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Collana: Tascabili Bompiani 26 страница



Lei gridò ad un tratto: "Uh che bellezza... fermati." Mi fermai, e lei disse: "Sai che facciamo ora? Tu scendi e vai nel bosco a cogliermi un bel mazzo di ciclamini."

"Ciclamini?"

"Ma sì... guarda quanti ce ne sono." Guardai e, infatti, in terra, nel sottobosco, vidi i ciclamini rosa sparsi tra le foglie gialle e il verde del museo. Lei disse, svenevole: "Non lo vuoi cogliere un mazzetto per la tua Gina?", e mi fece una carezza sulla guancia, atteggiando la bocca come per un bacio. Credetti che fosse giunto il momento e feci per abbracciarla; ma lei mi respinse dicendo: "No, qui no, a Fiumicino... intanto scendi e cogli un bel mazzetto." Non dissi nulla e smontai lasciando lo sportello aperto.

Dalla macchina lei mi gridò: "Vai dentro.. sono più belli;" e io, camminando a fatica, tra i rovi che mi si aggrappavano con le spine ai pantaloni, mi addentrai nel bosco cogliendo ciclamini. Il bosco era fradicio di pioggia; c'era un buon odore di terra bagnata, di borracina, di legno marcito; ad ogni passo, dai rami che urtavo con la testa, mi cascava addosso una scarica di gocciole d'acqua, così che in breve ebbi tutta la faccia lavata. I ciclamini erano proprio belli e io, cogliendoli, pensavo che ero tanto contento di avere finalmente una ragazza, e mi piaceva l'idea di cogliere ciclamini per lei e cercavo di prendere i più grossi, con il gambo più lungo e il rosa più acceso. Sentii che mi gridava: "Vai avanti... più avanti vai, meglio è;" e mi levai dritto in mezzo alla macchia per mostrarle il mazzo che avevo giа raccolto. Allora, al di lа dei cespugli bassi, tra un tronco e l'altro, vidi la topolino caffelatte ferma presso il ciglio della strada e un uomo in impermeabile che ne scendeva e saliva in fretta nella mia macchina. Gridai: "Ferma... ferma", e mi slanciai; ma misi il piede in fallo e caddi in terra, la faccia sul muschio fradicio, in un diluvio di gocciole di pioggia.

Del ritorno, è meglio non parlare. Feci cinque chilometri a piedi; ero così sbalordito che al passaggio a livello di Fiumicino mi accorsi di stringere ancora nella mano il mazzo di ciclamini. E non voglio neppure dire come ritrovai quella strega, una settimana dopo, nel momento che usciva da un negozio del centro, e come la feci arrestare. Ma la sola cosa che mi brucia (la macchina fu ritrovata due giorni dopo, senza gomme, in una straduccia di campagna), fu che lei, come gridai: "Ladra... ti trovo finalmente, ladra", finse di non conoscermi e, anzi, disse, sfrontata: "Ma chi lo conosce? Chi l'ha mai vista quella faccia da norcino?" Avete capito? Anche lei mi chiamava faccia da norcino, come i miei amici, come la ragazza di via Pinciana. Per questo, da allora, mi sono fatto crescere i baffi, spioventi, biondi, lunghi. Ma con tutti i miei baffi, la ragazza non l'ho ancora trovata.

 

L'APPETITO

 

