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Il pendolo di Foucault 36 страница

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"E che è più facile imitare il feuilleton che l'arte. Diventare la Gioconda è un lavoro, diventare Milady segue il nostro naturale penchant alla facilità."

Diotallevi, che sino ad allora era restato in silenzio, aveva osservato:

"Vedete il nostro Agliè. Trova più facile imitare San Germano che Voltaire."

"Sì," aveva detto Belbo, "in fondo anche le donne trovano più interessante San Germano di Voltaire."

Ho ritrovato dopo questo file, dove Belbo aveva riassunto le nostre conclusioni in termini romanzeschi. Dico in termini romanzeschi perché mi rendo conto che si era divertito a ricostruire la vicenda senza metterci, di suo, che poche frasi di raccordo. Non individuo tutte le citazioni, i plagi e i prestiti, ma ho riconosciuto molti brani di questo furibondo collage. Ancora una volta, per sfuggire all'inquietudine della Storia, Belbo aveva scritto e rivisitato la vita per interposta scrittura.

 

 

filename: Il ritorno di San Germano

 

Ormai da cinque secoli la mano vendicatrice dell'Onnipotente mi ha spinto, dalle profondità dell'Asia, sino su queste terre. Porto con me lo spavento, la desolazione, la morte. Ma orsù, sono il notaio del Piano, anche se gli altri non Io sanno. Ne ho ben viste di peggio, e il macchinar la notte di San Bartolomeo m'è costato più tedio di quanto non stia accingendomi a fare. Oh, perché le mie labbra si increspano in questo sorriso satanico? lo sono colui che è, se il maledetto Cagliostro non mi avesse usurpato anche quest'ultimo diritto.

Ma il trionfo è vicino. Soapes, quand'ero Kelley, mi ha insegnato tutto, nella Torre di Londra. Il segreto è diventare un altro.

Con astuti raggiri ho fatto rinchiudere Giuseppe Balsamo nella fortezza di San Leo, e mi sono impadronito dei suoi segreti. Come San Germano sono scomparso, tutti ora mi credono il conte di Cagliostro.

La mezzanotte è da poco suonata in tutti gli orologi della città. Quale innaturale quiete. Questo silenzio non mi convince. La sera è splendida, sebbene freddissima, la luna alta nel cielo illumina di un chiarore algido i vicoli impenetrabili della vecchia Parigi. Potrebbero essere le dieci di sera: il campanile dell'abbazia dei Black Friars ha da poco battuto lentamente le otto. II vento scuote con lugubre stridio le banderuole di ferro sulla desolata distesa dei tetti. Una spessa coltre di nubi ricopre il cielo.

Capitano, risaliamo? No, al contrario, precipitiamo. Dannazione, tra poco il Patria colerà a picco, salta Jim della Canapa, salta. Non darei forse, per sfuggire a questa angoscia, un diamante grande come una nocciola? Orza la barra, la randa, il pappafico, e che altro vuoi, oste della malora, laggiù soffia.

Digrigno orribilmente la chiostra dei denti mentre un pallore di morte mi infiamma il viso cereo di vampe verdastre.

Come sono arrivato qui, io che sembro l'immagine stessa della vendetta? Gli spiriti dell'inferno sorrideranno con spregio alle lagrime dell'essere la cui voce minacciosa li ha fatti tremare sì sovente nel seno stesso del loro abisso di fuoco.

Orsù, una face.

Quanti scalini ho disceso prima di penetrare in questa stamberga? Sette? Trentasei? Non c'è pietra che abbia sfiorato, passo che abbia compiuto, che non celasse un geroglifico. Quando l'avrò palesato, ai miei fidi sarà rivelato finalmente il Mistero. Dopo non ci sarà che da decifrarlo, e la sua soluzione sarà la Chiave, dietro la quale si nascode il Messaggio, che all'iniziato, e solo a quello, dirà a chiare lettere quale sia la natura dell'Enigma.

