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Il pendolo di Foucault 25 страница

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Non dovrei ricordare nulla. Invece ricordo tutto, come se non l'avessi vissuto io e mi fosse stato raccontato da un altro.

Non so se quanto ricordo, con tanta confusa lucidità, sia quello che è avvenuto o quello che desiderai fosse avvenuto, ma certamente fu quella sera che il Piano prese forma nella nostra mente, come volontà di dare una forma qualsiasi a quell'esperienza informe, trasformando in realtà fantasticata quella fantasia che qualcuno aveva voluto reale.

"Il percorso è rituale," ci stava dicendo Agliè mentre salivamo. "Questi sono giardini pensili, gli stessi – o quasi – che Salomon de Caus aveva ideato per gli orti di Heidelberg – voglio dire, per l'elettore palatino Federico V, nel gran secolo rosacrociano. La luce è poca, ma così dev'essere, perché è meglio intuire che vedere: il nostro anfitrione non ha riprodotto con fedeltà il progetto di Salomon de Caus, ma lo ha concentrato in uno spazio più angusto. I giardini di Heidelberg imitavano il macrocosmo, ma chi li ha ricostruiti qui ha solo imitato quel microcosmo. Vedano quella grotta, costruita a rocaille... Decorativa, senza dubbio. Ma de Caus aveva presente quell'emblema dell'Atalanta Fugiens di Michael Maier dove il corallo è la pietra filosofale. De Caus sapeva che attraverso la forma dei giardini si possono influenzare gli astri, perché ci sono caratteri che per la loro configurazione mimano l'armonia dell'universo..."

"Prodigioso," disse Garamond. "Ma come fa un giardino a influenzare gli astri?"

"Ci sono segni che piegano gli uni verso gli altri, che guardano gli uni agli altri e che si abbracciano, e costringono all'amore. E non hanno, non debbono avere, forma certa e definita. Chiunque, a seconda che detti il suo furore o lo slancio del suo spirito, esperimenta determinate forze, come accadeva con i geroglifici degli egizi. Non ci può essere rapporto tra noi e gli esseri divini se non per sigilli, figure, caratteri e altre cerimonie. Per la stessa ragione le divinità ci parlano per mezzo di sogni ed enigmi. E così sono questi giardini. Ogni aspetto di questa terrazza riproduce un mistero dell'arte alchemica, ma purtroppo non siamo più in grado di leggerlo, nemmeno il nostro ospite. Singolare dedizione al segreto, ne converranno, in quest'uomo che spende quanto ha accumulato lungo gli anni per far disegnare ideogrammi di cui non conosce più il senso."

Salivamo, e di terrazza in terrazza i giardini mutavano fisionomia. Alcuni avevano forma di labirinto, altri figura di emblema, ma si poteva vedere il disegno delle terrazze inferiori solo dalle terrazze superiori, così che scorsi dall'alto la sagoma di una corona e molte altre simmetrie che non avevo potuto notare mentre le percorrevo, e che in ogni caso non sapevo decifrare. Ogni terrazzo, visto da chi vi si muoveva tra le siepi, per effetto di prospettiva mostrava alcune immagini ma, rivisto dal terrazzo superiore, provvedeva nuove rivelazioni, magari di senso opposto – e ogni grado di quella scala parlava così due diverse lingue nello stesso momento.

Scorgemmo, a mano a mano che salivamo, piccole costruzioni. Una fontana dalla struttura fallica, che si apriva sotto una specie di arco o portichetto, con un Nettuno che calpestava un delfino, una porta con colonne vagamente assire, e un arco di forma imprecisa, come se avessero sovrapposto triangoli e poligoni a poligoni, e ciascun vertice era sovrastato dalla statua di un animale, un alce, una scimmia, un leone...

"E tutto questo rivela qualcosa?" chiese Garamond.

"Indubbiamente! Basterebbe leggere il Mundus Symbolicus del Picinelli, che l'Alciato aveva anticipato con singolare furore profetico. Tutto il giardino è leggibile come un libro, o come un incantesimo, che è poi la stessa cosa. Potreste, sapendo, pronunciare a bassa voce le parole che il giardino dice, e sareste capaci di dirigere una delle innumerevoli forze che agiscono nel mondo sublunare. Il giardino è un apparato per dominare l'universo."

