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Il pendolo di Foucault 4 страница

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Quel giorno incominciai a diventare incredulo.

Cioè, mi pentii di essere stato credulo. Mi ero fatto prendere da una passione della mente. Tale è la credulità.

Non è che l'incredulo non debba credere a nulla. Non crede a tutto. Crede a una cosa per volta, e a una seconda solo se in qualche modo di-scende dalla prima. Procede in modo miope, metodico, non azzarda orizzonti. Di due cose che non stiano insieme, crederle tutte e due, e con l'idea che da qualche parte ve ne sia una terza, occulta, che le unisce, questa è la credulità.

L'incredulità non esclude la curiosità, la conforta. Diffidente delle catene di idee, delle idee amavo la polifonia. Basta non crederci, e due idee — entrambe false — possono collidere creando un buon intervallo o un diabolus in musica. Non rispettavo le idee su cui altri scommettevano la vita, ma due o tre idee che non rispettavo potevano fare melodia. O ritmo, meglio se jazz.

Più tardi Lia mi avrebbe detto: "Tu vivi di superfici. Quando sembri profondo è perché ne incastri molte, e combini l'apparenza di un solido — un solido che se fosse solido non potrebbe stare in piedi."

"Stai dicendo che sono superficiale?"

"No," mi aveva risposto, "quello che gli altri chiamano profondità è solo un tesseract, un cubo tetradimensionale. Entri da un lato, esci dall'altro, e ti trovi in un universo che non può coesistere col tuo."

(Lia, non so se ti rivedrò, ora che Essi sono entrati dal lato sbagliato e hanno invaso il tuo mondo, e per colpa mia: gli ho fatto credere che ci fossero abissi, come essi volevano per debolezza.)

Che cosa davvero pensavo quindici anni fa? Conscio di non credere, mi sentivo colpevole fra tanti che credevano. Siccome sentivo che erano nel giusto, mi decisi di credere così come si prende un'aspirina. Male non fa, e si diventa migliori.

Mi trovai in mezzo alla Rivoluzione, o almeno alla più stupenda simulazione che mai ne sia stata fatta, cercando una fede onorevole. Giudicai onorevole partecipare alle assemblee e ai cortei, gridai con gli altri "fascisti, borghesi, ancora pochi mesi!", non tirai cubetti di porfido o biglie di metallo perché ho sempre avuto paura che gli altri facessero a me quello che io facevo a loro, ma provavo una sorta di eccitazione morale nel fuggire lungo le vie del centro, quando la polizia caricava. Tornavo a casa col senso di aver compiuto un qualche dovere. Nelle assemblee non riuscivo ad appassionarmi ai contrasti che dividevano i vari gruppi: sospettavo che sarebbe bastato trovare la citazione giusta per passare dall'uno all'altro. Mi divertivo a trovare le citazioni giuste. Modulavo.

Siccome mi era accaduto talora, nei cortei, di accodarmi sotto l'uno o l'altro striscione per seguire una ragazza che turbava la mia immaginazione, ne trassi la conclusione che per molti dei miei compagni la militanza politica fosse un'esperienza sessuale – e il sesso era una passione. Io volevo avere solo curiosità. E vero che nel corso delle mie letture sui Templari, e sulle varie efferatezze che erano state loro attribuite, mi ero imbattuto nell'affermazione di Carpocrate che, per liberarsi della tirannia degli angeli, signori del cosmo, occorre perpetrare ogni ignominia, liberandosi dei debiti contratti con l'universo e col proprio corpo, e solo commettendo tutte le azioni l'anima può affrancarsi dalle proprie passioni, ritrovando la purezza originaria. Mentre inventavamo il Piano scoprii che molti drogati del mistero, per trovare l'illuminazione, seguono quella via. Ma Aleister Crowley, che fu definito l'uomo più perverso di tutti i tempi, e che quindi faceva tutto quel che poteva fare con devoti di ambo i sessi, ebbe secondo i suoi biografi solo donne bruttissime (immagino che anche gli uomini, da quel che scrivevano, non fossero meglio), e mi rimane il sospetto che non abbia mai fatto all'amore in modo pieno.