Dall'enigma al decrittaggio, il passo è breve, e ne uscirà lampante lo ierogramma, su cui affinare la preghiera dell'interrogazione. Poi più a nessuno potrà essere ignoto l'Arcano, velo, coltre, arazzo egizio che copre il Pentacolo. E di lì verso la luce a dichiarare del pentacolo il Senso Occulto, la Domanda Cabalistica a cui solo pochi risponderanno, per dire con voce di tuono quale sia il Segno Insondabile. Su di esso piegati, Trentasei Invisibili dovranno dare la risposta, l'enunciazione della Runa il cui senso è aperto solo ai figli d'Ermete, e a essi sia dato il Sigillo Beffardo, Maschera dietro a cui si profili il volto che essi cercano di mettere a nudo, il Rebus Mistico, l'Anagramma Sublime...

- Sator Arepo! grido con voce da far fremere uno spettro. E abbandonando la ruota che tiene con l'opera accorta delle sue mani omicide, Sator Arepo appare, prono al mio comando. Lo riconosco, e già sospettavo chi fosse. E Luciano, lo spedizioniere mutilato, che i Superiori Sconosciuti hanno destinato a esecutore del mio compito infame e sanguinoso.

- Sator Arepo, chiedo beffardo, sai tu quale sia la risposta finale che si cela dietro il Sublime Anagramma?

- No conte, risponde l'incauto, e l'attendo dalle tue parole.

Una risata infernale esce dalle mie labbra pallide e risuona sotto le antiche volte.

Illuso! Solo il vero iniziato sa di non saperla!

- Sì padrone, risponde ottuso lo spedizioniere mutilato, come volete voi. lo sono pronto.

Siamo in una stamberga sordida di Clignancourt. Questa sera debbo punire te, prima di tutti, tu che mi hai iniziato alla nobile arte del delitto. Di te, che fingi di amarmi, e quel che è peggio il credi, e dei nemici senza nome con cui passerai il prossimo week-end. Luciano, testimone importuno delle mie umiliazioni, mi presterà il suo braccio — l'unico — poi ne morrà.

Una stamberga con una botola nel pavimento, che sovrasta una specie di botro, di réservoir, di budello sotterraneo, usato da tempi immemorabili per deporvi merce di contrabbando, inquietantemente umido perché confina coi condotti delle fogne di Parigi, labirinto del delitto, e le vecchie pareti trasudano indicibili miasmi, così che basta, con l'aiuto di Luciano, fedelissimo nel male, praticare un buco nella parete e l'acqua entra a fiotti, allaga lo scantinato, fa crollare i muri già pericolanti, rende il botro tutt'uno col resto dei condotti, ora vi galleggiano pantegane putrefatte, la superficie nerastra che s'intravede dal sommo della botola è ormai vestibolo alla perdizione notturna: lontano lontano, la Senna, poi il mare....

Dalla botola pende una scaletta a pioli assicurata al bordo superiore, e su questa, a pelo d'acqua, si sistema Luciano, con un coltello: una mano salda sul primo piolo, l'altra che stringe il pugnale, la terza pronta ad afferrar la vittima. Ora aspetta, e in silenzio — gli dico — vedrai.

Ti ho convinto a eliminare tutti gli uomini con la cicatrice — vieni con me, sii mia per sempre, eliminiamo quelle presenze importune, so bene che tu non li ami, me l'hai detto, rimarremo tu ed io, e le correnti sotterranee.

Ora sei entrata, altera come una vestale, chioccia e rattrappita come una megera — o visione d'inferno che scuoti i miei lombi centenari e mi serri il petto nella morsa del desiderio, o splendida mulatta, strumento della mia perdizione. Con le mani adunche mi lacero la camicia di fine batista che m'orna il petto, e con l'unghie lo strio di solchi sanguinosi, mentre un'arsura atroce mi brucia le labbra fredde come le mani del serpente. Un sordo ruggito sale dalle più nere caverne dell'anima mia ed erompe dalla chiostra dei denti miei ferini — io centauro vomitato dal tartaro — e quasi non s'ode volare una salamandra, perché l'urlo trattengo, e mi ti avvicino con un sorriso atroce.