Ci mostrò una grotta. Una malattia di alghe e scheletri di animali marini, non so se naturali, in gesso, in pietra... Si intravedeva una naiade abbracciata a un toro dalla coda squamosa di gran pesce biblico, adagiato in una corrente d'acqua, che fluiva dalla conchiglia che un tritone teneva a modo d'anfora.

"Vorrei che loro cogliessero il significato profondo di questo che altrimenti sarebbe un banale gioco idraulico. De Caus sapeva bene che se si prende un vaso, lo si riempie d'acqua e lo si chiude in alto, anche se poi si apre un foro sul fondo, l'acqua non ne esce. Ma se si apre anche un foro al di sopra, l'acqua defluisce o zampilla in basso."

"Non è ovvio?" chiesi. "Nel secondo caso entra l'aria dall'alto e spinge l'acqua in basso."

"Tipica spiegazione scientista, in cui si scambia la causa per l'effetto, o viceversa. Lei non deve chiedersi perché l'acqua esce nel secondo caso. Deve chiedersi perché si rifiuta di uscire nel primo."

"E perché si rifiuta?" chiese ansioso Garamond.

"Perché se uscisse rimarrebbe del vuoto nel vaso, e la natura ha orrore del vuoto. Nequaquam vacui, era un principio rosacrociano, che la scienza moderna ha dimenticato."

"Impressionante," disse Garamond. "Casaubon, nella nostra meravigliosa storia dei metalli queste cose debbono venire fuori, mi raccomando. E non mi dica che l'acqua non è un metallo. Fantasia, ci vuole."

"Mi scusi," disse Belbo ad Agliè, "ma il suo è l'argomento post hoc ergo ante hoc. Quello che viene dopo causa quello che veniva prima."

"Non bisogna ragionare secondo sequenze lineari. L'acqua di queste fontane non lo fa. La natura non lo fa, la natura ignora il tempo. Il tempo è un'invenzione dell'Occidente."

 

Mentre salivamo incrociavamo altri invitati. Scorgendo alcuni di costoro Belbo dava di gomito a Diotallevi che commentava sottovoce: "Eh sì, facies hermetica."

Fu tra i pellegrini dalla facies hermetica, un poco isolato, con un sorriso di severa indulgenza sulle labbra, che incrociai il signor Salon. Gli sorrisi, mi sorrise.

"Lei conosce Salon?" mi chiese Agliè.

"Lei conosce Salon?" gli chiesi io. "Per me è naturale, abito nel suo palazzo. Che cosa pensa di Salon?"

"Lo conosco poco. Alcuni amici degni di fede mi dicono che è un confidente della polizia."

Ecco perché Salon sapeva della Garamond e di Ardenti. Qual era la connessione tra Salon e De Angelis? Ma mi limitai a chiedere ad Agliè: "E che cosa fa un confidente della polizia in una festa come questa?"

"I confidenti della polizia," disse Agliè, "vanno ovunque. Qualsiasi esperienza è utile per inventare confidenze. Presso la polizia si diventa tanto più potenti quante più cose si sanno, o si fa mostra di sapere. E non importa se le cose siano vere. L'importante, ricordi, è possedere un se-greto."

"Ma perché Salon viene invitato qui?" chiesi.

"Amico mio," rispose Agliè, "probabilmente perché il nostro ospite segue quella regola aurea del pensiero sapienziale per cui qualsiasi errore può essere il portatore misconosciuto della verità. Il vero esoterismo non ha paura dei contrari."

"Lei mi dice che alla fine costoro sono tutti d'accordo tra loro."

"Quod ubique, quod ab omnibus et quod semper. L'iniziazione è la scoperta di una filosofia perenne."

 

Così filosofando eravamo giunti al sommo delle terrazze, imboccando un sentiero in mezzo a un ampio giardino che portava all'ingresso della villa, o castelletto che fosse. Alla luce di una torcia più grande delle altre, montata sopra una colonna, vedemmo una ragazza, avvolta in una veste blu costellata di stelle d'oro, che teneva in mano una tromba, di quelle che nell'opera suonano gli araldi. Come in una di quelle sacre rappresentazioni dove gli angeli ostentano piume di cartavelina, la ragazza aveva sulle spalle due grandi ali bianche decorate con forme amigdaloidi segnate al centro da un punto, che con un poco di buona volontà avrebbero potuto passare per occhi.