Se una mattina passate dalle parti del Policlinico, in quel punto delle mura dove ci sono, fitte fitte, quelle lapiducce bianche per grazia ricevuta o da ricevere che sembrano tanti francobolli attaccati sopra una busta, vedrete, a poca distanza dal tabernacolo della Madonna, un chiosco di fioraio bello e grande, pieno di vasi con i fiori, di statuette colorate, di canestri giа pronti coi nastri e tutto. Lì i parenti e gli amici comprano i fiori per quei poveri malati; lì si rifornisce tutto il quartiere. La fioraia è una donna grassa, bionda e alta, e ha un figlio fatto a sua somiglianza che l'aiuta nel mestiere. Carlo, si chiama, ha diciannove anni e peserа giа il suo quintale. Fateci caso, guardatelo, ha la faccia grassa e tutta semolata, gli occhiali forti da miope e i capelli rossi tagliati a spazzola. Il petto gli trema ad ogni movimento come quello di una donna; ha la pancia; e, due gambe che sembrano un monumento. Veste sempre all'americana, giacca a vento e pantaloni rigati: la giacca gli sta incollata addosso come un corpetto; e i pantaloni, quando si china, sempre si ha l'impressione che possano spaccarsi sul didietro. Carlo ed io eravamo amici e adesso non lo siamo più e questo mi dispiace, non fosse altro perché, con quel fisico, lui bandiva ogni tristezza. Per farsi passare la malinconia, bastava vederlo mangiare: salute, che appetito; come Carlo non ne ho conosciuto proprio nessuno. Come niente, lui era capace di sfondarsi un mezzo chilo di spaghetti al sugo, con il pane; e poi di dichiarare, scontento: "Questi spaghetti non mi hanno toccato un dente...: mamma, ci ho fame." Tanto che qualche volta gli amici lo invitavano in trattoria per il solo piacere di vederlo mangiare. E lui non si faceva pregare: un agnello sano sano, una sera, alla Stelletta, lui, in meno mezz'ora, se lo divorò tutto, tutto lo succhiò e lo stritolò, non lasciando sul piatto che un mucchietto d'ossa. Queste mangiate a casa non le faceva perché la madre era tirata e coi fiori c'è poco da scialare. Per questo, sapendo che vederlo mangiare era un po' uno spettacolo, lui stesso proponeva: "Stasera m'invitate? Mangio a cottimo, senza limiti di quantitа, ci state?"



Una di queste domeniche, Carlo mi fece sapere che eravamo invitati tutti e due a pranzo in casa della sua fidanzata, Faustina. Mi meravigliai perché non avevo confidenza con la famiglia di Faustina e non vedevo il motivo dell'invito. Ma, all'appuntamento al corso d'Italia, come vidi Carlo, capii che il motivo c'era. Carlo, le mani in tasca; pareva triste e avvilito e sospirava. Mentre ci avviavamo verso la casa di Faustina, gli domandai che avesse e lui mi rispose con un sospiro. Insistetti: un nuovo sospiro. Dissi, alla fine: "Senti, se non vuoi dirmelo, non dirlo... ma piantala di sospirare... sembri una foca."

"Perché le foche sospirano?"

"No, ma se sospirassero, sospirerebbero come te."

Lui sospirò di nuovo e poi spiegò: "Stamani ti ho fatto invitare affinché mi aiuti... me lo prometti?"

Glielo promisi, e allora lui, sempre sospirando, disse: "Faustina non mi vuole più."

Confesso che il primo movimento fu di soddisfazione. Faustina mi piaceva e non avevo mai capito che ci trovasse in Carlo. Ma sono un buon amico e non mi ero mai azzardato non dico a farle la corte, ma neppure a lasciarglielo capire. Dissi, fingendo indifferenza: "Beh, mi dispiace, ma che posso farci io?"

"Moltissimo puoi farci... a me Faustina non mi dа retta... ma di te ha soggezione... tu sai parlare... non voleva più vedermi, ho insistito per una spiegazione e allora ci ha invitati: tu devi parlarle e devi dirle che io le voglio bene e che non mi deve lasciare."

