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Collana: Tascabili Bompiani 21 страница



 

PRECISAMENTE A TE

 

Quando ero bambino, giocavo con altri della mia etа al gioco della conta, con la filastrocca che comincia: "Centocinquanta, la gallina canta", e finisce: "che toccherebbe precisamente a te." E ricordo quanto ci tenevo a che il dito di chi contava si fermasse sul mio petto e io fossi scelto a far da capo. Amor proprio; e si sa che nella vita l'amor proprio è tutto; e chi non capisce questo, non capisce niente della vita. Poi, da grande, sono rimasto quello che spera sempre che "toccherebbe precisamente a lui". Purtroppo non tocca spesso a me; anzi quasi mai. Fino a poco tempo fa, all'inconveniente del mio carattere troppo modesto, si aggiungeva quello del mestiere: facevo il mondezzaro. Se ne dicono tante sulla mondezza e sui mondezzari. Al disotto del mondezzaro, dicono, non c'è nulla, neppure il mendicante. Sarа anche vero. Ma se non ci fossero i mondezzari, che succederebbe? Lo vediamo nei giorni di sciopero della categoria: tutta la cittа sporca, triste, piena di cartacce, con le pattumiere che traboccano. E le strade più belle, sono le più sporche, perché, si sa, i ricchi fanno più mondezza dei poveri; e dalla mondezza si può capire come vive la gente. In quei giorni, ripeto, si vedeva che cosa sia il mondezzaio e quanta importanza abbia nella vita moderna.

Basta, in quel tempo che giravo con il carro a raccogliere la mondezza, mi pareva che quella frase: "che toccherebbe precisamente a te", non sarei mai riuscito a sentirmela dire. Toccava sempre agli altri; specie con le donne. Tutte le volte, infatti, che, stando con una ragazza che mi piaceva, arrivavo a dire: "faccio il mondezzaro", la vedevo oscurarsi e storcere il naso; quindi, più o meno presto, mi lasciava. Manco avessi detto: "faccio il ladro." Sulle prime non capivo; poi, dagli e dagli, cominciai a sospettare che forse mi sarebbe convenuto nascondere il mestiere. Ma fu Silvestro, un vecchio che mi era compagno sul carro, il quale, si può dire, mi aprì veramente gli occhi. Una mattina che giravamo, al solito, da una casa all'altra, e io mi lamentavo che le donne trovassero da ridire sul mestiere, lui rispose senza complimenti: "Perché è un mestiere zozzo... alle donne, i mestieri zozzi non piacciono... ma tu nascondilo."

"E come faccio?"

"Di' che sei impiegato al comune... è la veritа, dopo tutto... siamo tutti impiegati al comune... noi che raccattiamo la mondezza e quelli che stanno all'anagrafe dietro gli sportelli... tutti impiegati."

L'altro compagno, Ferdinando, uno della mia etа, rosso di capelli e lentigginoso, occhialuto, intervenne a questo punto: "Secondo me, hai torto... perché nascondere il mestiere?... È un mestiere come un altro.... siamo lavoratori come tutti gli altri... nascondendolo, la dai vinta al pregiudizio."

"Bravo" disse Silvestro, "ma il pregiudizio c'è o non c'è? E per Luigi, l'importante è andar contro il pregiudizio oppure farsi voler bene dalla ragazza? D'altronde, guarda i facchini... anche loro son lavoratori... però si fanno chiamare portabagagli o portatori o che so io... cambiano la parola, non il fatto... anche loro per via del pregiudizio."

"Da' retta, Luigi" disse Ferdinando, ostinato "non nascondere nulla... se una donna dа importanza al pregiudizio, è segno che vuol più bene al pregiudizio che a te."

Insomma, discutemmo un bel po', mentre il carro pieno di mondezza andava piano piano, da una strada all'altra, nella nebbia del mattino di novembre. Poi il carro si fermò davanti a una di quelle case. Ferdinando acchiappò il sacco, discese dal carro e si ingolfò fischiettando nel portone. Io dissi a Silvestro: "Tu sei vecchio e conosci la vita... dimmi che debbo fare."

Lui si tolse la pipa dalla bocca e rispose: "Ferdinando ha scelto di vantarsene... ma per me è una maniera come un'altra di vergognarsene... chi non si vergogna sono io... non me ne vanto e non lo nascondo... sono mondezzaro e tanto basta."



"Sì, ma io..."