Vedemmo il professor Camestres, uno dei primi diabolici che ci avevano fatto visita alla Garamond, l'avversario dell'Ordo Templi Orientis. Stentammo a riconoscerlo perché si era mascherato in modo che ci parve singolare, ma che Agliè stava definendo come appropriato all'evento: era vestito di lino bianco coi fianchi cinti di un nastro rosso incrociato sul petto e dietro alle spalle, e un curioso cappello di foggia secentesca su cui aveva appuntato quattro rose rosse. Si inginocchiò di fronte alla ragazza della tromba e disse alcune parole.

"Davvero," mormorò Garamond, "ci sono più cose in cielo e in terra..."

Passammo attraverso un portale istoriato, che mi evocò il cimitero di Staglieno. In alto, sopra una complessa allegoria neoclassica, vidi scolpite le parole CONDOLEO ET CONGRATULOR.

All'interno, molti e animati erano gli invitati, che si affollavano a un buffet in un ampio salone d'ingresso, da cui si dipartivano due scalinate verso i piani superiori. Scorsi altri volti non ignoti, tra cui Bramanti e – sorpresa – il commendator De Gubernatis, APS già sfruttato da Garamond, ma forse non ancora messo di fronte all'orrenda possibilità di avere tutte le copie del suo capolavoro al macero, perché si fece incontro al mio principale esternandogli ossequio e riconoscenza. A ossequiare Agliè si fece avanti un tipo minuto, con gli occhi esaltati. Dall'inconfondibile accento francese, riconoscemmo Pierre, colui che avevamo udito accusar Bramanti di sortilegio attraverso la porta dello studiolo di Agliè.

Mi avvicinai al buffet. C'erano caraffe con liquidi colorati, ma non riuscivo a identificarli. Mi versai una bevanda gialla che sembrava vino, non era cattivo, sapeva dí vecchio rosolio, ma era certamente alcolico. Forse conteneva qualcosa: incominciò a girarmi la testa. Intorno a me si affollavano facies hermeticae accanto a volti severi di prefetti a riposo, coglievo squarci di conversazione...

 

"Al primo stadio dovresti riuscire a comunicare con altre menti, poi proiettare in altri esseri pensieri e immagini, caricare i luoghi con stati emotivi, acquisire autorità sul regno animale. In un terzo tempo tenti di proiettare un tuo doppio in qualsiasi punto dello spazio: bilocazione, come gli yogi, dovresti apparire simultaneamente in più forme distinte. Dopo si tratta di passare alla conoscenza sovrasensibile delle essenze vegetali. Infine tenti la dissociazione, si tratta di investire la compagine tellurica del corpo, di dissolversi in un luogo e riapparire in un altro, integralmente — dico — e non nel solo doppio. Ultimo stadio, il prolungamento della vita fisica..."

"Non l'immortalità..."

"Non subito."

"Ma tu?"

"Ci vuole concentrazione. Non ti nascondo che è faticoso. Sai, non ho più vent'anni..."

 

Ritrovai il mio gruppo. Stavano entrando in una stanza dalle pareti bianche con gli angoli ricurvi. Sul fondo, come in un museo Grévin — ma l'immagine che mi affiorò alla mente quella sera fu quella dell'altare che avevo visto a Rio nella tenda de umbanda — due statue di grandezza pressoché naturale, in cera, rivestite con materiale scintillante che mi parve di pessimo trovarobato. Una era una dama su di un trono, con una veste immacolata, o quasi, costellata di paillettes. Sopra di essa pendevano, appesi a dei fili, delle creature di forma imprecisa, che mi parvero realizzate in panno Lenci. In un angolo un amplificatore lasciava pervenire un suono lontano di trombe, questo di buona qualità, forse era qualche cosa di Gabrieli, e l'effetto sonoro era di gusto più sicuro di quello visivo. Verso destra, un'altra figura femminile, vestita di velluto cremisi con una cintura bianca, e sul capo una corona di lauro, accanto a una bilancia dorata. Agliè ci stava spiegando i vari riferimenti, ma mentirei se dicessi che vi prestavo molta attenzione. Mi interessava l'espressione di molti invitati, che passavano da immagine a immagine con aria di reverenza, e commozione.

"Non sono diversi da quelli che vanno nel santuario a vedere la madonna nera con veste ricamata coperta di cuori d'argento," dissi a Belbo. "Pensano forse che quella sia la madre di Cristo in carne e ossa? No, ma neppure pensano il contrario. Si dilettano della similitudine, sentono lo spettacolo come visione, e la visione come realtà."

