei non poteva stare attento? Il villaggio stava gradatamente subendo un boom demografico, Belbo Lorenza e il cane erano diventati lo spettacolo di quella triste domenica. Una ragazzina con un gelato si era avvicinata e aveva domandato se loro erano quelli della Tv che stavano organizzando il concorso di Miss Appennino Ligure, Belbo le aveva risposto di andare via subito altrimenti l'avrebbe ridotta come il cane, la ragazzina si era messa a piangere. Era arrivato il medico condotto dicendo che la ragazzina era sua figlia e Belbo non sapeva chi era lui. In un rapido scambio di scuse e presentazioni era emerso che il medico aveva pubblicato un Diario da una condotta sperduta presso il celebre Manuzio editore Milano. Belbo era caduto nella trappola e aveva detto di essere magna pars nella Manuzio, il dottore ora voleva che lui e Lorenza si fermassero a cena, Lorenza smaniava e gli dava di gomito nelle costole, così adesso finiremo sui giornali, gli amanti diabolici, non potevi startene zitto?

C'era sempre il sole a picco mentre il campanile suonava a compieta (siamo all'Ultima Thule, commentava Belbo tra i denti, sole per sei mesi, da mezzanotte a mezzanotte, e ho finito le sigarette), il cane si limitava a soffrire e nessuno badava più a lui, Lorenza diceva che aveva un attacco d'asma, Belbo era ormai sicuro che il cosmo fosse un errore del Demiurgo. E finalmente aveva avuto l'idea che loro avrebbero potuto partire con la macchina e cercare soccorsi al centro più vicino. La signora zoofila era d'accordo, che andassero e facessero presto, di un signore che lavorava da un editore di poesia si fidava, anche lei amava tanto Marino Moretti.

Belbo era ripartito e aveva superato cinicamente il centro più vicino, Lorenza malediceva tutti gli animali di cui il Signore aveva lordato la terra dal primo al quinto giorno compreso, e Belbo era d'accordo ma si spingeva a criticare anche l'opera del sesto giorno, e forse il riposo del. settimo, perché trovava che era la domenica più maledetta che mai gli fosse capitata.

 

Avevano iniziato a valicare l'Appennino, ma mentre sulle carte sembrava facile, ci avevano messo molte ore, avevano saltato Bobbio, e verso sera erano arrivati a Piacenza. Belbo era stanco, voleva stare con Lorenza almeno a cena, e aveva preso una camera doppia nell'unico albergo libero, vicino alla stazione. Com'erano saliti di sopra, Lorenza aveva detto che in un posto del genere non avrebbe dormito. Belbo aveva detto che avrebbero cercato qualcosa d'altro, che gli desse tempo di scendere al bar e farsi un Martini. Aveva trovato solo un cognac nazionale, era ritornato in camera e Lorenza non c'era più. Era andato a chiedere notizia al banco e aveva trovato un messaggio: "Amore, ho scoperto uno splendido treno per Milano. Parto. Ci vediamo in settimana."

Belbo era corso alla stazione, e il binario era ormai vuoto. Come in un western.

Belbo aveva dormito a Piacenza. Aveva cercato un libro giallo, ma anche l'edicola della stazione era chiusa. In albergo aveva trovato solo una rivista del Touring Club.

Per sua sventura la rivista aveva un servizio sui passi appenninici che aveva appena varcato. Nel suo ricordo – appassito come se la vicenda gli fosse accaduta tanto tempo prima – erano una terra arida, assolata, polverosa, cosparsa di detriti minerali. Sulle pagine patinate della rivista erano territori di sogno, da ritornare indietro anche a piedi, e riassaporarli passo per passo. Le Samoa di Jim della Canapa.

 

Come può un uomo correre incontro alla sua rovina solo perché ha investito un cane? Eppure così è stato. Belbo ha deciso quella notte a Piacenza che ritirandosi di nuovo a vivere nel Piano non avrebbe subito altre sconfitte, perché lì era lui che poteva decidere chi, come e quando.