Io risposi che le donne non si lasciano convincere dai ragionamenti; ma alla fine siccome lui mi pregava, finii per accettare. Intanto eravamo arrivati alla casa di Faustina, vicino ai mercati di piazza Alessandria. Salimmo le scale, bussammo; la madre di Faustina, una donnetta dai capelli grigi, ci venne ad aprire con una ventola in mano gridò: "Almeno voi siete venuti" e poi scappò in cucina. Passammo nella stanza da pranzo che negli altri giorni serviva da salotto di prove per il padre di Faustina il quale faceva il sarto. Una tavola per otto era preparata tra le quattro pareti coperte di figurini e di pagine strappate dalle riviste di moda; in un angolo c'era un manichino da donna, con sopra una giacca imbastita. Mi parve che nell'appartamento ci fosse una gran confusione: si udiva la madre strillare, arrabbiata, e qualcuno risponderle. Poi la porta si aprì con impeto e Faustina entrò. Era una ragazzetta di diciotto anni, piccola e minuta, coi capelli crespi, la fronte sfuggente, gli occhi verdi e la bocca grande: non bella, ma provocante. Gridò, tutta allegra: "Ciao Carlo, ciao Mario... mamma è arrabbiata perché aveva messo giù la pasta per otto e invece papа, Gino e Alfredo hanno fatto sapere che per via della partita mangiano fuori, anche Annamaria non viene perché il fidanzato l'ha invitata... io, poi, sto per uscire, ci ho anch'io un invito... così siete rimasti voi tre, mamma è arrabbiata perché dice che la carne può metterla da parte, ma la pasta asciutta, no."

Disse queste parole tutte d'un fiato; poi, tirata su la veste dietro affinché non si gualcisse, si gettò a sedere sopra un vecchio divano giallo tutto sfondato e rotto, e riprese: "Senti, Carlo, io ti ho fatto venire oggi con il tuo amico perché mamma mi aveva detto che dovevo darti questa soddisfazione... ma te lo dico subito: è inutile che insisti."

Non so perché mi fecero piacere queste parole, pronunziate con tanta disinvoltura. Tanto più che lei, dicendole, non aveva guardato Carlo ma me; e i nostri sguardi si erano incontrati; e lei, così mi era sembrato, mi aveva sorriso con civetteria. Carlo, intanto, piagnucolava: "Ma se tu non mi vuoi, io come faccio?" Lei si mise a ridere di gusto, mostrando i denti larghi e piccoli: "Te ne troverai un'altra... oppure non la troverai... per me non m'importa... purché non ci vediamo più perché sono proprio stufa."

"Ma perché sei stufa... che t'ho fatto... perché ce l'hai con me?"

Lei saltò su, ma allegramente, e sempre, con quegli occhi verdi, guardando me e non lui: "Ce l'ho con te per quello che sei... un grassone, un materasso, un mangione... non pensi che a mangiare e più mangi e più diventi grasso... le mie amiche dicono che sposo re Faruk... io, accanto a te, sembro proprio la pulce accanto all'elefante... non sono fatta per te."

"Ma io ti voglio bene."

"E io per niente... manco un poco."

Avete mai visto un grassone che piange? Il magro, quando piange, sembra sincero; ma il grasso si direbbe che faccia finta. Carlo si tolse gli occhiali e cominciò a singhiozzare nel fazzoletto. Entrò la madre, con la zuppiera colma di pasta asciutta al sugo di pomodoro, e domandò, sorpresa: "Ma che è successo? Che ci ha Carlo?"

"Piange" disse Faustina, allegra, alzando le spalle: "gli fa bene." E poi levandosi dal divano: "Beh, io me ne vado... hai voluto venire, ti ho ripetuto quello che ti avevo giа detto e adesso me ne vado... ci ho da fare."

"Ma non mangi?" gridò la madre.

"No, mangio dopo... mettimi da parte qualche cosa... addio Carlo e buon appetito... arrivederci Mario." Così dicendo lei mi strinse la mano guardandomi fisso con gli occhi verdi; e sentii che, invece di stringere, mi strisciava con le dita tra le dita.

"Beh" fece la madre irritata "non ci siete che voi due... mettetevi a tavola e mangiate."

