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Collana: Tascabili Bompiani 19 страница



E io prim'ancora di averci pensato, risposi: "Te lo do ma ad un patto."

Insomma, facemmo l'amore in terra, tra quelle due colline alte, presso il ruscello. Il cane, intanto, leccava l'acqua nel ruscello con la sua lingua violetta e poi si mise a sedere sull'erba, poco discosto da noi, e rimase lì a guardarci, che perfino mi dava soggezione. E io feci quello che feci non soltanto perché quella donna mi piaceva ma anche perché mi piaceva dar via il cane per il prezzo di un po' d'amore: perché mi ero affezionato a lui e mi sembrava che così fosse stato pagato per quello che valeva. Alla fine ci rialzammo e Fesseria prese la funicella del cane dicendo: "Lui sarа contento perché gli ricorda il suo paese." Io rimasi dov'ero guardandola mentre si allontanava col cane, e ancora mi piaceva. Poi mi distesi in terra e dormii un paio d'ore.

La mattina dopo andai in cittа e vi rimasi anche la notte, con un bassotto che avevo preso dalle parti di piazza Santiago del Cile. Dormii in un dormitorio pubblico e poi tornai a Tormarancio. Più tardi, nel pomeriggio, andai a spasso con il bassotto e, non so come, capitai davanti la baracca del cinese.

Fesseria non c'era, doveva essere andata a Roma. Ma lui c'era e venne fuori con una secchiata di immondizie che gettò dietro la baracca. Non so perché avrei voluto che mi ringraziasse per il cane e gli domandai dove fosse. Lui sorrise e mi fece un gesto che non capii e poi tornò nella baracca. Il bassotto frugava nella spazzatura, io mi avvicinai, e allora vidi, tra le cartacce e i torsoli, la zampetta del cane, sporca di sangue ma con tutto il pelo.

Poi mi fu spiegato che al paese loro i cani li mangiano e tutti lo fanno e non c'è nulla di male. Ma in quel momento mi salì il sangue alla testa; entrai nella baracca, lui stava voltato, frugando nel fornello. Si girò sorridendo, con un piatto che conteneva certa carne scura in un intingolo; e compresi che era carne del cane e che lui me la offriva affinché la mangiassi. Con un pugno gli mandai il piatto in faccia, urlando: "Assassino, che hai fatto al cane?", e subito mi resi conto che lui non capiva perché fossi tanto in collera. Mi sfuggì, uscì dalla baracca e prese a correre verso Tormarancio. Io raccolsi un selcio e glielo tirai e poi lo rincorsi e lo presi per il collo. Venne fuori tanta gente; e lui, con la faccia stupita e tutta imbrattata di sugo di carne, ripeteva: "Tenetelo, è pazzo;" e io lo scuotevo per il collo e urlavo che non avevo più voce: "Che hai fatto al cane?... Assassino... Che hai fatto al cane?" Finalmente ci separarono; e Bonifazi e gli altri mi fecero salire sulla camionetta che andava a Roma. Quel giorno stesso riportai ai padroni il bassotto e mi diedero la mancia. Ma non tornai a Tormarancio. Non possedevo nulla e da Bonifazi non ci avevo lasciato nulla. Gli dovevo una mesata e pensai che non tutto il male vien per nuocere. D'altronde questa storia del cane cinese mi aveva disgustato del mestiere e decisi di cambiare. Mi feci venditore ambulante, andando in giro con un carrettino pieno di un po' di tutto: olive dolci, semi di popone, castagne secche, noccioline americane, fichi secchi e noci. Facevo cartoccetti tutto il giorno, al ponte nuovo, all'imbocco del traforo del Gianicolo e riuscivo sì e no a campare. In quel tempo ero sempre triste e la vita non mi diceva niente, forse per via del cane. Una volta sola vidi Fesseria, di lontano, ma non le parlai: se mi avesse detto che anche lei aveva mangiato il cane, credo che l'avrei ammazzata.