"Tu è un'altra cosa... è il tuo interesse nasconderlo... te l'ho giа detto: fatti passare per impiegato al comune."

Questo consiglio, lì per lì, non mi piacque. Mondezzaro ero e non vedevo perché dovessi nasconderlo. Ma di lì a pochi giorni, trovandomi in libertа, senza berretto né zinale, seduto a una panchina di Villa Borghese, ci ripensai e mi dissi che, in fondo, Silvestro poteva anche aver ragione. Provai, a questo pensiero, ad un tratto, un sentimento come in certi sogni, quando si sogna di passeggiare in camicia e con il sedere nudo, e non lo si sa, e poi qualcuno fa l'osservazione e allora ci si accorge che si è nudi, e si prova vergogna e ci si sveglia. Dunque, per due anni ero stato mondezzaro e non me ne ero accorto. Dunque avevo passeggiato in camicia ed ero stato il solo a non rendermene conto. Dunque...

Era una giornata della metа di novembre, proprio bella, con l'aria dolce e un po' nebbiosa, e gli alberi tutti gialli e rossi e i viali pieni di donne e di bambini. Ero così sprofondato nelle mie riflessioni che non mi ero accorto che sulla stessa panchina si era seduta una ragazza con una bambina, forse una cameriera o una governante. Poi, alla sua voce che diceva: "Beatrice non ti allontanare", mi voltai e la guardai. Era giovane, robusta nella persona, con la faccia tonda, bianca e rossa, e una treccia bionda, grossa come un canapo, girata intorno alla testa. Mi colpirono gli occhi: neri e luccicanti, come di velluto, sorridenti. La bambina si era accoccolata a giocare con la ghiaia. Lei stava seduta, tenendo in mano il secchiello e la paletta della bambina. Vedendosi guardata, si voltò verso di me e mi disse tranquillamente: "Lei non mi conosce... ma io conosco lei."

Cosa vuol dire la suggestione di certi discorsi. Sentii di arrossire e pensai: "Mi avrа veduto con il sacco della mondezza sulle spalle." E subito risposi: "Signorina, lei si sbaglia con qualcun altro... io non l'ho mai vista."

"Eppure la conosco."

Dissi, ormai lanciato nella bugia: "È impossibile... a meno che non mi abbia visto all'anagrafe, dove sono impiegato... gente ne capita tanta..."

Questa volta, lei non disse nulla, ma mi guardò a lungo, in una maniera strana. Disse finalmente: "Lei è impiegato all'anagrafe?"

"Sicuro."

"In che ufficio?"

"Be', ora qui e ora lа... di uffici ce ne sono tanti."

"Allora" disse lei lentamente "l'avrò visto lа... ci sono andata due giorni fa."

"Proprio così."

La bambina, intanto, si era allontanata di qualche passo e frugava con le due mani in un mucchio di detriti e di foglie morte. Lei le gridò: "Lascia stare Beatrice... è mondezza... le bambine buone non toccano la mondezza;" e io, alla parola "mondezza", non potei fare a meno di trasalire e diventar rosso in faccia. Come se non bastasse, ecco avvicinarsi uno spazzino, nella sua brutta uniforme grigia, con la carriolina di zinco e la scopa, e cominciare a spazzare via il mucchio. Lei disse: "Con tutte queste foglie morte, chissа quanto hanno da fare gli spazzini."

Arrossii di nuovo; e risposi sperando che mi desse ragione: "È il mestiere loro... sono impiegati al comune come me... loro spazzano e io scrivo... non c'è altra differenza." Ma lei mi guardò, sempre in quella maniera strana, e poi disse: "Mi chiamo Giacinta... e lei?"