"Non ho fame", disse Carlo. Ma, come d'incanto, le lagrime gli si erano asciugate e gli occhi gli si erano posati sulla zuppiera.

Io non avevo fame davvero: quegli sguardi e quel contatto delle dita di Faustina mi avevano turbato. Arrischiai: "E se ce ne andassimo?"

"E la roba si butta?" gridò la madre portando le mani ai fianchi; "pasta fatta in casa... su, sedetevi e mangiate."

"Non ho fame", protestò ancora Carlo debolmente. Ma in quel momento Faustina si affacciò alla porta e gridò: "Ma a chi vuoi darla ad intendere che non hai fame... vieni, su, bello, vieni a mangiare." Si gettò su di lui che stava sprofondato nel divano l'acchiappò per la mano lo costrinse ad alzarsi e a sedersi a tavola, gli annodò il tovagliolo intorno al collo, gli mise la forchetta in mano. Intanto la madre, contenta, rovesciava nel piatto di Carlo un monte di pasta asciutta. Carlo ripeteva, soffocato: "Ma non ho fame." Però quel piatto fumante, di un bel colore chiaro di pomodoro fresco, doveva fargli gola perché, sempre ripetendo con voce di pianto: "Non ho fame", cominciò, imbambolato, ad arrotolare la pasta intorno alla forchetta.

"Buon appetito", gridò Faustina scappando di nuovo dalla stanza.

Anche la madre era uscita, dopo avermi riempito il piatto. Carlo sollevò la forchetta carica di pasta e poi, con voce piagnucolosa, disse adagio: "Mario, va' da Faustina... prima che esca... può darsi che con te, da solo a solo..." Non finì e chinando il capo si mise in bocca la pasta. Intanto le lagrime continuavano a sgorgargli dagli occhi, mentre mangiava. Dissi, contento: "Hai ragione, da solo a solo può darsi che mi dia retta... tu mangia, intanto... vado e torno."

Uscii e andai direttamente nella camera di Faustina. Stava in piedi, in sottoveste verdolina, davanti allo specchio dell'armadio, ritoccandosi le labbra. Chiusi la porta, le venni accanto e, girandole un braccio intorno la vita, le dissi, semplicemente: "Ci vediamo domani?"

Lei mi guardò in tralice, con i suoi occhi verdi, tutta ringalluzzita: "No, oggi."

"Oggi, quando?"

"Aspettami giù, al bar disotto, tra mezz'ora."

Non dissi nulla, feci una giravolta e uscii. Tornai nella stanza da pranzo. Carlo mangiava adesso di buon appetito ma senza fretta: la scodella era giа per metа vuota. Gli dissi: "Mi dispiace proprio... ma mi ha cacciato fuori dalla stanza... mi dispiace."

Lui finì di inghiottire il boccone e poi singhiozzò, a testa bassa, arrotolando la pasta intorno la forchetta: "Brutta zozza... e pensare che le voglio tanto bene."

Adesso avevo cominciato a mangiare anch'io, l'appetito, dopo la visita a Faustina, mi era tornato e la pasta era buona davvero, leggera, piena di sugo, con tanto pecorino dal sapore pizzicante. Carlo riprese: "Non voglio più vederla... neppure se mi prega." La scodella era vuota e lui si tirò giù dalla zuppiera un'altra porzione.

"Farai bene", dissi io.

Insomma fra tutti e due, ma soprattutto Carlo, quasi vuotammo per metа la zuppiera. Venne la madre e ci propose, ma soltanto pro forma, di mangiare un po' di affettato. Dissi che avevamo mangiato abbastanza e mi alzai, sebbene dall'espressione di Carlo, che era rimasto seduto, capissi che a lui l'affettato non sarebbe dispiaciuto. Così, sospirando e asciugandosi col tovagliolo prima la bocca e poi gli occhi, si alzò anche lui; e poi ci congedammo dalla madre e uscimmo. Una volta in strada, dissi a Carlo: "Beh, debbo andare, ci ho un appuntamento" e senza lasciargli il tempo di rifiatare, scappai via.