Deve dipendere da un rapporto tra la sete di potere e l'impotentia coeundi. Mari mi era simpatico perché ero sicuro che con la sua Jenny facesse all'amore con gaiezza. Lo si sente dal respiro pacato della sua prosa, e dal suo humour. Una volta, invece, nei corridoi dell'università, dissi che ad andare sempre a letto con la Krupskaja si finiva poi con lo scrivere un libraccio come Materialismo ed empiriocriticismo. Rischiai di essere sprangato e dissero che ero un fascista. Lo disse un tipo alto, coi baffi alla tartara. Lo ricordo benissimo, oggi si è rasato al completo e appartiene a una comune dove intrecciano canestri.

Rievoco gli umori di allora solo per ricostruire con quale animo mi avvicinai alla Garamond e simpatizzai con Jacopo Belbo. Vi arrivai con lospirito di chi affronta i discorsi sulla verità per prepararsi a correggerne le bozze. Pensavo che il problema fondamentale, se si cita "Io sono colui che è", fosse decidere dove va il segno d'interpunzione, se fuori o dentro le virgolette.

Per questo la mia scelta politica fu la filologia. L'università di Milano era in quegli anni esemplare. Mentre in tutto il resto del paese si invade-vano le aule e si assalivano i professori, chiedendogli che parlassero solo della scienza proletaria, da noi, salvo qualche incidente, valeva un patto costituzionale, ovvero un compromesso territoriale. La rivoluzione presídiava la zona esterna, l'aula magna e i grandi corridoi, mentre la Cultura ufficiale si era ritirata, protetta e garantita, nei corridoi interni e ai piani superiori, e continuava a parlare come se nulla fosse accaduto.

Così potevo spendere la mattinata da basso a discutere della scienza proletaria e i pomeriggi di sopra a praticare un sapere aristocratico. Vivevo amio agio in questi due universi paralleli e non mi sentivo affatto in contraddizione. Credevo anch'io che fosse alle porte una società di uguali, ma mi dicevo che in quella società avrebbero dovuto funzionare (meglio di prima) i treni, per esempio, e i sanculotti che mi attorniavano non stavano affatto imparando a dosare il carbone nella caldaia, ad azionare gli scambi, a stendere una tabella degli orari. Bisognava pure che qualcuno si tenesse pronto per i treni.

Non senza qualche rimorso, mi sentivo come uno Stalin che ride sotto i baffi e pensa: "Fate fate, poveri bolscevichi, io intanto studio in seminario a Tiflis e poi il piano quinquennale lo traccio io."

Forse perché al mattino vivevo nell'entusiasmo, al pomeriggio identificavo il sapere con la diffidenza. Così volli studiare qualcosa che mi per-mettesse di dire ciò che si poteva affermare in base a documenti, per distinguerlo da ciò che rimaneva materia di fede.

Per ragioni quasi casuali mi aggregai a un seminario di storia medie-vale e scelsi una tesi sul processo dei Templari. La storia dei Templari mi aveva affascinato, sin da quando avevo buttato l'occhio sui primi documenti. In quell'epoca in cui si lottava contro il potere, mi indignava generosamente la storia del processo, che è indulgente definire indiziario, con cui i Templari erano stati mandati al rogo. Ma avevo scoperto ben presto che, da quando erano stati mandati al rogo, una folla di cacciatori di misteri aveva cercato di ritrovarli ovunque, e senza mai produrre una prova. Questo spreco visionario irritava la mia incredulità, e decisi di non perdere tempo coi cacciatori di misteri, attenendomi solo a fonti dell'epoca. I Templari erano un ordine monastico-cavalleresco, che esisteva in quanto era riconosciuto dalla chiesa. Se la chiesa aveva disciolto l'ordine, e lo aveva fatto sette secoli fa, i Templari non potevano più esistere, e se esistevano non erano Templari. Così avevo schedato almeno cento libri, ma alla fine ne lessi solo una trentina.

Venni a contatto con Jacopo Belbo proprio a causa dei Templari, da Pilade, quando stavo già lavorando alla tesi, verso la fine del settantadue.
8

Venuto dalla luce e dagli dei, eccomi in esilio, separato da loro.