"Sì," disse Belbo, "ma il problema non è di sapere se costoro siano meglio o peggio di quelli che vanno al santuario. Mi stavo chiedendo chi siamo noi. Noi che riteniamo Amleto più vero del nostro portinaio. Ho diritto di giudicare costoro, io che vado in giro cercando Madame Bovary per farle una scenata?"

Diotallevi scuoteva il capo e mi diceva a bassa voce che non si dovrebbero riprodurre immagini delle cose divine, e che quelle erano tutte epifanie del vitello d'oro. Ma si divertiva.
58

È pertanto l'alchimia una casta meretrice, che ha molti amanti, ma tutti delude e a nessuno concede il suo amplesso. Trasforma gli stolti in mentecatti, i ricchi in miserabili, i filosofi in allocchi, e gli ingannati in loquacissimi ingannatori...

 

(Tritemio, Annalium Hirsaugensium Tomi 11, S. Gallo, 1690, 141)

 

Improvvisamente la sala cadde nella penombra e le pareti si illuminarono. Mi accorsi che erano ricoperte per tre quarti da uno schermo semi-circolare su cui stavano per essere proiettate delle immagini. Come apparvero mi resi conto che parte del soffitto e del pavimento erano di materiale riflettente, e riflettenti erano anche alcuni degli oggetti che prima mi avevano colpito per la loro rozzezza, le paillettes, la bilancia, uno scudo, alcune coppe di rame. Ci trovammo immersi in un ambiente acquoreo, dove le immagini si moltiplicavano, si segmentavano, si fondevano con le ombre degli astanti, il pavimento rifletteva il soffitto, questo íl pavimento, e tutti insieme le figure che apparivano sulle pareti. Insieme alla musica, si diffusero per la sala odori sottili, dapprima incensi indiani, poi altri, più imprecisi, a tratti sgradevoli.

Dapprima la penombra sfumò in un buio assoluto, poi, mentre si udiva un borbottio glutinoso, un ribollire di lava, fummo in un cratere, dove una materia vischiosa e scura sussultava al bagliore intermittente di vampe gialle e bluastre.

Un'acqua grassa e collosa evaporava verso l'alto per ridiscendere sul fondo come rugiada o pioggia, e vagava d'intorno un odore di terra fetida, un tanfo di muffa. Respiravo il sepolcro, il tartaro, le tenebre, mi colava d'intorno un liquame velenoso che scorreva tra lingue di letame, terriccio, polvere di carbone, fango, mestruo, fumo, piombo, sterco, scorza, schiuma, nafta, nero più nero del nero, che si stava ora rischiarando per lasciar apparire due rettili — l'uno azzurrino e l'altro rossastro — allacciati in una sorta di amplesso, a mordersi reciprocamente la coda, formando come un'unica figura circolare.

 

Era come se avessi bevuto alcool oltre misura, non vedevo più i miei compagni, scomparsi nella penombra, non riconoscevo le figure che scivolavano accanto a me e le avvertivo come sagome scomposte e fluide... Fu allora che mi sentii afferrare per una mano. So che non era vero, eppure allora non osai voltarmi per non scoprire che mi ero ingannato. Ma avvertivo il profumo di Lorenza e solo allora capii quanto la desideravo. Doveva essere Lorenza. Era lì, a riprendere quel dialogo fatto di fruscii, di strusciare d'unghie contro la porta, che aveva lasciato in sospeso la sera prima. Zolfo e mercurio parevano congiungersi in un caldo umido che mi faceva palpitare l'inguine, ma senza violenza.

Attendevo íl Rebis, il fanciullo androgino, il sale filosofale, il coronamento dell'opera al bianco.

Mi pareva di sapere tutto. Forse mi riaffioravano alla mente letture degli ultimi mesi, forse Lorenza mi comunicava il suo sapere attraverso il tocco della sua mano, e ne sentivo la palma leggermente sudata.