E dev'essere stato quella sera che ha stabilito di vendicarsi di Agliè, anche se non sapeva bene perché e per che cosa. Aveva progettato di far entrare Agliè nel Piano, senza che lo sapesse. E d'altra parte era tipico di Belbo cercar rivincite di cui egli fosse l'unico testimone. Non per pudore, ma per sfiducia nella testimonianza altrui. Fatto scivolare nel Piano, Agliè sarebbe stato annullato, si sarebbe dissolto in fumo come il lucignolo di una candela. Irreale come í Templari di Provins, i Rosa-Croce, e Belbo stesso.

Non dev'essere difficile, pensava Belbo: abbiamo ridotto alla nostra misura Bacone e Napoleone, perché non Agliè? Lo mandiamo anche lui a cercare la Mappa. Di Ardenti e del suo ricordo mi sono liberato collocandolo in una finzione migliore della sua. Succederà così anche con Agliè.

 

Credo che ci credesse sul serio, tanto può il desiderio deluso. Quel suo file terminava, né poteva essere altrimenti, con la citazione d'obbligo di tutti coloro che la vita ha sconfitto: Bin ich ein Gott?
108

Qual è l'influenza nascosta che agisce attraverso la stampa, dietro a tutti í movimenti sovversivi che ci circondano? Ci sono diversi Poteri all'opera? O c'è un solo Potere, un gruppo che dirige tutti gli altri, la cerchia dei Veri Iniziati?

 

(Nesta Webster, Secret Societies and Subversive Movements, London, Boswell, 1924, p. 348)

 

Forse avrebbe dimenticato il suo proposito. Forse gli bastava averlo scritto. Forse sarebbe stato sufficiente che avesse rivisto subito Lorenza. Sarebbe stato ripreso dal desiderio e il desiderio l'avrebbe obbligato a scendere a patti con la vita. E invece proprio il lunedì pomeriggio gli era capitato in ufficio Agliè, odoroso di colonie esotiche, sorridente, a consegnargli alcuni manoscritti da condannare, e dicendo che li aveva letti durante uno splendido week end in Riviera. Belbo era stato ripreso dal suo rancore. E aveva deciso di beffarlo e di fargli intravedere l'elitropia.

Così, con aria da buffalmacco, gli aveva lasciato capire che da più di dieci anni era oppresso da un segreto iniziatico. Un manoscritto, affidatogli da un certo colonnello Ardenti, che si diceva in possesso del Piano dei Templari... Il colonnello era stato rapito o ucciso da qualcuno che si era impadronito delle sue carte, e aveva lasciato la Garamond portando con sé un testo civetta, volutamente errato, fantasioso, addirittura puerile, che serviva solo a far capire che egli aveva messo gli occhi sul messaggio di Provins e sui veri appunti finali di Ingolf, quelli che i suoi assassini stavano ancora cercando. Ma una cartella assai esile, che conteneva solo dieci paginette, e in quelle dieci pagine c'era il vero testo, quello veramente trovato tra le carte di Ingolf, quella era rimasta in mano a Belbo.

Ma che cosa curiosa, aveva reagito Agliè, mi dica, mi dica. E Belbo gli aveva detto. Gli aveva raccontato tutto il Piano così come lo avevamo concepito, e come se fosse la rivelazione di quel manoscritto lontano. Gli aveva persino detto, in tono sempre più circospetto e confidenziale, che anche un poliziotto, tale De Angelis, era arrivato sull'orlo della verità, ma si era urtato contro il suo silenzio ermetico,— era il caso di dirlo — di lui, Belbo, íl custode del più grande segreto dell'umanità. Un segreto che poi, alla fin fine, si riduceva al segreto della Mappa.

E a quel punto aveva fatto una pausa, piena di sottintesi come tutte le grandi pause. La sua reticenza sulla verità finale garantiva la verità delle premesse. Nulla, per chi davvero crede a una tradizione segreta (calcolava), è più fragoroso del silenzio.

"Ma che interessante, che interessante," diceva Agliè, traendo fa tabacchiera dal panciotto, con l'aria di pensare ad altro. "E... e la mappa?"