- Mia cara, mia Sophia, ti dico con la grazia felina con cui sa parlare solo il capo segreto dell'Ochrana. Vieni, ti attendevo, acquattati con me nella tenebra, e attendi — e tu ridi chioccia, viscida, pregustando una qualche eredità o bottino, un manoscritto dei Protocolli da vendere allo zar... Come sai celare dietro quel volto d'angelo la tua natura di demone, pudicamente fasciata dai tuoi androgini blue-jeans, la T-shirt quasi trasparente che tuttavia cela il giglio infame stampato sulle tue carni bianche dal boia di Lilla!

È giunto il primo insipiente, da me attratto nel tranello. Ne scorgo a fatica le fattezze, sotto il ferrauolo che lo avviluppa, ma mi mostra il segno dei templari di Provins. È Soapes, il sicario del gruppo di Tomar. — Conte, mi dice, il momento è giunto. Per troppi anni abbiamo errato dispersi per il mondo. Voi avete il brandello finale del messaggio, io quello che apparve all'inizio del Grande Gioco. Ma questa è un'altra storia. Riuniamo le nostre forze, e gli altri...

Completo la sua frase: — Gli altri, all'inferno. Va', fratello, al centro della stanza vi è uno scrigno, nello scrigno ciò che cerchi da secoli. Non temere l'oscurità, essa non ci minaccia ma ci protegge.

L'insipiente muove i suoi passi, quasi a tentoni. Un tonfo, cupo. È precipitato nella botola, a pelo d'acqua Luciano lo afferra e vibra la sua lama, un taglio di gola rapido, il gorgoglio del sangue si confonde col ribollire del liquame ctonio.

Bussano alla porta. — Sei tu Disraeli?

- Si, mi risponde lo sconosciuto, in cui i miei lettori avranno riconosciuto il gran maestro del gruppo inglese, ormai salito ai fastigi del potere, ma ancora non pago. Egli parla: — My Lord, it is useless to deny, because it is impossible to conceal, that a great part of Europa is covered with a network of these secret societies, just as the superficies of the earth is now being covered with railroads...

- Lo hai già detto ai Comuni, 14 luglio 1856, nulla mi sfugge. Veniamo al sodo.

II giudeo baconiano impreca tra i denti. Prosegue: — Sono troppi. I trentasei invisibili ora sono trecentosessanta. Moltiplica per due, settecentoventi. Sottrai i centoventi anni al termine dei quali si aprono le porte, e hai seicento, come la carica di Balaklava.

Diavolo di un uomo, la scienza segreta dei numeri non ha segreti per lui. — Ebbene?

- Noi abbiamo l'oro, tu la mappa. Uniamoci, e saremo invincibili.

Con un gesto ieratico gli addito Io scrigno fantasmatico che egli, accecato dalla sua brama, crede di scorgere nell'ombra. Si avvia, cade.

Odo il sinistro balenio della lama di Luciano, malgrado la tenebra vedo il rantolo che luccica nella tacita pupilla dell'inglese. Giustizia è fatta.

Attendo il terzo, l'uomo dei Rosa-Croce francesi, Montfaucon de Villars, pronto a tradire, già ne son prevenuto, i segreti della sua setta.

-Sono il conte di Gabais, si presenta, mendace e fatuo.

Ho poche parole da sussurrare per indurlo ad avviarsi verso il suo destino. Cade, e Luciano, avido di sangue, compie la sua bisogna.

Tu sorridi con me nell'ombra, e mi dici che tu sei mia, e tuo sarà il mio segreto. Illuditi illuditi, sinistra caricatura della Shekinah. Sì, sono il tuo Simone, attendi, ignori ancora il meglio. E quando l'avrai saputo avrai cessato di saperlo.