E mi sorprendevo a mormorare nomi remoti, nomi che certamente, lo sapevo, i Filosofi avevano dato al Bianco, ma con cui io – forse – stavo chiamando trepidamente Lorenza – non so, o forse soltanto ripetevo tra me e me come una litania propiziatoria: Rame bianco, Agnello immacolato, Aibathest, Alborach, Acqua benedetta, Mercurio purificato, Orpimento, Azoch, Baurach, Cambar, Caspa, Cerusa, Cera, Chaia, Comerisson, Elettro, Eufrate, Eva, Fada, Favonio, Fondamento dell'Arte, Pietra preziosa di Givinis, Diamante, Zibach, Ziva, Velo, Narciso, Giglio, Ermafrodito, Hae, Ipostasi, Hyle, Latte di Vergine, Pietra unica, Luna piena, Madre, Olio vivente, Legume, Uovo, Flemma, Punto, Radice, Sale della Natura, Terra fogliata, Tevos, Tincar, Vapore, Stella della Sera, Vento, Virago, Vetro del Faraone, Orina di Bambino, Avvoltoio, Placenta, Mestruo, Servo fuggitivo, Mano sinistra, Sperma dei Metalli, Spirito, Stagno, Succo, Zolfo untuoso...

 

Nella pece, ora grigiastra, si stava disegnando un orizzonte di rocce e alberi rinsecchiti, oltre al quale stava tramontando un sole nero. Poi fu una luce quasi abbacinante, e apparvero immagini sfavillanti, che si riflettevano per ogni dove creando un effetto di caleidoscopio. Gli effluvi ora erano liturgici, chiesastici, cominciai ad avvertire male alla testa, una sensazione di peso alla fronte, intravedevo una sala sfarzosa coperta di arazzi dorati, forse un banchetto nuziale, con uno sposo principesco e una sposa biancovestita, poi un re anziano e una regina sul trono, accanto a loro un guerriero, e un altro re scuro di pelle. Davanti al re un piccolo altarino su cui posavano un libro coperto di velluto nero e un lume in un candelabro d'avorio. Accanto al candelabro un globo ruotante e un orologio sormontato da una piccola fontana di cristallo, dalla quale scorreva un liquido color sangue. Sopra la fontana c'era forse un teschio, dalle occhiaie strisciava un serpente bianco...

Lorenza mi stava alitando parole all'orecchio. Ma non udivo la sua voce.

Il serpente si muoveva al ritmo di una musica triste e lenta. I vecchi monarchi indossavano ora una veste nera e davanti a loro stavano sei bare coperte. Si udirono alcuni suoni cupi di basso tuba, e apparve un uomo incappucciato di nero. Fu dapprima un'esecuzione ieratica, come se si svolgesse al rallentatore, che il re accettava con dolente letizia, chinando il capo docile. Poi l'incappucciato vibrò un'ascia, una lama, e fu la falcata rapida di un pendolo, l'impatto della lama si moltiplicò per ciascuna superficie riflettente, e in ciascuna superficie per ciascuna superficie, furono mille le teste che rotolarono, e da quel momento le immagini si susseguirono senza che riuscissi a seguire la vicenda. Credo che a poco a poco tutti i personaggi, compreso il re dalla pelle scura, venissero decapitati e adagiati nelle bare, poi tutta la sala si trasformò in una riva marina, o lacustre, e vedemmo attraccare sei vascelli illuminati sui quali furono portati i feretri, i vascelli si allontanarono sullo specchio d'acqua sfumando nella notte, tutto si svolse mentre gli incensi si erano fatti palpabili sotto forma di vapori densi, per un momento temetti di essere tra i condannati, e molti intorno a me mormoravano "le nozze, le nozze..."

Avevo perduto il contatto con Lorenza, e solo allora mi ero voltato per cercarla tra le ombre.

 

Ora la sala era una cripta, o una tomba sontuosa, dalla volta illuminata da un carbonchio di straordinaria grandezza.

In ogni angolo apparivano delle donne in abiti virginali, intorno a una caldaia a due piani, un castelletto con un basamento di pietra dal portico che pareva un forno, due torri laterali da cui uscivano due alambicchi che terminavano in una boccia ovoidale, e una terza torre centrale, che terminava in forma di fontana...

Nel basamento del castelletto si scorgevano i corpi dei decapitati. Una delle donne portò una cassetta da cui trasse un oggetto rotondo che depose sopra il basamento, in un fornice della torre centrale, e subito la fontana sul culmine prese a zampillare. Feci in tempo a riconoscere l'oggetto, era la testa del moro, che ora ardeva come un ceppo, ponendo in ebollizione l'acqua della fontana. Vapori, soffi, gorgoglii...