 

MARIO

 

Fu così. Di mattina presto, mi alzai che Filomena ancora dormiva, presi la borsa dei ferri, uscii di soppiatto di casa e andai a Monte Parioli, in via Gramsci, dove c'era uno scaldabagno che buttava. Quanto tempo ci avrò messo per fare la riparazione? Certo un paio d'ore perché dovetti smontare e rimontare il tubo. Finito il lavoro, con l'autobus e con il tram tornai a via dei Coronari, dove ho casa e bottega. Notate il tempo: due ore a Monte Parioli, mezz'ora per andarci, mezz'ora per tornare: tre ore in tutto. Che sono tre ore? molto e poco, dico io, secondo i casi. Io ci avevo messo tre ore per rimettere a posto un tubo di piombo; qualcun altro, invece...



Ma andiamo per ordine. Alla imboccatura di via dei Coronari, mentre camminavo svelto lungo i muri, mi sentii chiamare per nome. Mi voltai: era Fede, la vecchia affittacamere che sta di casa di fronte a noi. Questa Fede, poveretta, ha due gambe così grosse, per via della podagra, che manco un elefante. Mi disse, tutta affannosa: "Che scirocco, oggi... vai in su? mi dai una mano per la sporta?"

Risposi che l'avrei fatto volentieri. Mi passai la borsa dei ferri sull'altra spalla e afferrai la sporta. Lei prese a camminarmi accanto, trascinando quelle due colonne di gambe sotto la palandrana. Dopo un poco, domandò: "E Filomena dov'è?"

Risposi: "Dov'ha da essere? A casa."

"Giа, a casa" disse lei a testa china "si capisce."

Domandai, tanto per parlare: "Perché si capisce?"

E lei: "Si capisce... eh, povero figlio mio."

Insospettito, lasciai passare un momento e poi insistetti: "Perché povero figlio mio?"

"Perché mi fai compassione", disse quella befana senza guardarmi.

"E cioè?"

"E cioè non sono più i tempi di una volta... le donne oggi non sono più come al tempo mio."

"Perché?"

"Al tempo mio, uno poteva lasciare la sposa a casa, tranquillo... come la lasciava, così la ritrovava... oggi invece..."

"Invece?"

"Oggi non è così... basta... ridammi la sporta: grazie tanto."

Ormai tutta la gioia di quella bella mattinata mi era andata in veleno. Dissi, tirando indietro la sporta: "Non ve la do se non vi spiegate... che c'entra Filomena in tutto questo?"

"Io non so nulla", disse lei "ma, uomo avvisato mezzo salvato."

"Ma insomma" gridai "che ha fatto Filomena?"

"Domandalo ad Adalgisa", rispose lei; e questa volta acchiappò la sporta e si allontanò con un'agilitа che non le conoscevo, quasi correndo nella sua palandrana lunga.

Pensai che non era più il caso di andare a bottega, e feci dietro-front per cercare Adalgisa. Per fortuna stava anche lei in via dei Coronari. Adalgisa ed io eravamo stati fidanzati prima che incontrassi Filomena. Era rimasta zitella e sospettavo che quella storia su Filomena l'avesse inventata proprio lei. Salii quattro piani, bussai forte col pugno, per poco non la presi in faccia poiché lei aprì la porta di botto. Aveva le maniche rimboccate, teneva in mano una scopa. Disse secca secca: "Gino, che vuoi?"

Adalgisa è una ragazza non tanto grande, piacente, ma con la testa un po' grossa e il mento in fuori. Per via del mento, la chiamano scucchiona. Ma non bisogna dirglielo. Io, inviperito, invece glielo dissi: "Sei stata tu, scucchiona, a raccontare in giro che Filomena, mentre sto a bottega, fa non so che in casa?"

Lei mi fissò con due occhi arrabbiati: "L'hai voluta, Filomena... mo' te la tieni."

Entrai e l'acchiappai per un braccio. Ma glielo lasciai subito perché lei mi guardò quasi con speranza. Dissi: "Dunque sei stata tu?"