Gironzolai un poco per il quartiere e poi, all'ora fissata, andai al bar. Faustina mi aspettava, tutta elegante, in un vestitino viola attillato, un mazzetto di violette in mano. Subito mi si attaccò al braccio, dicendo: "Scemo, perché ci hai messo tanto a capire che mi piacevi?"

Non feci a tempo a rispondere. Passavamo in quel momento davanti un fornetto che vende le paste calde, appena sfornate. Sulla porta, una sfogliatella napoletana in mano, la bocca piena e il viso tutto sbaffato di zucchero di vaniglia, stava Carlo. Io prima sentii l'odore buono del forno, poi vidi lui e vidi che lui ci aveva visto, stretti, braccio sotto braccio. Ma Faustina non si scompose: "Addio Carlo", gli gridò mentre ci allontanavamo.

 

L'INFERMIERA

 

Ho il vivaio alla Cittа Giardino e ogni mattina, quando passo in autobus per via Nomentana, non posso fare a meno di guardare al cancello di una certa villa, poco dopo Sant'Agnese. Qualche anno fa il giardiniere in quella villa ero io e le spalliere del gelsomino contro il muro di cinta sono io che le ho piantate; così come sono io che ho disposto intorno lo spiazzo dell'ingresso i vasi di camelie e ho appoggiato alla parete della villa il glicine che, adesso, se non è morto, dovrebbe aver giа raggiunto il secondo piano. Anzi, per via della malattia del padrone, il giardino di quella villa era in abbandono e sembrava piuttosto un terreno da immondizie che un giardino; e io, per amore dell'infermiera che curava quel signore, lo feci diventare in pochi mesi una serra, con tutte le aiuole verdi, i viali coperti di ghiaia, i boschetti di lilla, e il bosso tagliato intorno le aiuole e lungo i viali. Piantai anche, ricordo, nel mezzo di un'aiuola, una magnolia adulta della specie Grandiflora, proprio di fronte alla finestra di Nella, in modo che, a primavera, il profumo dei fiori le entrasse fin dentro la stanza; e sotto la finestra, piantai una japonica, una pianta rampicante tanto bella, dai rami neri e dai fiori rossi. Nella era l'infermiera di cui ero innamorato: una ragazza robusta, non tanto alta, coi capelli rossi, il viso largo e fresco tutto semolato e gli occhiali da miope. Mi piacque subito perché era così forte e sana, con un corpo esuberante che sembrava dovesse sfondare il camice bianco; e per l'aria sorniona e placida che le davano le lentiggini e gli occhiali. Sembrava una dottoressa; e fu soprattutto il contrasto tra l'aspetto severo e quel suo corpo giovane e allegro che mi fece perder la testa.

In quel tempo la salute di quel signore che lei assisteva mi stava più a cuore della mia perché sapevo che se fosse guarito o se fosse morto, lei se ne sarebbe andata e io non avrei più potuto vederla tanto facilmente. Così, ogni mattina di quella primavera, quando lei apriva la finestra della camera dove si trovava il malato e si affacciava sul giardino, io facevo in modo di essere lа sotto e subito le domandavo: "Come sta?" e lei rispondeva con un gesto. "Così così", sorridendo maliziosamente perché sapeva il motivo di questa mia sollecitudine. Poi, durante la mattinata, la rivedevo spesso, sempre a quella finestra, in atto ora di versare una medicina in un bicchiere, ora di controllare l'ago di una siringa prima dell'iniezione. Le facevo dei segni con le mani, ma lei si limitava a scuotere il capo come per dire: "Non lo vedi che sono in camera sua?" Perché era coscienziosa nel suo lavoro più di un uomo; e maliziosa, si serviva del lavoro per farmi sospirare, un po' come certe ragazze che per rendersi preziose tirano sempre in ballo la mamma che non vuole; e invece sono loro che fanno le civette.