Lorenza questa volta mi stava posando la mano sulla nuca, l'accarezzava come l'avevo vista fare, furtiva, a Jacopo sulla macchina. La donna stava portando una sfera d'oro, apriva un rubinetto nel forno del basamento e faceva colare nella sfera un liquido rosso e denso. Poi la sfera fu aperta e in luogo del liquido rosso conteneva un uovo grande e bello, bianco come la neve. Le donne lo presero e lo posero a terra, in un mucchio di sabbia gialla, sino a che l'uovo si aprì e ne uscì un uccello, ancora deforme e sanguinante. Ma abbeverato col sangue dei decapitati cominciò a crescere sotto i nostri occhi diventando bello e splendente.

 

Ora stavano decapitando l'uccello e riducendolo in cenere sopra un piccolo altare. Alcuni stavano impastando la cenere, versavano quella pasta in due stampi, e ponevano gli stampi a cuocere in un forno, soffiando sul fuoco con dei tubi. Alla fine gli stampi vennero aperti e apparvero due figure pallide e graziose, quasi trasparenti, un fanciullo e una fanciulla, alti non più di quattro spanne, morbidi e carnosi come creature vive, ma con gli occhi ancora vitrei, minerali. Furono posti sopra due cuscini e un vecchio versò loro in bocca gocce di sangue...

Arrivarono altre donne portando delle trombe dorate, decorate con corone verdi e ne porsero una al vegliardo, il quale l'accostò alla bocca delle due creature, ancora sospese tra un languore vegetale e un dolce sonno animale, e cominciò a insufflare anima nei loro corpi... La sala si riempì di luce, la luce si affievolì in penombra, poi in un'oscurità interrotta da lampi arancione, quindi fu un immenso chiarore d'alba mentre alcune trombe suonavano alte e squillanti, e fu un fulgore di rubino, insopportabile. E a quel punto perdetti di nuovo Lorenza, e compresi che non l'avrei più ritrovata.

Tutto si fece di un rosso fiammeggiante che lentamente si smorzò in indaco e violetto, e lo schermo si spense. Il dolore alla fronte mi si era fatto insopportabile.

 

"Mysterium Magnum," diceva Agliè, ora ad alta voce e quietamente, al mio fianco. "La rinascita dell'uomo nuovo attraverso la morte e la passione. Buona esecuzione, debbo dire, anche se il gusto allegorico ha forse inciso sulla precisione delle fasi. Quella che avete visto era una rappresentazione, è naturale, ma parlava di una Cosa. E il nostro ospite questa Cosa pretende di averla prodotta. Venite, andiamo a vedere il miracolo compiuto."
59

E se si generano tali mostri, occorre pensare che siano opera di natura, anche se sembrano diversi dall'uomo.

 

(Paracelso, De Homunculis, in Operum Volumen Secundum, Genevae, De Tournes, 1658, p. 475)

 

Ci condusse fuori in giardino, e di colpo mi sentii meglio. Non osavo chiedere agli altri se Lorenza fosse davvero tornata. Avevo sognato. Ma dopo pochi passi entrammo in una serra, e di nuovo il calore soffocante mi stordì. Tra le piante, per lo più tropicali, stavano sei ampolle di vetro, a forma di pera — o di lacrima — ermeticamente chiuse con un sigillo, piene di un liquido cilestrino. Dentro ciascun vaso fluttuava un essere alto una ventina di centimetri: riconoscemmo il re dai capelli grigi, la regina, il moro, il guerriero e i due adolescenti coronati di lauro, uno azzurro e l'altro rosa... Si muovevano con un movimento natatorio aggraziato, come se fossero nel loro elemento.

Era difficile stabilire se si trattasse di modelli in plastica, in cera, o di esseri viventi, anche perché la leggera torbidezza del liquido non lasciava capire se il lieve ansimare che li animava fosse effetto ottico o realtà.

"Pare che crescano di giorno in giorno," disse Agliè. "Ogni mattina i vasi vengono seppelliti in un mucchio di letame equino fresco, ovvero caldo, che provvede la temperatura utile per la crescita. Per questo in Paracelso appaiono prescrizioni dove si dice che gli omuncoli debbono venir cresciuti a temperatura di ventre di cavallo. Secondo il nostro ospite, questi omuncoli gli parlano, gli comunicano segreti, emettono vaticini, chi gli rivela le vere misure del Tempio di Salomone, chi come esorcizzare i demoni... Onestamente, io non li ho mai uditi parlare."

Avevano volti mobilissimi. Il re guardava con tenerezza la regina e aveva uno sguardo assai dolce.