"Io non sono stata... come l'ho avuta, così l'ho data."

"E chi te l'ha data?"

"Giannina."

Non dissi nulla e feci per uscire. Ma lei mi trattenne e soggiunse guardandomi, provocante: "E non chiamarmi più scucchiona."

"E che, non ce l'hai la scucchia?" risposi liberandomi e scendendo la scala a rompicollo.

"Meglio la scucchia che le corna", gridò lei affacciandosi alla ringhiera.

Ora cominciavo a sentirmi male. Non mi pareva possibile che Filomena mi tradisse, visto che in tre anni che eravamo sposati lei non aveva fatto che ricoprirmi di tenerezze. Ma guarda che cos'è la gelosia. Proprio queste tenerezze, alla luce dei discorsi di Fede e di Adalgisa, mi sembravano una prova di tradimento. Basta, Giannina era cassiera in un bar lì accanto, sempre in via dei Coronari. Giannina è una bionda linfatica, coi capelli lisci e gli occhi di porcellana azzurra. Calma, lenta, riflessiva. Andai alla cassa e le sussurrai: "Di' un po', sei stata tu a inventare che Filomena, quando non ci sono, riceve gente in casa?"

Lei stava dando retta ad un cliente. Batté con le dita sui tasti della macchina contabile, staccò il biglietto, annunziò, senza alzare la voce: "Due espressi...;" quindi domandò, tranquilla: "Che mi dici, Gino?" Ripetei la domanda. Lei porse il resto al cliente e poi rispose: "Per caritа Gino, ti pare che inventi una cosa simile su Filomena... la mia migliore amica?"

"Allora Adalgisa se l'è sognato."

"No" corresse lei "no... non se l'è sognato... ma io non l'ho inventato... l'ho ripetuto."

"Che buon'amica", non potei fare a meno di esclamare.

"Ma ho anche detto che non ci credevo... questo, certo, Adalgisa non te l'ha detto."

"E a te, chi te l'aveva raccontato?"

"Vincenzina... è venuta apposta dalla stireria per farmelo sapere." Uscii senza salutarla e andai dirimpetto, alla stireria. Dalla strada potei subito vedere Vincenzina, ritta in piedi davanti al tavolo, che pesava con le due braccia sul ferro, stirando. Vincenzina è una ragazza minuscola, con un viso schiacciato, come di gatto, bruna bruna, vivace. Sapevo che aveva un debole per me e, infatti, a un cenno che le feci col dito, lasciò subito il ferro e venne fuori. Disse, speranzosa: "Gino, beato chi ti vede."

Risposi: "Strega, è vero che vai dicendo in giro che Filomena, mentre sto a bottega, riceve gli uomini in casa?"

E lei, un po' delusa, dondolandosi, le mani nelle tasche del grembiale: "Ti dispiacerebbe?"

"Rispondi" insistetti: "sei stata tu a inventare quest'infamia?"

"Uh, quanto sei geloso" disse lei alzando le spalle "che sarа? una donna ora non potrа far quattro chiacchiere con un amico..."

"Dunque sei stata tu."

"Senti, mi fai compassione" disse ad un tratto quella vipera; "che vuoi che me ne importi di tua moglie... io non ho inventato niente... me l'ha detto Agnese... lei sa anche il nome di lui."

"Come si chiama?"

"Fattelo dire da lei."

Ormai ero sicuro che Filomena mi tradiva. Si sapeva anche il nome. Pensai involontariamente: "Per fortuna nella borsa non ho alcun ferro grosso, altrimenti potrei perder la testa e ammazzarla." Non riuscivo a capacitarmi: Filomena, mia moglie, con un altro. Entrai nella tabaccheria dove Agnese vendeva le sigarette per conto del padre. Gettai il denaro sul banco, dicendo: "Due nazionali."