(Frammento di Turfa'n M7)

 

Il bar Pilade era a quei tempi il porto franco, la taverna galattica dove gli alieni di Ophiulco, che assediavano la Terra, si incontravano senza frizioni con gli uomini dell'Impero, che pattugliavano le fasce di van Allen. Era un vecchio bar lungo i Navigli, col banco di zinco, il bigliardo, e i tranvieri e gli artigiani della zona che venivan di prima mattina a farsi un bianchino. Verso il sessantotto, e negli anni seguenti, Pilade era divenuto un Rick's Bar dove allo stesso tavolo il militante del Movimento poteva giocare a carte col giornalista del quotidiano padronale, che andava a farsi un baby alla chiusura del numero, mentre già i primi camion parti-vano per distribuire nelle edicole le menzogne del sistema. Ma da Pilade anche il giornalista si sentiva un proletario sfruttato, un produttore di plusvalore incatenato a montare ideologia, e gli studenti lo assolvevano.

Tra le undici di sera e le due di notte vi passavano il funzionario editoriale, l'architetto, il cronista di nera che aspirava alla terza pagina, i pittori di Brera, alcuni scrittori di medio livello, e studenti come me.

Un minimo di eccitazione alcolica era di rigore e il vecchio Pilade, mantenendo i suoi bottiglioni di bianco per i tranvieri e i clienti più aristocratici, aveva sostituito la spuma e il Ramazzotti con frizzantini DOC per gli intellettuali democratici, e Johnny Walker per i rivoluzionari. Potrei scrivere la storia politica di quegli anni registrando i tempi e i modi in cui si passò gradatamente dall'etichetta rossa al Ballantine di dodici anni e finalmente al malto.

Con l'arrivo del nuovo pubblico Pilade aveva lasciato il vecchio bigliardo, su cui si sfidavano a boccette pittori e tranvieri, ma aveva istallato anche un flipper.

A me una pallina durava pochissimo e all'inizio credevo che fosse per distrazione, o per scarsa agilità manuale. Capii poi la verità anni dopo, vedendo giocare Lorenza Pellegrini. All'inizio non l'avevo notata, ma la misi a fuoco una sera seguendo lo sguardo di Belbo.

 

Belbo aveva un modo di stare al bar come se fosse di passaggio (lo abitava da almeno dieci anni). Interveniva sovente nelle conversazioni, al banco o a un tavolino, ma quasi sempre per lanciare una battuta che raggelava gli entusiasmi, di qualsiasi cosa si discorresse. Raggelava anche con un'altra tecnica, con una domanda. Qualcuno raccontava un fatto, coinvolgendo sfondo la compagnia, e Belbo guardava l'interlocutore con quei suoi occhi glauchi, sempre un po' distratti, tenendo il bicchiere al-l'altezza dell'anca, come se da tempo si fosse scordato di bere, e domandava: "Ma davvero è successo così?" Oppure: "Ma sul serio ha detto questo?" Non so cosa accadesse, ma chiunque a quel punto prendeva a dubitare del racconto, compreso il narratore. Doveva essere la sua cadenza piemontese che rendeva interrogative le sue affermazioni, e derisorie le sue interrogazioni. Era piemontese, in Belbo, quel modo di parlare senza guardare troppo negli occhi l'interlocutore, ma non come fa chi sfugga con lo sguardo. Lo sguardo di Belbo non si sottraeva al dialogo. Semplicemente muovendo, fissando improvvisamente convergenze di parallele a cui tu non avevi prestato attenzione, in un punto impreciso dello spazio, ti faceva sentire come se tu, sino ad allora, avessi ottusamente fissato l'unico punto irrilevante.

Ma non era solo lo sguardo. Con un gesto, con una sola interiezione Belbo aveva il potere di collocarti altrove. Voglio dire, poniamo che tu ti affannassi a dimostrare che Kant aveva davvero compiuto la rivoluzione copernicana della filosofia moderna e giocassi il tuo destino su quell'affermazione. Belbo, seduto davanti a te, poteva d'un tratto guardarsi le mani, o fissarsi il ginocchio, o socchiudere le palpebre abbozzando un sorriso etrusco, o restare qualche secondo a bocca aperta, con gli occhi al soffitto, e poi, con un leggero balbettio: "Eh, certo che quel Kant..." O, se si impegnava più esplicitamente in un attentato all'intero sistema dell'idealismo trascendentale: "Mah. Avrà poi davvero voluto fare tutto quel casino..." Poi ti guardava con sollecitudine, come se tu, e non lui, avessi turbato l'incanto, e tí incoraggiava: "Ma dica, dica. Perché certalì sotto c'è... c'è qualcosa che... L'uomo aveva dell'ingegno."