Che aggiungere? Uno a uno entrano gli altri.

Padre Bresciani mi aveva informato che a rappresentare gli illuminati tedeschi sarebbe venuta Babette d'Interlaken, pronipote di Weishaupt, la gran vergine del comunismo elvetico, cresciuta tra le crapule, la rapina e il sangue, esperta nel carpire segreti impenetrabili, nell'aprire dispacci senza violarne i sigilli, nel propinar veleni secondo che la sua setta le comandasse.

Entra dunque, il giovane agatodèmone del delitto, avvolta di una pelliccia d'orso bianco, i lunghi capelli biondi che le fluiscon da sotto Io spavaldo colbacco, sguardo altero, piglio sarcastico. E con il solito raggiro la dirigo verso la perdizione.

Ah, ironia del linguaggio — questo dono che natura ci ha dato per tacere i segreti dell'animo nostro! L'Illuminata cade vittima del Buio. L'odo vomitare orribili bestemmie, l'impenitente, mentre Luciano le rigira il coltello tre volte nel cuore. Déjà vu, déjà vu...

È la volta di Nilus, che per un istante aveva creduto di avere e la zarina e la mappa. Sudicio monaco lussurioso, volevi l'Anticristo? Te lo trovi davanti, ma l'ignori. E cieco Io awio, tra mille mistiche lusinghe, al trabocchetto infame che lo attende. Luciano gli squarcia il petto con una ferita in forma di croce, ed egli sprofonda nel sonno eterno.

Debbo superare l'ancestrale diffidenza dell'ultimo, il Savio di Sion, che si pretende Asvero, l'Ebreo Errante, come me immortale. Non si fida, mentre sorride untuoso con la barba ancora intrisa del sangue delle tenere creature cristiane di cui è uso far scempio nel cimitero di Praga. Mi sa Rabkovskij, debbo superarlo in astuzia. Gli faccio intendere che lo scrigno non contenga solo la mappa, ma anche diamanti grezzi, ancora da tagliare. Conosco il fascino che i diamanti grezzi esercitano su questa genia deicida. Va verso il suo destino trascinato dalla sua cupidigia ed è al Dio suo, crudele e vendicativo, che impreca mentre muore, trafitto come Hiram, e difficile gli è puranco imprecare, perché del suo Dio non riesce a pronunciare il nome.

Illuso, che credevo di aver portato la Grande Opera a termine.

Come percossa da un turbine, ancora una volta si apre la porta della stamberga ed appare una figura dal volto livido, le mani rattrappite devotamente sul petto, lo sguardo fugace, che non riesce a celare la sua natura perché veste le nere veàfl della sua nera Compagnia. Un figlio di Loyola!

- Cretineau! grido, tratto in inganno.

Egli leva la mano in un ipocrita gesto di benedizione. — Non sono colui che sono, mi dice con un sorriso che più nulla ha d'umano.

E vero, questa è sempre stata la loro tecnica: talora essi negano a se medesimi la loro propria esistenza, talora proclamano la potenza del loro ordine per intimidare l'ignavo.

- Noi siamo sempre altro da ciò che voi pensate, figli di Belial (dice ora quel seduttore di sovrani). Ma tu, o San Germano...

- Come sai ch'io sia dawero? domando turbato.

Sorride minaccioso: — Mi hai conosciuto in altri tempi, quando hai cercato di trarmi via dal capezzale di Poste!, quando sotto il nome di Abate d'Herblay ti ho condotto a terminare una delle tue incarnazioni nel cuore della Bastiglia (oh, come ancora sento sul volto la maschera di ferro a cui la Compagnia, con l'aiuto di Colbert, mi aveva condannato!), mi hai conosciuto quando spiavo i tuoi conciliaboli con d'Holbach e Condorcet...

- Rodin! esclamo, come colpito da una folgore.