"Luigi." Così cominciò la relazione. Lei non volle mai darmi l'indirizzo di casa sua, dicendo che non voleva che la padrona sapesse che ci vedevamo; abitava, però, come capii, nella zona che ogni mattina percorrevo col carro. Ci vedevamo spesso, qualche volta durante la settimana, e tutte le domeniche. Andavamo al cinema, oppure alla partita di calcio oppure al caffè. Mi innamorai di lei, si può dire, soprattutto per il carattere. Un carattere così non l'ho mai conosciuto: tranquillo, dolce, calmo, forse sornione, tutto coperto e tutto nascosto, simile ad un'acqua cheta e profonda. Stava sempre zitta e, mentre le parlavo, scuoteva continuamente il capo, con dolcezza, come per approvarmi e, al tempo stesso, faceva un gemito leggero leggero, quasi a dire: "È vero, proprio così, hai ragione." Ma se non parlava, per lei parlavano gli occhi: sempre sorridenti, sempre attenti, in un luccichio di velluto nero, misteriosi. Confidenza non me ne diede mai molta: sì e no, due o tre volte, al cinema, si lasciò prendere la mano. Intanto continuavo a dirle che ero impiegato all'anagrafe; anzi, come succede, aggiungevo sempre qualche particolare nuovo, in modo da rafforzare l'impressione della veritа. Però, ogni tanto mi tradivo, perché, come mi accorsi, mondezza e mondezzaro entrano nel linguaggio più di quanto non si creda. Come quella volta che, avendomi fatto aspettare all'appuntamento, la rimproverai e finii, senza volerlo: "Sono un uomo... mica sono mondezza." Subito mi morsi la lingua ed arrossii fino alle orecchie. Mi parve che lei sorridesse, ma non disse nulla.

Ero così innamorato che incominciai a pensare di fidanzarmi. Ma capii subito che se volevo sposarla, dovevo prima di tutto cambiare mestiere. Le avevo detto troppe bugie; riconoscere ad un tratto che ero mondezzaro, voleva dire rovinare ogni cosa. Prima di tutto per la delusione: mondezzaro. Poi perché avrebbe scoperto che ero bugiardo e, si sa, le donne non amano i bugiardi. Però non era facile cambiare mestiere. E io dovevo cambiarne due: quello vero e quello finto. Cominciai, nelle ore di libertа, a girare per Roma cercando lavoro. Non ne trovavo; e mi venne in mente che perduto per perduto, tanto valeva licenziarmi e restar disoccupato. Chissа perché, disoccupato suona meglio di mondezzaro. A questo punto, avvenne il fatto nuovo che, in fondo, avevo sempre temuto.

Il carro percorreva la mattina sempre la stessa zona. Come ho detto, eravamo in tre sul carro: Ferdinando ed io che, a turno, andavamo a riempire i sacchi, e Silvestro che guidava i cavalli e ci aiutava a pareggiare la mondezza. Parlavamo poco: Silvestro seduto sulla stanga, le redini in mano, fumava la pipa; Ferdinando, appollaiato sulla mondezza, sempre leggeva una rivista o un giornale pescato in qualche pattumiera; e io pensavo a Giacinta e alle mie bugie. Ora, una mattina che toccava a me riempire i sacchi, il carro, al solito, si fermò davanti una palazzina gialla di tre piani, nei pressi di piazza della Libertа. Senza dir parola, afferro il sacco, scendo dal carro ed entro. Non c'era ascensore; era una casa vecchia e così tranquilla che pareva disabitata, con tre appartamenti soli. Salii, due scali alla volta, la prima rampa, il sacco in mano, e poi, al pianerottolo, andai direttamente al primo appartamento. Sulla porta c'era una targa con un nome qualsiasi: "Ginesi". Vagamente ricordavo che a quella porta si affacciava sempre la stessa persona: una cuoca di mezza etа, friulana, robusta, arcigna, triste, quasi un uomo. Anche quel mattino, come ero solito fare, appena sentii aprire la porta, non levai neppure gli occhi e dissi meccanicamente, parando il sacco: "Mondezzaro."

Ma alla vista delle due mani che mi tendevano la pattumiera di alluminio, non quelle grandi e scure della cuoca, ma piccole e bianche, levai gli occhi; e vidi che era lei. Poi, ho saputo che in quella casa erano in due: lei e la cuoca; e che lei, cameriera fine, non veniva mai alla porta ma mi aveva osservato dalla finestra; e che quel mattino, per combinazione, la cuoca era malata. E ho anche saputo che fu la timidezza a impedirle di parlare, come mi vide apparire sulla soglia. Senno del poi. Ma in quel momento, mentre lei, in silenzio, mi tendeva la pattumiera, mi parve di indovinare non so che canzonatura in quei suoi occhi neri che mi guardavano. Mi accorsi che arrossivo e poi diventavo pallido. Rovesciai la spazzatura nel sacco, me lo tirai sulla spalla e voltai la schiena. Mi ero visto com'ero, col berrettino schiacciato sull'orecchio e lo zinale di rigatino che puzzava: mondezzaro, non impiegato. E pensai che non avrei mai più avuto il coraggio di rivederla. Però non salii agli altri appartamenti. Tornai in strada, gettai a Ferdinando, in cima al carro, il sacco quasi vuoto, e poi, gli gettai il berretto e lo zinale, e dissi: "Prendi anche questi... per me è finita... me ne vado... avverti la centrale."