Talora, quand'era al colmo dell'indignazione, reagiva scomposta-mente. Siccome la sola cosa che lo indignasse era la scompostezza altrui, la sua scompostezza di ritorno era tutta interiore, e regionale. Stringeva le labbra, volgeva prima gli occhi al cielo, poi piegava lo sguardo, e la testa, a sinistra verso il basso, e diceva a mezza voce: "Ma gavte la nata." A chi non conoscesse quell'espressione piemontese, qualche volta spiegava: "Ma gavte la nata, levati il tappo. Si dice a chi sia enfiato di sé. Si suppone si regga in questa condizione posturalmente abnorme per la pressione di un tappo che porta infitto nel sedere. Se se lo toglie, pffffiiisch, ritorna a condizione umana."

 

Questi suoi interventi avevano la capacità di farti percepire la vanità del tutto, e io ne ero affascinato. Ma ne traevo una lezione errata, perché li eleggevo a modello di supremo disprezzo per la banalità delle verità altrui.

Solo ora, dopo che ho violato, con i segreti di Abulafia, anche l'animo di Belbo, so che quella che a me pareva disincanto, e che io stavo elevando a principio dí vita, per lui era una forma della melanconia. Quel suo depresso libertinismo intellettuale celava una disperata sete di assoluto. Difficile capirlo a prima vista, perché Belbo compensava i momenti di fuga, esitazione, distacco, con momenti di distesa conversevolezza, in cui si divertiva a produrre assoluti alternativi, con ilare miscredenza. Era quando con Diotallevi costruiva manuali dell'impossibile, mondi alla rovescia, teratologie bibliografiche. E vederlo così entusiasticamente loquace nel costruire la sua Sorbona rabelaisiana impediva di capire come egli soffrisse il suo esilio dalla facoltà di teologia, quella vera.

Capii dopo che io ne avevo cancellato l'indirizzo, mentre lui l'aveva smarrito, e non se ne dava pace.

Nei files di Abulafia ho trovato molte pagine di uno pseudodiario che Belbo aveva affidato al segreto dei dischetti, sicuro di non tradire la sua vocazione, tante volte ribadita, di semplice spettatore del mondo. Alcuni portano una data remota, evidentemente vi aveva trascritto antichi appunti, per nostalgia, o perché pensava di riciclarli in qualche modo. Altri sono di questi ultimi anni, da che aveva avuto Abu tra le mani. Scriveva per gioco meccanico, per riflettere solitario sui propri errori, si illudeva di non "creare" perché la creazione, anche se produce l'errore, si dà sempre per amore di qualcuno che non siamo noi. Ma Belbo, senza accorgersene, stava passando dall'altra parte della sfera. Creava, e non l'avesse mai fatto: il suo entusiasmo per il Piano è nato da questo bisogno di scrivere un Libro, fosse pure di soli, esclusivi, feroci errori intenzionali. Sino a che ti contrai nel tuo vuoto puoi ancora pensare dí essere in contatto con l'Uno, ma non appena pasticci con la creta, sia pure elettronica, sei già diventato un demiurgo, e chi si impegna a fare un mondo si è già compro-messo con l'errore e col male.

 

filename: Tre donne intorno al cor...

 

È così: toutes les femmes que j'ai rencontrées se dressent aux horizons avec les gestes piteux et les régards tristes des sémaphores sous la pluie..

Miri in alto, Belbo. Primo amore, Maria Santissima. Mamma che canta tenendomi in grembo come se mi cullasse quando ormai non ho più bisogno di ninnananne ma io chiedevo che cantasse, perché amavo la sua voce e il profumo di lavanda del suo seno: "O Regina dell'Empireo — tutta pura e tutta bella — salve o figlia, sposa, ancella — salve o madre al Redentor."

Naturale: la prima donna della mia vita non fu mia — come del resto non fu di nessuno, per definizione. Mi sono innamorato subito dell'unica donna ca pace di far tutto senza di me.