La mattina procuravo di restare sullo spiazzo, davanti la villa, perché la finestra del malato guardava da quella parte; il pomeriggio, invece, siccome sapevo che dopo colazione il malato dormiva e lei ne approfittava per vedermi, andavo a lavorare in fondo al giardino, che era molto grande, dietro un bosco di elci, dove c'era una fontana addossata al muro di cinta. Quasi sempre, verso le due o le tre, lei veniva e stavamo insieme mezz'ora, un'ora. Io tagliavo per lei qualche fiore, una gardenia, una camelia, una rosa; e lei, per farmi piacere, se l'appuntava sul petto, sopra il camice. Poi sedeva sull'orlo della fontana e io le parlavo del mio amore. Ero innamorato sul serio e, fin da principio, le dissi che volevo sposarla. Lei mi ascoltava con quella faccia sorniona, senza aprir bocca. Le dicevo: "Nella, voglio che ci sposiamo e voglio farti fare tanti figli... uno all'anno... sai che bei figli verranno fuori: tu sei bella e io non sono brutto." Lei rideva e diceva: "Povera me... e come li manterremo?" Rispondevo: "Lavorerò... voglio metter su un vivaio." Lei diceva: "Ma io voglio continuare a fare l'infermiera." Io ribattevo: "Macché infermiera... farai la moglie." Lei diceva: "Non voglio figli e voglio fare l'infermiera... i miei figli, sono i malati." Ma sorrideva e lasciava che io le prendessi una mano. Però, quando, da una cosa all'altra, cercavo di baciarla, subito mi respingeva e si alzava dicendo: "Debbo andare da lui."

"Ma se dorme?"

"Sì, ma se si sveglia e non mi vede, è capace di morire dal dispiacere: non vuole che me accanto al suo letto." In quei momenti odiavo il malato, sebbene dovessi a lui di averla conosciuta. Così se ne andava e io, dalla rabbia, prendevo un rastrello e rastrellavo la ghiaia con tanta forza che la terra schizzava via insieme coi sassi.

Baci non me ne diede mai. Ma qualche volta lasciava che io le ammirassi i capelli che erano, con gli occhi, la sua cosa più bella. Le domandavo: "Lasciami vedere i tuoi capelli."

"Quanto sei noioso", protestava con dolcezza; ma, alla fine, permetteva che io le togliessi il fazzoletto e poi, una per una, le forcine. Per un momento, i capelli, rossi e folti, restavano in massa sul capo, simili a una corona di rame. Poi lei dava una scrollata; e i capelli le cadevano sulle spalle, ondulati, lunghi fino alla vita; e lei stava ferma, sotto tutti quei capelli, guardandomi fisso attraverso gli occhiali. Io allora tendevo una mano e, delicatamente, le toglievo gli occhiali. Con gli occhiali aveva un'aria ipocrita, ma senza occhiali, gli occhi che aveva grandi, dolci, liquidi, quasi sfatti, di un color marrone come le castagne, davano al viso un'espressione diversa: languida, invitante. Così la guardavo senza toccarla; e lei, alla fine, forse si vergognava e si rimetteva in fretta il fazzoletto in capo e gli occhiali sul naso.