"Ma che ti prende? Sei matto?"

"No, non sono matto... arrivederci."

Quel giorno avevo un appuntamento con Giacinta; ma non ci andai. Rimasi disteso sul letto, nel sottoscala che mi affittava una sarta, con una voglia di pianto che non si decideva, come quando prude il naso e si vorrebbe starnutare e non si può. Verso sera, invece di piangere, mi addormentai; e quando mi svegliai mi accorsi che era proprio finita. Temevo, però, di restare disoccupato non si sa quanto. Invece, per fortuna, dopo pochi giorni trovai un posto di custode, in un cantiere fuori mano, dalle parti della Magliana.

Rimasi in quel cantiere, in campagna, a fare il cane da guardia, senza mai uscirne, forse quattro mesi. Ma una domenica che andai a Roma, a piazza Risorgimento, incontrai Silvestro. Appena mi vide mi disse: "Poi l'abbiamo saputo perché te ne sei andato... quella ragazza... ma hai fatto male... lei ti voleva bene sul serio, anzi ti voleva bene proprio perché eri tu e non un altro... diceva che lei, ormai, non avrebbe più amato che uno di noi... diceva che soltanto vedere un uomo col sacco sulle spalle e il berrettino della nettezza urbana, le faceva battere il cuore... diceva che per lei il carro della spazzatura era più bello che le macchine di lusso... morale: adesso se la fa con Ferdinando."

"Con Ferdinando?"

"Eh giа, voleva il mondezzaro e l'ha avuto... lui non lo nascondeva il suo mestiere anzi se ne vantava... sono fidanzati."

Me ne andai in tronco, lasciandolo a bocca aperta. Avrei voluto mordermi le mani. Per una volta che la conta si era fermata a me, anzi, come dice la filastrocca, "precisamente a me", non l'avevo capito. Tra tutte le donne, ero capitato su quella a cui piaceva il mestiere del mondezzaro e non l'avevo indovinato. Ah, nella vita, come si fa, si sbaglia; e così, ancora una volta, non era toccato a me.

 

FACCIA DI MASCALZONE

 

Non ricevo mai pacchi, ma uno di questi giorni voglio spedirmene uno per prendermi il gusto di andare alla posta, all'ufficio pacchi e ritirare il pacco. Perché lì, in quell'ufficio così brutto e così vecchio, tra le cataste di pacchi di ogni peso e di ogni genere, le macchie d'inchiostro, l'odore di chiuso e di segatura bagnata, lì, dico, è cominciata la mia fortuna. Non grande fortuna, intendiamoci, ma sempre meglio che distribuire pacchi.

Chissа se Valentina è ancora lа, nel suo grembiale nero, coi capelli castani ondulati sparsi sulle spalle come quelli delle bambine nei collegi a semiconvitto, gli occhi che sembrano due stelle tranquille, il viso palliduccio e tondo che il nero del grembiale sbatte e rende quasi livido? Con tutta la sua dolcezza, io so che Valentina è orgogliosa e, probabilmente, vedendomi apparire allo sportello, fingerebbe di non riconoscermi e si limiterebbe a porgermi lo scartafaccio delle ricevute, tutto strappato e macchiato, e a dirmi, indicandomi il punto con il suo dito rosa di ragazza seria che non si tinge le unghie: "Firmi qui." E poi mi butterebbe il pacco in faccia, senza neppure guardarmi; e se ne andrebbe nel retrobottega, tra gli scaffali pieni di pacchi, a leggersi uno dei suoi tanti giornaletti cinematografici.

Eppure la mia fortuna, come ho detto, è cominciata proprio in quell'ufficio; e per essere più precisi è cominciata proprio da Valentina; o per meglio dire dalla sua passione per il cinema. In quell'ufficio, io brutto e con la faccia tutta nera e storta, non pensavo che a distribuire pacchi, contento di farlo, dopo qualche anno di disoccupazione. Ma Valentina, con la sua faccia bella, non era contenta e pensava al cinema. Perché ci pensasse, non lo so; forse perché ci andava spesso; e c'è gente a cui basta andare al cinema per illudersi di poterne fare. Ma era fissata; e tra noi due non si parlò mai non dico di volersi bene, quantunque fossi un po' innamorato di lei e gliel'avessi anche detto, ma neppure di uscire insieme, foss'anche per sedersi in un caffè. Ci guardava dall'alto in basso tutti quanti, nell'ufficio, Valentina; e preferiva star sola piuttosto che farsi vedere in giro con noialtri, gente da poco. A me, poi, me lo disse un giorno, senza tanti complimenti: "Renato, con te non voglio uscire, perché ci hai una faccia troppo brutta."