- Sì Rodin, il generale segreto dei gesuiti! Rodin, che non ingannerai facendolo cadere nella botola, come hai fatto con gli altri illusi. Sappi, o San Germano, che non vi è delitto, artificio nefasto, trappola criminale, che noi non abbiamo inventato prima di voi, per la maggior gloria di quel nostro Dio che giustifica i mezzi! Quante teste coronate non abbiamo fatto cadere nella notte che non ha mattino, in trabocchetti ben più sottili, per ottenere il dominio del mondo. Ed ora tu vuoi impedire che, a un passo dalla meta, non mettiamo le nostre mani rapaci sul segreto che muove da cinque secoli la storia del mondo?

Rodin, parlando in tal guisa, diventa spaventevole. Tutti quegli istinti di ambizione sanguinaria, sacrilega, esecrabile che si erano manifestati nei papi del Rinascimento, traspaiono ora sulla fronte di quel figlio d'Ignazio. Ben vedo: una sete di dominazione insaziabile agita il suo sangue impuro, un sudore bruciante lo inonda, una specie di vapore nauseabondo si diffonde intorno a lui.

Come colpire quell'ultimo nemico? Mi sovviene l'intuizione inattesa, che solo sa nutrire colui per cui l'animo umano, da secoli, non ha penetrali inviolati.

- Guardami, dico, anch'io sono una Tigre.

D'un sol colpo spingo te in mezzo alla stanza, e ti strappo la T-shirt, lacero la cintura dell'attillata corazza che cela le grazie del tuo ventre ambrato. Ora tu, alla pallida luce della luna che penetra dalla porta socchiusa, ti ergi, più bella del serpente che sedusse Adamo, altera e lasciva, vergine e prostituta, vestita solo del tuo carnale potere, perché la donna nuda è la donna armata.

Il klaft egiziano scende sui tuoi folti capelli, azzurri a forza d'esser neri, il seno palpitante sotto la mussola leggera. Intorno alla piccola fronte arcuata e ostinata si avvolge l'uraeus d'oro dagli occhi di smeraldo, dardeggiando sul tuo capo la sua triplice lingua di rubino. Oh la tua tunica di velo nero dai riflessi d'argento, serrata da una sciarpa ricamata d'iridi funeste, in perle nere. Il tuo pube rigonfio raso a filo affinché tu abbia, agli occhi dei tuoi amanti, la nudità di una statua! La punta dei tuoi capezzoli già soavemente sfiorata dal pennello della tua schiava del Malabar, intinto dello stesso carminio che ti insanguina le labbra, invitanti come una ferita

Rodin ora ansima. Le lunghe astinenze, la vita spesa in un sogno di potenza, altro non han fatto che prepararlo vieppiù al suo desiderio incontenibile. Di fronte a questa regina bella ed impudica, dagli occhi neri come quelli del demonio, dagli omeri rotondi, dai capelli odorosi, dalla pelle bianca e tenera, Rodin è preso dalla speranza di carezze ignorate, di voluttà ineffabili, freme nella sua stessa carne, come freme un dio silvano nel mirare una ninfa ignuda che si specchi nell'acqua che ha già dannato Narciso. Ne indovino in controluce il rictus incontenibile, egli è come pietrificato da Medusa, scolpito nel desiderio di una virilità repressa e ora al tramonto, fiamme ossessionanti di libidine gli torcono le carni, è come un arco teso alla meta, teso sino al punto in cui cede e si spezza.

Di colpo è caduto al suolo, strisciante davanti a questa apparizione, la mano come un artiglio proteso a invocare un sorso di elisire.

- Oh, rantola, oh come sei bella, oh quei piccoli denti di lupatta che balenano quando schiudi le labbra rosse e tumide... Oh i tuoi grandi occhi di smeraldo che ora sfavillano e ora languono. Oh demonio di voluttà.

Ne ha ben donde, il miserabile, mentre tu muovi ora le anche fasciate dal panno bluastro e protendi il pube per spingere il flipper all'ultima demenza.