Poi Marilena (Marylena? Mary Lena?). Descrivere liricamente il crepuscolo i capelli d'oro, il gran fiocco azzurro, io dritto col naso in su davanti alla pan-china, lei che cammina in equilibrio sul bordo della spalliera, le braccia aperte a bilanciare le sue oscillazioni (deliziose extrasistoli), la gonna che le svolazza leggermente intorno alle cosce rosa. In alto, irraggiungibile.

Bozzetto: la sera stessa la mamma che sta cospargendo di borotalco le carni rosa di mia sorella, io che chiedo quando le spunta finalmente il pisto lino, la mamma che rivela che alle bambine il pistolino non spunta, e rimar gono così. lo di colpo rivedo Mary Lena, e il bianco delle mutandine che si scorgeva sotto la gonna azzurra che alitava, e capisco che è bionda e altera e inaccessibile perché è diversa. Nessun rapporto possibile, appartiene a un'altra razza.

Terza donna subito perduta nell'abisso in cui sprofonda. È appena morta nel sonno, pallida Ofelia tra i fiori della sua bara virginale, mentre il prete le recita le preci dei defunti, di colpo si erge dritta sul catafalco, aggrottata, bianca, vindice, il dito teso, la voce cavernosa: "Padre, non preghi per me. Questa notte prima di addormentarmi ho concepito un pensiero impuro, il solo della mia vita, e ora sono dannata." Ritrovare il libro della prima comunione. C'era l'illustrazione o ho fatto tutto da solo? Certo era morta mentre pensava a me, il pensiero impuro ero io che desideravo Mary Lena intoccabile perché di altra specie e destino. Sono colpevole per la sua dannazione, sono colpevole della dannazione di chiunque si danni, giusto che non abbia avuto le tre donne: è la punizione per averle volute.

Perdo la prima perché è in paradiso, la seconda perché invidia in purgato-rio il pene che non avrà mai, e la terza perché all'inferno. Teologicamente perfetto. Già scritto.

Ma c'è la storia di Cecilia e Cecilia sta in terra. La pensavo prima di addormentarmi, salivo la collina per andare a prendere il latte alla cascina e mentre i partigiani sparavano dalla collina di fronte sul posto di blocco mi vedevo accorrere in sua salvezza, liberandola da una torma di scherani neri che la inseguivano col mitra brandito... Più bionda di Mary Lena, più inquietante della fanciulla del sarcofago, più pura e ancella della vergine. Cecilia vivente ed accessibile, bastava un nulla e avrei potuto persino parlarle, avevo la certezza che poteva amare uno della mia razza, tant'è vero che lo amava, si chiamava Papi, aveva capelli biondi ispidi su di un cranio minuscolo, un anno più di me, ed un sassofono. E io neppure la tromba. Non li devo mai visti insieme, ma tutti all'oratorio sussurravano tra colpi di gomito e risolini che facevano l'amore. Sicuramente mentivano, piccoli contadini lascivi come capre. Volevano farmi capire che essa (ella, Marylena Cecilia sposa e ancella) era talmente accessibile che qualcuno vi aveva avuto accesso. In ogni caso — quarto caso — io fuori gioco.

Si scrive un romanzo su una storia del genere? Forse dovrei scriverlo sulle donne che sfuggo perché ho potuto averle. O avrei potuto. Averle. O è la stessa storia.

Insomma, quando non si sa neppure di che storia si tratta, meglio correggere i libri di filosofia.

 


Nella mano destra stringeva una tromba dorata.

(Johann Valentin Andreae, Die Chymische Hochzeit des Christian Rosencreutz, Strassburg, Zetzner, 1616, 1)

 

Trovo in questo file la menzione di una tromba. L'altro ieri nel periscopio non sapevo ancora quanto fosse importante. Avevo solo un riferimento, assai pallido e marginale.

Durante i lunghi pomeriggi alla Garamond, talora Belbo, oppresso da un manoscritto, alzava gli occhi dai fogli e cercava di distrarre anche me, che stavo magari impaginando sul tavolo di fronte vecchie incisioni del-l'Esposizione Universale, e si lasciava andare a qualche rievocazione — provvedendo subito a calare il sipario quando sospettava che lo prendessi troppo sul serio. Rievocava il proprio passato, ma solo a titolo d'exemplum, per castigare una qualche vanità. "Io mi chiedo dove andremo a finire," aveva detto un giorno.