Ero così innamorato che, ricordo, un giorno le dissi: "Vorrei ammalarmi anch'io... almeno così ti occuperesti di me." Lei rispose sorridendo: "Sei matto... stai bene e vorresti essere malato." Io dissi: "Sì, vorrei essere malato... così almeno mi passeresti ogni tanto la mano sulla fronte per vedere se ho la febbre... e mi laveresti la faccia la mattina con l'acqua tiepida... e quando avessi bisogno accorreresti, pronta, con la padella, e aspetteresti che avessi finito." Quest'ultima frase la fece ridere: "Ma sai che sei buffo... credi che sia piacevole per noialtre infermiere fare certi servizi?" Io risposi: "Non è piacevole né per voi né per i malati... ma è sempre meglio che niente." Basta, non finirei di raccontare e, si sa, in amore, anche le cose minime sembrano importanti; soprattutto poi, quando, come è il caso, l'amore si ferma agli inizi e non riesce ad avere la conclusione che si vorrebbe. Siccome sentivo dire che il malato migliorava e si sarebbe presto alzato, diventai più insistente per la questione del matrimonio. Ma lei tergiversava, ora mi lasciava capire che non le dispiacevo, ora invece mi rispondeva che non mi amava abbastanza. Io pensavo che esitasse prima di arrendersi: tentennamenti di un albero segato prima di cadere. Poi uno di quei pomeriggi mi fece rimanere senza fiato, dicendomi tranquilla: "Stanotte perché non vieni sotto la mia finestra?... dopo mezzanotte... così parliamo."

Quella sera mi nascosi nel giardino e aspettai la mezzanotte, seduto sull'orlo della fontana, dietro il boschetto di elci. All'ora fissata, andai sotto la finestra e fischiai, come era convenuto. Subito le imposte si aprirono e lei apparve, bianca, alla finestra buia. Mi sussurrò: "Dammi una mano, svelto;" e io feci appena in tempo a pararmi di sotto che lei, scavalcato il davanzale, mi cascò tra le braccia. Era così pesante che quasi rotolammo in terra; ma ci rialzammo e ci avviammo lungo la parete della villa, sul marciapiede. Lei mi disse piano: "Allora, Lionello, sei proprio sicuro che vuoi sposarmi;" e io, più per l'accento, tenero come non era mai stato, che per le parole, caddi in ginocchio, lа dove mi trovavo, e le abbracciai le gambe premendo il viso contro la tela grossa del camice. Sentii che lei mi accarezzava il capo con una mano e, sebbene fossi commosso, pensai con freddezza: "Ci siamo, è fatta." Proprio in quel momento, invece, ecco squillare la suoneria del campanello dentro la camera di lei. Fosse stato il più caro amante a chiamarla, non avrebbe potuto essere più pronta: "Presto, presto" disse; e mi respinse che quasi caddi a terra; "presto... è lui che mi chiama... presto, aiutami a rientrare." Quel maledetto campanello continuava a squillare, lei corse alla finestra, l'aiutai a risalire, scomparve. Di lì ad un momento vidi, sulla facciata, illuminarsi la finestra del malato, segno che Nella era giа presso di lui, e, allora, per la prima volta, provai il sentimento della gelosia.

Quello che sia avvenuto quella notte, nella camera di quel signore, non so; ma il giorno dopo, la mattina, Nella non si affacciò; né, dopo colazione, venne al solito luogo dei nostri convegni, presso la fontana. Così passarono tre o quattro giorni; e poi, un pomeriggio, la vidi finalmente, ma non sola: camminava per lo spiazzo, a fianco del malato, sorreggendolo; lui, un uomo di mezza etа, biondiccio, pallido, molto alto, in pigiama, si appoggiava a lei circondandole le spalle con un braccio; e lei, amorevole e docile, lo teneva per la vita e misurava il passo su quello di lui. Rimasi attonito, vedendoli; poi, come furono scomparsi dietro l'angolo della villa, mi voltai verso un cameriere che li osservava anche lui, dalla soglia di casa, e lui, mi fece un gesto come per dire: "Se la intendono." Fingendomi indifferente, lo interrogai: venni così a sapere che, addirittura, si parlava nella villa che quel signore avesse intenzione di sposare Nella. Dico la veritа, non domandai altro: pensai che era una donna come tante altre e che per lei il denaro contava più dell'amore. Ho gli impulsi bruschi e non ci penso più che tanto a prendere certe decisioni: quel giorno stesso, feci il mio fagottino e me ne andai dalla villa, per non tornarci mai più.