Agnese è una ragazzetta di diciassette anni, con una foresta di capelli crespi e secchi ritti sulla testa. La faccia l'ha gonfia, infarinata di cipria rosa, pallida, senza colori, con due occhi neri come due bacche di lauro. La conoscevo come la conoscono tutti, in via dei Coronari. E come lo sapevano tutti, così sapevo anch'io che era interessata, capace, per denaro, di vendersi l'anima. Mentre mi dava le sigarette, mi chinai e le domandai: "Di' un po' come si chiama?"

"Ma chi?" rispose lei stupita.

"L'amico di mia moglie."

Mi guardò esterrefatta: dovevo avere una brutta faccia. Disse subito: "Io non so niente."

Cercai di sorridere: "Via, dimmelo... lo sanno tutti ormai, io soltanto non lo so."

Mi guardava fisso, scuotendo il capo; allora soggiunsi: "Guarda, se me lo dici ti do questo." E cavai di tasca un foglio da mille che avevo avuto quel mattino per la riparazione.

Alla vista del denaro, lei si turbò, manco le avessi parlato d'amore. Il labbro le tremò, si guardò intorno e poi mise la mano sul foglio, dicendo piano: "Mario."

"E tu come l'hai saputo?"

"Dalla tua portiera."

Dunque era proprio vero. Come nel gioco del freddo e del caldo, adesso eravamo giа nel mio palazzo. Presto saremmo stati nel mio appartamento. Uscii dalla tabaccheria e corsi a casa mia, qualche portone più in lа. Intanto ripetevo: "Mario", e a quel nome tutti i Mario che conoscevo mi sfilavano davanti gli occhi: Mario il lattaio, Mario l'ebanista, Mario il fruttivendolo, Mario che era stato soldato e ora era disoccupato, Mario il figlio dei norcino, Mario, Mario, Mario... A Roma i Marii saranno un milione e a via dei Coronari ce ne saranno cento. Entrai nel portone di casa mia, andai difilato alla bussola della portiera. Vecchia e baffuta come Fede, stava a gambe larghe, un braciere tra i piedi e un mucchio di cicoria da capare in grembo. Domandai, affacciandomi: "Dite un po' l'avete inventato voi che Filomena, in mia assenza, riceve un certo Mario?"

Irritata rispose subito: "Ma chi si inventa niente? è tua moglie che me l'ha detto."

"Filomena?"

"Giа... mi ha detto: deve venire un giovanotto così e così che si chiama Mario... se Gino è in casa, digli che non salga... ma se Gino non c'è, fallo pure salire... ora è su."

"È su?"

"E come... è salito che sarа quasi un'ora."

Dunque, non soltanto Mario esisteva, ma adesso stava con Filomena, in casa, da un'ora. Mi gettai per le scale, salii di corsa tre piani, bussai. Filomena stessa venne ad aprirmi: e subito notai che lei, sempre così placida e serena, sembrava spaventata. Dissi: "Brava... quando non ci sono, ricevi Mario."

"Ma quando mai?..." incominciò lei.

"So tutto", gridai; e feci per entrare. Allora lei mi sbarrò il passo dicendo: "Lascia perdere... che te ne importa? Torna più tardi."

Questa volta non ci vidi più. Le diedi uno schiaffo gridando: "Ah, è così, non deve importarmi?;" e poi, con una spinta la misi da parte e corsi in cucina.

Accidenti alle chiacchiere delle donne e accidenti alle donne. C'era, sì, Mario, seduto al tavolo, in atto di bere il caffèllatte, ma non era Mario l'ebanista, né Mario il fruttivendolo, né Mario il figlio del norcino, né insomma alcuno dei tanti Marii a cui avevo pensato per strada. Era semplicemente Mario il fratello di Filomena che era stato in galera due anni per furto con scasso. Io, sapendo che un giorno sarebbe uscito, le avevo detto: "Guarda che in casa mia non ce lo voglio... non voglio neppure sentirne parlare." Ma lei, poveretta, che al fratello voleva bene con tutto che fosse ladro, aveva voluto riceverlo lo stesso in mia assenza. Mario, vedendomi così fuori di me, si era alzato in piedi. Dissi, ansimante: "Addio, Mario."