"Ma quale faccia brutta?"

"Non ti offendere, lo so che sei una brava persona, ma hai la faccia, scusami, proprio del mascalzone."

Uno di quei giorni si affacciò allo sportello una testolina bionda, azzimata, con una cravatta a farfalla sotto il mento. Valentina prese la bolletta e si avviò pian piano verso gli scaffali. Ma quel giovanotto, ad un tratto, la richiamò: "Signorina."

Lei si voltò subito. "Signorina", disse quello, "nessuno le ha mai detto che potrebbe fare del cinema?"

Stavo in un canto, osservando, e vidi Valentina diventar rossa fino ai capelli: per la prima volta in vita sua era colorita: "No, nessuno, perché?"

"Perché" disse quello sempre con la stessa leggerezza "lei ci ha una gran bella faccia."

"Grazie", balbettò Valentina, ritta nel mezzo dell'ufficio, le mani riunite davanti. Ma il giovanotto, adesso, non pareva avere più niente da dire. Guardò ancora ben bene, un lungo momento, Valentina e poi riprese: "Beh, intanto, vada a prendermi quel pacco."

Lei ubbidì e io, senza parer di nulla, le andai dietro e la raggiunsi mentre, con mani tremanti, spostava i pacchi negli scaffali. Mi avvicinai e le sussurrai: "Mica gli crederai a quel bulletto?"Valentina, anche lei sussurrando, mi rispose: "Lasciami perdere."

"Allora tu gli credi?"

"Lasciami perdere, ti ho detto."

Poi trovò il pacco e lo portò al giovanotto che, intanto, aveva cavato la stilografica e aveva scritto qualche cosa su un biglietto. Lui ritirò il pacco e le diede il biglietto dicendo: "Venga martedì a quest'indirizzo, agli studi... abbiamo bisogno proprio di una faccia come la sua... domandi di me." Più morta che viva, Valentina si mise il biglietto nella tasca del grembiale e quello se ne andò.

Ho detto che Valentina non aveva mai voluto accettare i miei inviti. Ma quando venne il momento di recarsi agli studi, fu proprio a me che lei ricorse. "Accompagnami", disse la sera prima, "da sola non me la sento." Ancora oggi non so perché mi domandò di accompagnarla: forse per timidezza, perché era molto timida; o forse, sia pure senza rendersene conto, per sfregio, per farmi assistere al suo trionfo.

Martedì, all'appuntamento a piazzale Flaminio, Valentina si presentò tutta vestita come per la festa: un bel cappotto nuovo di lana blu, calze di seta, scarpe coi fiocchetti e, nella mano, un ombrellino rosso, anch'esso col fiocco. Il quarto fiocco se l'era annodato in cima alla testa, sui capelli che, al solito, portava sciolti per le spalle. Dico la veritа, vedendola così bellina, con quei suoi occhi dolci simili a due stelle, non potei fare a meno di provare un sentimento di affetto: "Sta' tranquilla" le dissi "ti prendono sicuro... all'ufficio non ti rivedremo più."

Gli studi erano sotto Monte Mario, in cima a una straduccia erbosa di campagna tutta allagata dal cattivo tempo. Percorremmo quel sentiero saltando da una pozza all'altra, in fondo si vedeva il muro di cinta e il cancello e i tetti dei capannoni degli studi che spuntavano al di sopra del muro. Il guardiano, aprendoci, disse non so che cosa; ma poi, intimiditi, non avemmo il coraggio di insistere e ci addentrammo nello spiazzo, sebbene non sapessimo dove avevamo da andare. Lo spiazzo era molto vasto, con tante macchine allineate per ogni lato, e c'erano gruppi di persone che passeggiavano per lo spiazzo e alcuni erano come noi, e altri invece erano vestiti in maniere buffe e avevano le facce tinte di color mattone. Io dissi allora a Valentina: "Quelli sono attori... presto anche tu passeggerai con quella tintarella sulla faccia."