"Parla del tramonto dell'occidente?"

"Tramonta? Dopotutto è il suo mestiere, non dice? No, parlavo di questa gente che scrive. Terzo manoscritto in una settimana, uno sul diritto bizantino, uno sul Finis Austriae e il terzo sui sonetti del Baffo. Son cose ben diverse, non le pare?"

"Mi pare."

"Bene, l'avrebbe detto che in tutti e tre appaiono a un certo punto il Desiderio e l'Oggetto d'Amore? E una moda. Capisco ancora il Baffo, ma il diritto bizantino..."

"E lei cestini."

"Ma no, sono lavori già completamente finanziati dal CNR, e poi non sono male. Al massimo chiamo questi tre e gli chiedo se possono far sal-tare queste righe. Ci fan brutta figura anche loro."

"E quale può essere l'oggetto d'amore nel diritto bizantino?"

"Oh, c'è sempre modo di farlo entrare. Naturalmente se nel diritto bizantino c'era un oggetto d'amore, non è quello che dice costui. Non è mai quello."

"Quello quale?"

"Quello che tu credi. Una volta, avrò avuto cinque o sei anni, mi sono sognato che avevo una tromba. Dorata. Sa, uno di quei sogni che si sente il miele colare nelle vene, una specie di polluzione notturna, come può averla un impubere. Non credo di essere mai stato felice come in quel sogno. Mai più. Naturalmente al risveglio mi accorsi che la tromba non c'era e mi misi a piangere come un vitello. Piansi tutto il giorno. Davvero quel mondo dell'anteguerra, sarà stato il trentotto, era un mondo povero. Oggi se avessi un figlio e lo vedessi così disperato gli direi andiamo, ti compero una tromba — si trattava di un giocattolo, non sarà mica costato un capitale. Ai miei non venne neppure in mente. Spendere, allora, erauna cosa seria. Ed era una cosa seria educare i ragazzi a non avere tutto quel che si desidera. Non mi piace la minestra coi cavoli, dicevo — ed era vero, mio dio, i cavoli nella minestra mi facevano schifo. Mica che dicessero va bene, per oggi salti la minestra e prendi solo la pietanza (non eravamo poveri, avevamo primo, secondo e frutta). Nossignore, si mangia quel che c'è in tavola. Piuttosto, come soluzione di compromesso, la nonna si metteva a togliere i cavoli dal mio piatto, uno per uno, vermiciattolo per vermiciattolo, sbavatura per sbavatura, e io dovevo mangiare la minestra depurata, più schifosa di prima, ed era già una concessione che mio padre disapprovava."

"Ma la tromba?"

Mi aveva guardato esitando: "Perché le interessa tanto la tromba?"

"A me no. E lei che ha parlato di tromba a proposito dell'oggetto d'amore che poi non è quello giusto..."

"La tromba... Quella sera dovevano arrivare gli zii da ***, non avevano figli ed ero il nipote prediletto. Mi vedono piangere su quel fantasma dí tromba e dicono che sistemano tutto loro, il giorno dopo saremmo andati alla Upim dove c'era un intero bancone di giocattoli, una meraviglia, e avrei trovato la tromba che volevo. Passai la notte sveglio, e scalpitai per tutta la mattina dopo. Al pomeriggio andiamo alla Upim, e c'erano trombe di almeno tre tipi, saranno state cosine di latta ma a me sembra-vano ottoni da golfo mistico. C'era una cornetta militare, un trombone a coulisse e una pseudotromba, perché aveva il bocchino ed era d'oro ma aveva dei tasti da sassofono. Non sapevo quale scegliere e forse ci misi troppo tempo. Le volevo tutte e detti l'impressione di non volerne nessuna. Intanto credo che gli zii avessero guardato ai cartellini dei prezzi. Non erano tirchi, ma io ebbi l'impressione che trovassero meno caro un clarino di bachelite, tutto nero, coi tasti d'argento. `Non ti piacerebbe questo, invece?' chiesero. Io lo provai, belava in modo ragionevole, cercavo di convincermi che era bellissimo, ma in verità ragionavo e mi dicevo che gli zii volevano che prendessi il clarino perché costava meno, la tromba doveva valere una fortuna e non potevo imporre quel sacrificio agli zii. Mi avevano sempre insegnato che quando ti offrono una cosa che ti piace devi subito dire no grazie, e non una volta sola, non dire no grazie e tendere subito la mano, ma aspettare che il donatore insista, che dica ti prego. Solo allora il bambino educato cede. Così dissi che forse non volevo la tromba, che forse mi andava bene anche il clarino, se loro preferivano. E li guardavo di sotto in su, sperando che insistessero. Non insistettero, Dio li abbia in gloria. Furono molto felici di comperarmi il clarino, visto —dissero — che lo preferivo. Era troppo tardi per tornare indietro. Ebbi il clarino."