"Il nostro ospite mi ha detto di aver trovato un mattino l'adolescente azzurro, chissà come sfuggito alla sua prigione, mentre stava cercando di dissigillare il vaso della sua compagna... Ma era fuori del suo elemento, respirava a fatica, e lo salvarono appena in tempo, rimettendolo nel suo liquido."

"Terribile," disse Diotallevi. "Così non li vorrei. Devi sempre portarti dietro il vaso e trovare quel letame in tutti i posti che vai. Che cosa fai d'estate? Li lasci al portinaio?"

"Ma forse," concluse Agliè, "sono soltanto dei ludioni, dei diavoletti di Cartesio. O degli automi."

"Diavolo, diavolo," diceva Garamond. "Lei, dottor Agliè, mi sta rivelando un nuovo universo. Dovremmo diventare tutti più umili, cari amici. Ci sono più cose in cielo e in terra... Ma infine, à la guerre comme à la guerre..."

Garamond era semplicemente folgorato. Diotallevi manteneva un'aria di incuriosito cinismo, Belbo non palesava alcun sentimento.

Volevo togliermi ogni dubbio e gli dissi: "Che peccato che Lorenza non sia venuta, si sarebbe divertita."

"Eh già," rispose, assente.

Lorenza non era venuta. E io ero come Amparo a Rio. Stavo male. Mí sentivo come defraudato. Non mi avevano porto l'agogò.

Lasciai il gruppo, rientrai nell'edificio facendomi largo tra la folla, passai dal buffet, presi qualcosa di fresco, temendo che contenesse un filtro. Cercavo una toeletta per bagnarmi le tempie e la nuca. La trovai, e mi sentii sollevato. Ma come ne uscii fui incuriosito da una scaletta a chiocciola e non seppi rinunciare alla nuova avventura. Forse, anche se credevo di essermi riavuto, cercavo ancora Lorenza.
60

Povero stolto! Sarai così ingenuo da credere che ti insegniamo apertamente il più grande e il più importante dei se-greti? Ti assicuro che chi vorrà spiegare secondo il senso ordinario e letterale delle parole ciò che scrivono i Filosofi Ermetici, si troverà preso nei meandri di un labirinto dal quale non potrà fuggire, e non avrà filo di Arianna che lo guidi per uscirne.

 

(Artefio)

 

Finii in una sala sotto il livello del suolo, illuminata con parsimonia, dalle pareti in rocaille come le fontane del parco. In un angolo scorsi un'apertura, simile alla campana di una tromba murata, e già da lontano sentii che ne provenivano rumori. Mi avvicinai e i rumori si fecero più distinti, sino a che potei cogliere delle frasi, nitide e precise come se fossero pronunciate accanto a me. Un orecchio di Dioniso!

L'orecchio era evidentemente collegato a una delle sale superiori e coglieva i discorsi di quelli che passavano accanto alla sua imboccatura.

 

"Signora, le dirò quello che non ho mai detto a nessuno. Sono stanco... Ho lavorato sul cinabro, e sul mercurio, ho sublimato spiriti, fermenti, sali del ferro, dell'acciaio e loro schiume, e non ho trovato la Pietra. Poi ho preparato delle acque forti, delle acque corrosive, delle acque ardenti, ma il risultato era sempre lo stesso. Ho usato gusci d'uovo, zolfo, vetriolo, arsenico, sale ammoniaco, sale di vetro, sale alkali, sale comune, salgemma, salnitro, sale di soda, sale attincar, sale di tartaro, sale alembrot; ma mi creda, ne diffidi. Bisogna evitare í metalli imperfetti rubificati, altrimenti sarà ingannata come sono stato ingannato io. Ho provato tutto: il sangue, i capelli, l'anima di Saturno, le marcassiti, l'aes ustum, lo zafferano di Marte, le scaglie e la schiuma del ferro, il litargirio, l'antimonio; niente. Ho lavorato per ricavare l'olio e l'acqua dall'argento, ho calcinato l'argento sia con un sale preparato sia senza sale, e con l'acquavite, e ne ho ricavato degli oli corrosivi, ecco tutto. Ho adoperato il latte, il vino, il caglio, lo sperma delle stelle che cade sulla terra, la chelidonia, la placenta dei feti, ho mescolato il mercurio ai metalli riducendoli in cristalli, ho cercato nelle stesse ceneri... Finalmente..."


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 33 | Нарушение авторских прав



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