Valentina non parlava, dalla gioia e dalla compunzione le era andata via la parola. Non sapevamo dove fossero gli studi, ma poi vedemmo certi numeri sulle porte dei capannoni e io, a caso, mi avvicinai a una di quelle porte, afferrai la maniglia e l'aprii: era una porta materassata, pesante quanto quella di una cassaforte. Entrai e Valentina mi venne dietro in punta di piedi. Adesso eravamo dentro lo studio, e si stava quasi al buio, salvo in un punto in cui una lampadina illuminava una costruzione bassa, che pareva di cartapesta, con un mezzo tetto di tegole sopra un mezzo muro di mattoni, con una mezza porta, e, attraverso la mezza porta, una mezza stanza, con una mezza parete e un mezzo letto. Una donna mezza nuda stava sdraiata sul letto e un fascio di luce bianca l'investiva e la donna si torceva le mani e un uomo le stava addosso, con il pugno alzato e un ginocchio sul letto. Dissi sottovoce a Valentina: "Vedi, recitano;" e in quello stesso momento un urlo: "silenzio", e mi fece fare un salto e mi sembrò che l'avessero detto a me. Ci avvicinammo e, allora, dietro a quel mezzo letto, scoprimmo la macchina da presa, con tanta gente raggruppata intorno; e altri stavano appollaiati su su, nel buio del capannone, come tante cornacchie; e quella povera attrice mezza nuda adesso doveva ricominciare a torcersi le mani e lui doveva ricominciare ad alzare il pugno. Poi un tale tirò fuori due pezzi di legno e li sbatté con un suono di nacchere e ci fu un altro urlaccio di silenzio e poi incominciò il ronzio della macchina da presa che filmava, filmava, e intanto l'attrice si torceva le mani sul letto e l'attore le dava finalmente quel pugno, ma sul serio, tanto che lei ebbe un gemito che secondo me non era finto. Così mi apparve lo studio la prima volta che ci entrai. E così dovette apparire a Valentina, poveretta, che l'aveva tante volte sognato e mai veduto.

Poi, al grido di "basta" il ronzio cessò, l'attrice si levò dal letto, le lampade si spensero e tutti si mossero e circolarono. Capii che era il momento buono, mi avvicinai ad un macchinista e gli domandai: "Per favore, il signor Zangarini."

"E chi è Zangarini?" domandò quello, da vero ignorante.

Rimasi smarrito. Per fortuna, un altro macchinista, più gentile, intervenne: "Zangarini... ma non è qui... è al teatro numero tre."

Uscimmo in fretta e, attraverso lo spiazzo, ci dirigemmo al teatro numero tre. Riaprimmo una di quelle porte così pesanti, entrammo in un capannone molto simile al primo. Ma qui non si girava: c'era molta luce e si vedevano parecchie persone che discutevano. Ci avvicinammo, ma non troppo, perché eravamo intimiditi e quelli facevano degli urli da belve e parevano arrabbiati sul serio. Uno magro come un chiodo, con gli occhiali cerchiati di tartaruga e un paio di baffi neri che gli ballavano sui denti bianchi, urlava dimenandosi: "Non va, non va, non va. E Zangarini, proprio lui, domandava: "Ma perché non va?"

L'uomo coi baffoni rispondeva, sempre urlando: "Ma perché è troppo buono... perché ci ha la faccia del buonuomo... e io invece voglio una faccia di delinquente, di teppista, di barabba."

"Prendi Proietti, allora."

"Ma no, ma no, anche lui è troppo buono... è una pasta, un pacioccone... non va, non va."

"Prendi Serafini."

"Ma non va, non va... Serafini non è buono, è un angelo, anzi un serafino... chi gli crede se fa il cattivo?... chi gli crede?" Capii che eravamo capitati male, ma tant'era: oramai eravamo nel ballo e dovevamo ballare. Colsi un momento che il regista, sempre smaniando e urlando, si era allontanato, mi avvicinai a Zangarini e gli dissi sottovoce: "Signor Zangarini, siamo venuti."

"Chi, siamo?" domandò lui con voce stizzita.

"La signorina Valentina", risposi facendomi da parte. Valentina si avanzò e fece un piccolo inchino. "La signorina dell'ufficio pacchi... lei le aveva detto di venire."

Zangarini doveva essersi dimenticato di ogni cosa. Poi guardò Valentina, parve ricordarsi e disse, sforzandosi di far la voce gentile: "Mi dispiace, signorina, ma non c'è nulla da fare per lei."