- Oh visione, dice Rodin, sii mia, per un istante solo, colma con un attimo di piacere una vita spesa al servizio di una divinità gelosa, consola con un baleno di lussuria l'eternità di fiamma a cui la tua visione ora mi spinge e trascina. Ti prego, sfiora il mio volto con le tue labbra, tu Antinea, tu Maria Maddalena, tu che ho desiderato nel volto delle sante sbigottite dall'estasi, che ho concupito nel corso delle mie ipocrite adorazioni di volti virginali, o Signora, bella tu sei qual sole, bianca come la luna, ecco e io rinnego e Iddio, e i Santi, e lo stesso Pontefice Romano, dirò di più, rinnego il Loyola, e il giuramento criminoso che mi lega alla mia Compagnia, impetro un solo bacio, e poi ch'io ne muoia.

Ha fatto ancora un passo, strisciando sulle ginocchia rattrappite, la tonaca sollevata sui lombi, la mano ancor più tesa verso questa irraggiungibile felicità. Improwisamente è ricaduto all'indietro, gli occhi che sembrano uscirgli dall'orbite. Atroci convulsioni imprimono ai suoi lineamenti scosse disumane, simili a quelle che la pila di Volta produce sul viso dei cadaveri. Una schiuma bluastra gli imporpora le labbra, da cui esce una voce sibilante e strozzata, come quella di un idrofobo, perché quando giunge alla sua fase parossistica, come ben dice Charcot, questa spaventosa malattia che è la satiriasi, punizione della lussuria, imprime le stesse stimmate della follia canina.

È la fine. Rodin prorompe in un riso insensato. Quindi piomba al suolo esanime, immagine vivente del rigor cadaverico.

In un solo istante egli è diventato pazzo ed è morto dannato.

Mi sono limitato a spingere il corpo verso la botola, con cautela, per non sporcare i miei polacchini di coppale contro la tonaca untuosa dell'ultimo mio nemico.

Non c'è bisogno del pugnale omicida di Luciano, ma il sicario non riesce più a controllare i suoi gesti, teso in una ferale coazione a ripetere. Ride, e pugnala un cadavere ormai privo di vita.

Ora mi porto con te sull'orlo della botola, ti accarezzo il collo e la nuca mentre tu ti protendi per godere la scena, ti dico: — Sei contenta del tuo Rocambole, amore mio inaccessibile?

E mentre tu annuisci lasciva e sogghigni salivando nel vuoto, stringo impercettibilmente le dita, che hai amore mio, niente Sophia, ti uccido, ormai sono Giuseppe Balsamo e non ho più bisogno di te.

La druda degli Arconti spira, precipita in acqua, Luciano ratifica con un colpo di lama il verdetto della mia mano impietosa e io gli dico: — Ora puoi risalire, mio fido, mia anima dannata, e mentre risale e mi offre la schiena gli infiggo nelle scapole un sottile stiletto dalla lama triangolare, che quasi non lascia cicatrice. Egli precipita, chiudo la botola, è fatta, abbandono la stamberga, mentre otto corpi stanno navigando verso Io Chatelet, per condotti noti a me solo.

Tomo nel mio quartierino del Faubourg Saint-Honoré, mi guardo allo specchio. Ecco, mi dico, sono il Re del Mondo. Dalla mia guglia cava domino l'universo. In certi momenti la mia potenza mi fa girar la testa. Sono un maestro di energia. Sono ebro di autorità.

Ahimè, che la vendetta della vita non sarà tarda a venire. Mesi dopo, nella cripta più profonda del castello di Tomar, ormai padrone del segreto delle correnti sotterranee e signore dei sei luoghi sacri di coloro che erano stati i Trentasei Invisibili, ultimo degli ultimi Templari e Superiore Sconosciuto di tutti i Superiori Sconosciuti, dovrei impalmare Cecilia, l'androgina dagli occhi di ghiaccio, dalla quale più nulla ormai mi separa. L'ho ritrovata dopo secoli, da che mi era stata sottratta dall'uomo del sassofono. Ora essa cammina in bilico sullo schienale della panchina, azzurra e bionda, né ancora so cosa abbia sotto il tulle vaporoso che l'adorna.