Mi aveva guardato con sospetto: "Vuole sapere se sognai ancora la tromba?"

"No," dissi, "voglio sapere qual era l'oggetto d'amore."

"Ah," disse, rimettendosi a sfogliare il manoscritto, "vede, anche lei è ossessionato da questo oggetto d'amore. Queste faccende si possono manipolare come si vuole. Mah... E se poi avessi ben preso la tromba? Sarei stato felice sul serio? Cosa ne dice lei, Casaubon?"

"Avrebbe forse sognato il clarino."

"No," aveva concluso seccamente. "Il clarino l'ho solo avuto. Non credo di averlo mai suonato."

"Sognato o suonato?"

"Suonato," disse scandendo le parole e, non so perché, mi sentii un buffone.
10

E finalmente altro non si inferisce cabalisticamente da vinum che VIS NUMerorum, dai quali numeri essa Magia dipende.

(Cesare della Riviera, Il Mondo Magico degli Eroi, Mantova, Osanna, 1603, PP.65-66)

 

Ma dicevo del mio primo incontro con Belbo. Ci conoscevamo di vista, qualche scambio di battute da Pilade, ma non sapevo molto di lui, salvo che lavorava alla Garamond, e di libri Garamond me ne erano capitati alcuni tra le mani all'università. Editore piccolo, ma serio. Un giovane che sta per finire la tesi è sempre attratto da qualcuno che lavori per una casa editrice di cultura.

"E lei cosa fa?" mi aveva chiesto una sera che ci eravamo appoggiati tutti e due all'angolo estremo del -banco di zinco, pressati da una folla da grandi occasioni. Era il periodo in cui tutti si davano del tu, gli studenti ai professori e i professori agli studenti. Non parliamo della popolazione di Pilade: "Pagami da bere," diceva lo studente con l'eschimo al caporedattore del grande quotidiano. Sembrava di essere a Pietroburgo ai tempi del giovane Sklovskij. Tutti Majakovskij e nessun Zivago. Belbo non si sottraeva al tu generalizzato, ma era evidente che lo comminava per di-sprezzo. Dava del tu per mostrare che rispondeva alla volgarità con la volgarità, ma che esisteva un abisso tra prendersi confidenza ed essere in confidenza. Lo vidi dare del tu con affetto, o con passione, poche volte e a poche persone, Diotalleví, qualche donna. A chi stimava, senza conoscere da molto tempo, dava del lei. Così fece con me per tutto il tempo che lavorammo insieme, e io apprezzai il privilegio.

"E lei cosa fa?" mi aveva chiesto, ora lo so, con simpatia.

"Nella vita o nel teatro?" dissi, accennando al palcoscenico Pilade. "Nella vita."

"Studio."

"Fa l'università o studia?"

"Non le parrà vero ma le due cose non si contraddicono. Sto finendo una tesi sui Templari.»

"Oh che brutta cosa," disse. "Non è una faccenda per matti?"

"Io studio quelli veri. I documenti del processo. Ma che cosa sa lei sui Templari?"

"Io lavoro in una casa editrice e in una casa editrice vengono savi e matti. Il mestiere del redattore è riconoscere a colpo d'occhio i matti. Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto."

"Non me lo dica. II loro nome è legione. Ma non tutti i matti parleranno dei Templari. Gli altri come li riconosce?"

"Mestiere. Adesso le spiego, lei che è giovane. A proposito, come si chiama?"

"Casaubon."


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 35 | Нарушение авторских прав



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