"Ma come, venerdì lei aveva detto che c'era bisogno di una ragazza proprio come questa."

"C'era... ma adesso non più: l'abbiamo trovata."

"Ma dica" feci scaldandomi "questa non è la maniera... farci venire qui e poi dirci che ne avete trovata un'altra."

"E che posso farci io?"

Stavo per rispondergli proprio male, quando ad un tratto, scoppiò un urlo: "È lui... è lui... eccolo quello che ci vuole."

Era il regista che mi stava addosso, puntandomi in petto l'indice, con occhi fiammeggianti. Domandai, imbarazzato: "Ma chi, lui?" E il regista: "Lei è un mascalzone, uno sfruttatore di donne, un teppista, un magnaccia, nevvero?... dica, lei è un mascalzone?"

"Guardi come parla" risposi offeso, "sono un funzionario statale... mi chiamo Renato Parigini."

"No, lei è il mascalzone di cui avevamo bisogno, lei, con quella faccia lì, è proprio il mascalzone che cercavo... lei è il mascalzone." Insomma per farla breve, Zangarini intervenne e mi spiegò che stavano appunto cercando una faccia di mascalzone per una particina di contorno; che la faccia mia faceva proprio al caso loro; e così, se volevo, potevo passare quel giorno stesso per il provino. E Valentina? "No, niente da fare, ne abbiamo quante ne vogliamo", urlò il regista al colmo dell'entusiasmo. Ma poi, vedendo che Valentina aveva gli occhi pieni di lagrime, si corresse e soggiunse con voce affettuosa: "Signorina, oggi avevamo bisogno di una faccia di mascalzone e l'abbiamo trovata... quando avremo bisogno di una faccia di angelo, penseremo a lei."

Così, ce ne andammo. Ma appena fuori degli studi, nel sentiero erboso, Valentina si staccò da me e non disse più nulla. Alla fermata del tram, sulla pedana, c'era la solita folla e lei si guardò intorno smarrita. Dovette sembrarle un'umiliazione di prendere il tram, da poveretta, dopo aver sognato la ricchezza, perché, improvvisamente, disse: "Ciao, Renato... prendo un taxi perché ho fretta... non ti dico di venire perché abitiamo in due parti opposte." E senza lasciarmi il tempo di rifiatare, si allontanò, con tutti i suoi fiocchetti, attraverso la strada allagata, verso i taxi.

Non l'ho più rivista perché il giorno dopo non andai all'ufficio e feci il provino e questo provino andò bene e cominciai a lavorare negli studi e da allora, più o meno, non ho mai smesso. Sono specializzato in particine di sfondo, anche mute, di teppista, sfruttatore di donne, baro, ladruncolo, e simili. Da ultimo ho saputo da un antico compagno dell'ufficio pacchi che ho incontrato per strada, che Valentina si è fidanzata con un impiegato del fermo posta, quattro sportelli più in lа del suo.

 

UN UOMO SFORTUNATO

 

La sfortuna mi perseguita e sicuramente, il giorno della mia nascita, c'era in cielo qualche cattiva stella o cometa o altro astro maligno. Ricordo di aver conosciuto, qualche tempo fa, un meccanico che era stato a lavorare in Francia e poi ne era tornato; e diceva anche lui di essere sfortunato. Quel meccanico si mise insieme con certi giovanotti: andavano in giro la notte con una macchina, attaccavano una catena alle saracinesche e poi mettevano in moto la macchina e la saracinesca saltava fuori e si arrotolava e loro entravano nei negozi e rubavano. Bene, quel meccanico aveva una ghigliottina tatuata sul petto e, sopra, la scritta: "Pas de chance", che in francese, appunto vuol dire: niente fortuna. Muovendo lui i muscoli del petto, sembrava che il coltello della ghigliottina cadesse giù e lui diceva che quella sarebbe stata la sua fine. A dire il vero non finì sulla ghigliottina, ma si buscò cinque anni di prigione. Ora, anch'io dovrei avere una scritta simile sul petto o addirittura sulla fronte: niente fortuna. Tutti fanno quello che ho fatto ma agli altri va bene e a me no. Dunque sono sfortunato e certamente qualcuno mi vuole male o addirittura il mondo intero ce l'ha con me.


Дата добавления: 2015-10-21; просмотров: 22 | Нарушение авторских прав







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