La cappella è scavata nella roccia, l'altare è sormontato da una tela inquietante che raffigura i supplizi dei dannati nelle viscere dell'inferno. Alcuni monaci incappucciati mi fanno tenebrosamente ala, e ancora non mi turbo; affascinato come sono dalla fantasia iberica....

Ma — orrore — la tela si solleva, e al di là da essa, opera mirabile di un Arcimboldo delle spelonche, appare un'altra cappella, in tutto simile a quella dove sono, e là, davanti a un altro altare sta inginocchiata Cecilia e accanto a lei — un sudore gelido mi imperla la fronte, i capelli mi si rizzano sul capo — chi vedo ostentare beffardo la sua cicatrice? L'Altro, il vero Giuseppe Balsamo, che qualcuno ha liberato dalla segreta di San Leo!

E io? È a questo punto che il più anziano dei monaci solleva il cappuccio, e riconosco l'orribile sorriso di Luciano, chissà come scampato al mio stiletto, alle fogne, alla melma sanguinosa che avrebbe dovuto trascinano ormai cadavere nel fondo silenzioso degli oceani, passato ai miei nemici per giusta sete di vendetta.

I monaci si liberano dalle loro tonache e appaiono catafratti in un'armatura sino ad allora celata, una croce fiammeggiante sul mantello candido come la neve. Sono i templari di Provins!

Mi afferrano, mi costringono a voltare il capo, e dietro di me è orà apparso un carnefice con due aiutanti deformi, vengo piegato su di una sorta di garrota, e con un marchio a fuoco mi si consacra preda eterna del carceriere, il sorriso infame del Bafometto si imprime per sempre sulla mia spalla — ora comprendo, affinché possa sostituire Balsamo a San Leo, ovvero riprendere il posto che mi era assegnato sin dall'eternità.

Ma mi riconosceranno, mi dico, e poiché tutti credono ormai che io sia colui, e quello il dannato, qualcuno mi verrà pure in aiuto — i miei complici almeno — non si può sostituire un prigioniero senza che nessuno se ne accorga, non siamo più ai tempi della Maschera di Ferro... Illuso! In un lampo comprendo, mentre il carnefice mi piega la testa su di un bacile di rame da cui si levano vapori verdastri.... Il vetriolo!

Mi viene posta una pezzuola sugli occhi, e il volto è spinto a contatto col liquido vorace, un dolore insopportabile, lancinante, la pelle delle mie gote, del naso, della bocca, del mento, si raggriccia, si squama, basta un istante, e come vengo risollevato per i capelli il mio viso è ormai irriconoscibile, una tabe, un vaiuolo, un indicibile nulla, un inno alla ripugnanza, tornerò alla segreta come vi tornano molti fuggitivi che ebbero il coraggio di sfigurarsi per non essere ripresi.

Ah, grido sconfitto e, a detta del narratore, una parola esce dalle mie labbra corrotte, un sospiro, un grido di speranza: Redenzione!

Ma redenzione da che, vecchio Rocambole, lo sapevi bene che non dovevi tentare di essere un protagonista! Sei stato punito, e con le tue stesse arti. Hai umiliato gli scrivani dell'illusione, e ora — lo vedi — scrivi, con l'alibi della macchina. Ti illudi di essere spettatore, perché ti leggi sullo schermo come se le parole fossero di un altro, ma sei caduto nella trappola, ecco che cerchi di lasciare tracce nella sabbia. Hai osato cambiare il testo del romanzo del mondo, e il romanzo del mondo ti riprende nelle sue trame, e ti awinghia al suo intreccio, che tu non hai deciso.