E Belbo pensava: vecchio voyeur, ti stai eccitando, ben ti sta, con tutte le tue arie da San Germano sei soltanto un cialtroncello che vive sul gioco delle tre carte, e poi comperi il Colosseo dal primo cialtrone più cialtrone di te. Adesso ti spedisco a cercar mappe, così scompari nelle viscere della terra, travolto dalle correnti, e vai a sbattere la testa contro il polo sud di qualche spinotto celtico.

E con aria circospetta: "Naturalmente nel manoscritto c'era anche la mappa, ovvero la sua descrizione precisa, e il riferimento all'originale. È sorprendente, lei non immagina quanto fosse semplice la soluzione del problema. La mappa era alla portata di tutti, chiunque la poteva vedere, migliaia di persone ci sono passate davanti ogni giorno, per secoli. E d'altra parte, il sistema di orientamento è così elementare che basta memorizzarne lo schema, e la mappa si potrebbe riprodurre seduta stante, ovunque. Così semplice e così imprevedibile... Faccia conto — dico solo per rendere l'idea — è come se la mappa fosse iscritta nella piramide di Cheope, squadernata davanti agli occhi di tutti, e tutti per secoli hanno letto e riletto e decifrato la piramide per trovarvi altre allusioni, altri calcoli, senza intuirne l'incredibile, splendida semplicità. Un capolavoro di innocenza. E di perfidia. I Templari di Provins erano dei maghi."

"Lei mi incuriosisce davvero. E non me la farebbe vedere?"

"Le confesso, ho distrutto tutto, le dieci pagine e la mappa. Ero spaventato, lei capisce, vero?"

"Non mi dirà che ha distrutto un documento di tale portata..."

"L'ho distrutto, ma le ho detto che la rivelazione era di assoluta semplicità. La mappa è qui," e si toccava la fronte — e gli veniva da ridere, perché si ricordava della barzelletta del tedesco che dice "tutto qvi in mio kulo". "E più di dieci anni che lo porto con me, quel segreto, è più di dieci anni che porto quella mappa qui," e si toccava ancora la fronte, "come un'ossessione, e sono spaventato dal potere che potrei ottenere se solo mi decidessi ad assumere l'eredità dei Trentasei Invisibili. Ora capisce perché ho convinto Garamond a pubblicare Iside Svelata e la Storia della Magia. Attendo il contatto giusto." E poi, sempre più trascinato nella parte che si era assunto, e per mettere alla prova definitivamente Agliè, gli aveva recitato quasi alla lettera le parole ardenti che Arsenio Lupin pronunciava di fronte a Beautrelet nel finale dell'Aiguille Creuse: "In certi momenti la mia potenza mi fa girar la testa. Sono ebbro di forza e di autorità."

"Andiamo caro amico," aveva detto Agliè, "e se lei avesse dato credito eccessivo alle fantasie di un esaltato? È sicuro che quel testo fosse autentico? Perché non si fida della mia esperienza in queste cose? Sapesse quante rivelazioni del genere ho avuto in vita mia, e ho se non altro il merito di averne dimostrato l'inconsistenza. Mi basterebbe uno sguardo alla mappa per valutarne l'attendibilità. Vanto qualche competenza, forse modesta, ma precisa, nel campo della cartografia tradizionale."

"Dottor.Agliè," aveva detto Belbo, "lei sarebbe il primo a ricordarmi che un segreto iniziatico rivelato non serve più a nulla. Ho taciuto per anni, posso tacere ancora."

E taceva. Anche Agliè, gaglioffo o meno che fosse, viveva sul serio il suo ruolo. Aveva passato la vita a dilettarsi con segreti impenetrabili, e credeva fermamente, ormai, che le labbra di Belbo sarebbero state sigillate per sempre.

In quel momento era entrata Gudrun e aveva annunciato che l'appuntamento a Bologna era stato fissato per il venerdì a mezzogiorno. "Può prendere il TEE della mattina," aveva detto.

"Treno delizioso il TEE," aveva detto Agliè. "Ma occorrerebbe sempre prenotare, specie di questa stagione." Belbo aveva detto che anche salendo all'ultimo momento si trovava posto, magari al vagone ristorante, dove servivano la prima colazione. "Glielo auguro," aveva detto Agliè. "Bologna, bella città. Ma è così calda di giugno..."


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 36 | Нарушение авторских прав



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