Poi, per molto tempo ogni volta che pensavo a Nella; me la immaginavo moglie di quel signore, nella villa, non più infermiera, ma padrona. Pensavo pure che adesso non l'avrebbe più curato con tanto amore se si fosse ammalato di nuovo: vedova, avrebbe raggiunto finalmente gli scopi per i quali si era sposata. Ma qualche volta ci si sbaglia pensando che soltanto l'interesse o il sentimento siano le due cose che fanno vivere gli uomini. Ci sono persone per le quali non valgono né interesse né sentimento ma qualche altra ragione, tutta particolare, che loro sono sole a conoscere. Nella era una di queste.

Un paio d'anni dopo mi presentai ad una villa sul Gianicolo, dove mi avevano chiamato per sistemare una serra di piante tropicali. Giа, mentre aspettavo nell'atrio, notai non so che atmosfera di precauzione e quasi di lutto: tutte le finestre chiuse, sussurrii, andirivieni, odore di disinfettante, rumori soffocati. Poi, ad un tratto, la scorsi in cima alla scala, vestita da infermiera, come l'avevo veduta l'ultima volta, con il fazzoletto in capo, gli occhiali sul naso, un vassoio tra le mani. Scendeva, e così non poté evitare di incontrarmi. Come mi fu vicina, si fermò e io le dissi, tra triste e canzonatorio: "Sempre infermiera, eh, Nella... ma non dovevi sposarti?" E lei, con quell'aria placida e sorniona che giа mi aveva fatto perdere la testa, sorridendo: "Chi t'ha raccontato questa bugia?... non te l'avevo detto che non volevo sposarmi e volevo continuare a fare l'infermiera?" Dissi: "La volpe e l'uva." Ci credereste? Lei mi guardò un momento e poi scosse il capo e rispose: "Lo sai che anche questo qui si è innamorato di me?... ma adesso non posso dirti tutto... se vieni a lavorare qui, dopo parliamo... ho la finestra a pianterreno che dа sul giardino." Se ne andò, ma prima di andarsene, mi lanciò un'occhiata come per dire: "Intesi, eh". Pensai allora che, forse appunto perché lei era così sana e forte, dovesse provarci un suo gusto a far l'amore con i malati. Ma io ero sano, purtroppo; e così, per me, non c'era proprio alcuna speranza. Rinunziai lì per lì a quel lavoro e, senza aspettare che mi chiamassero, me ne andai in punta di piedi.

 

IL TESORO

 

Nell'osteria fuori Porta San Pancrazio dove ero garzone, capitava in quel tempo un ortolano che tutti chiamavano Marinese o che fosse di Marino, o, piuttosto, che gli piacesse soprattutto il vino di Marino. Questo Marinese era vecchissimo, neppure lui sapeva quanti anni aveva. Beveva, però, più di tanti giovani e quando beveva chiacchierava con chi voleva ascoltarlo o magari anche solo. Noialtri garzoni di osteria, si sa, quando non serviamo, ascoltiamo i discorsi dei clienti. Marinese, tra tante falsitа, raccontava spesso una storia che sembrava vera: che i Tedeschi avevano rubato nella villa di un principe, poco lontana, una cassetta di argenteria e che l'avevano sotterrata in un luogo che sapeva lui. Qualche volta, se era proprio ubriaco, lasciava capire che quel luogo era il suo orto. Comunque, diceva che, se l'avesse voluto, avrebbe potuto diventare ricco. E lui un giorno avrebbe voluto. Quando? "Quando sarò vecchio e non avrò più voglia di lavorare", disse una volta a qualcuno che glielo domandava. Che era una risposta buffa perché, a vederlo, gli si davano almeno ottant'anni.


Дата добавления: 2015-10-21; просмотров: 32 | Нарушение авторских прав







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