Meglio fossi restato nelle tue isole, Jim della Canapa, e lei ti avesse creduto morto.

 


Il partito nazionalsocialista non tollerava le società segrete perché era una società segreta esso stesso, col suo gran maestro, la sua gnosi razzista, i suoi riti e le sue iniziazioni.

 

(René Alleau, Les sources occultes du nazisme, Paris, Grasset, 1969, p. 214)

 

Credo sia stato in quel periodo che Agliè sfuggì al nostro controllo. Era l'espressione che aveva usato Belbo, in tono eccessivamente distaccato. Io l'avevo attribuita ancora una volta alla sua gelosia. Silenziosamente ossessionato dal potere di Agliè su Lorenza, ad alta voce motteggiava sul potere che Agliè stava acquistando su Garamond.

Forse era stata anche colpa nostra. Agliè aveva iniziato a sedurre Garamond quasi un anno prima, sin dai giorni della festa alchemica in Piemonte. Garamond gli aveva affidato lo schedario degli APS affinché individuasse nuove vittime da stimolare per impinguare il catalogo di Iside Svelata, lo consultava ormai per ogni decisione, certamente gli passava un assegno mensile. Gudrun, che compiva esplorazioni periodiche in fondo al corridoio, oltre la porta a vetri che immetteva nel regno ovattato della Manuzio, ci diceva ogni tanto con tono preoccupato che Agliè si era praticamente insediato nello studio della signora Grazia, le dettava lettere, conduceva nuovi visitatori nello studio di Garamond, insomma — e qui l'astio sottraeva a Gudrun ancor più vocali — la faceva da padrone. Veramente avremmo potuto chiederci perché Agliè passasse ore e ore sopra l'indirizzario della Manuzio. Aveva avuto tempo sufficiente per individuare gli APS che potevano essere sobillati come nuovi autori di Iside Svelata. Eppure continuava a scrivere, a contattare, a convocare. Ma noi stavamo in fondo incoraggiando la sua autonomia.

La situazione non dispiaceva a Belbo. Più Agliè in via Marchese Gualdi significava meno Agliè in via Sincero Renato, e quindi la possibilità che certe repentine irruzioni di Lorenza Pellegrini — a cui egli sempre più pateticamente si illuminava, senza alcun tentativo, ormai, di celare la sua eccitazione — fossero turbate dall'improvviso ingresso di "Simone".

Non dispiaceva a me, ormai disamorato di Iside Svelata e sempre più preso dalla mia storia della magia. Pensavo di avere appreso dai diabolici tutto quello che potevo apprendere, e lasciavo che Agliè gestisse i contatti (e i contratti) coi nuovi autori.

Non dispiaceva a Diotallevi, nel senso che il mondo sembrava importargli sempre meno. Ripensandoci ora, continuava a dimagrire in modo preoccupante, certe volte lo sorprendevo nel suo ufficio, chino su un manoscritto, lo sguardo nel vuoto, la penna che stava per cadergli di mano. Non era addormentato, era spossato.

Ma c'era un'altra ragione per cui accettavamo che Agliè facesse apparizioni sempre più rade, ci restituisse i manoscritti che aveva bocciato e scomparisse lungo il corridoio. In realtà non volevamo che ascoltasse i nostri discorsi. Se ci avessero chiesto perché, avremmo detto per vergogna, o per delicatezza, dato che stavamo parodiando metafisiche a cui lui in qualche modo credeva. In realtà lo facevamo per diffidenza, ci lasciavamo prendere a poco a poco dalla naturale riservatezza di chi sa di possedere un segreto, e stavamo insensibilmente respingendo Agliè nel volgo dei profani, noi che lentamente, e sempre meno sorridendo, venivamo a conoscere ciò che avevamo inventato. D'altra parte, come disse Diotallevi in un momento di buonumore, ora che avevamo un San Germano vero non sapevamo che farcene di un San Germano presunto.


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 35 | Нарушение авторских прав



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