"Me ne vado" disse lui, moscio. "Non aver paura... me ne vado... eh che sarа?... manco fossi appestato."

Sentivo Filomena nel corridoio che singhiozzava e adesso mi vergognavo di quello che avevo fatto. Dissi, confuso: "No, rimani... per oggi rimani... rimani a colazione... non è vero Filomena" soggiunsi rivolto a lei che si era affacciata sulla soglia asciugandosi le lagrime "che Mario può rimanere a colazione?" Basta, rimediai alla meglio, e poi andai in camera da letto, ci chiamai Filomena, le diedi un bacio e facemmo pace. Restava, però, il fatto delle chiacchiere. Esitai e poi dissi a Mario: "Andiamo, Mario... vieni a bottega: può darsi che il padrone qualche cosa ti faccia fare." Lui mi seguì; quando fummo per le scale soggiunsi: "Nessuno ti conosce qui... tu, in questi anni, sei stato a lavorare a Milano... intesi?"

"Intesi." Scendemmo la scala. Come fummo davanti la bussola della portineria, presi Mario per un braccio e lo presentai, dicendo: "Questo è Mario... mio cognato... viene da Milano... ora starа qui con noi."

"Piacere, piacere, piacere."

"Il piacere è tutto mio", pensai uscendo per la strada. Per le chiacchiere delle donne, ci avevo rimesso mille lire; e adesso, per giunta, ci avevo anche il ladruncolo in casa.

 

GLI AMICI SENZA SOLDI

 

Se ne dicono tante sull'amicizia, ma, insomma, che vuol dire essere amico? Basterа, come feci io, per cinque anni di seguito, vedere al bar di piazza Mastai sempre lo stesso gruppo, far la partita sempre con gli stessi giocatori, discutere di calcio sempre con gli stessi tifosi, andare insieme in gita, allo stadio, a fiume, mangiare e bere insieme alla stessa osteria? Oppure bisognerа, d'ora in poi, dormire nello stesso letto, mangiare con lo stesso cucchiaio, soffiarsi il naso nello stesso fazzoletto? Io, più ci penso a questa faccenda dell'amicizia, e più ci perdo la testa. Crediamo per anni e anni di essere intimi, pappa e ciccia come si dice, di volerci bene, di esser fratelli. E poi, tutto a un tratto, scopriamo invece che gli altri avevano tenuto le debite distanze e ci criticavano e magari ci avevano sulle corna e, insomma, non provavano per noi non dico il sentimento dell'amicizia ma neppure quello della simpatia. Ma allora, dico io, l'amicizia sarebbe un'abitudine come prendere il caffè o comprare il giornale; una comoditа come la poltrona o il letto; un passatempo come il cinema e la foglietta? Ma se è così perché la chiamano amicizia e non la chiamano piuttosto in un altro modo?

Basta, io sono un uomo tutto cuore, di quelli che non credono al male. Così, quell'inverno, dopo aver avuto la polmonite, tra il medico che mi diceva che dovevo passare un mese almeno al mare, e i soldi che non c'erano perché tutti i pochi risparmi se ne erano andati in medici e cure, dissi alla mamma che quelle trentamila lire che ci volevano me le sarei fatte prestare dagli amici del bar di piazza Mastai. La mamma non è come me: tanto io sono entusiasta, credulo, avventato, altrettanto lei è scettica, amara, prudente. Così, quel giorno, mi rispose, senza voltarsi dal fornello: "Ma quali amici, se durante la malattia non è venuto a trovarti neppure un cane?"

Rimasi turbato dalla frase, perché era la veritа ma subito mi riebbi spiegando che era tutta gente molto occupata. Lei scosse la testa, ma non disse nulla. Era la sera, l'ora in cui si riunivano tutti al bar. Mi coprii ben bene, perché era la prima volta che uscivo, e ci andai.

Avvicinandomi al bar, con le gambe che non mi reggevano dalla gran debolezza, dico la veritа, sorridevo mio malgrado e sentivo che quel sorriso mi illuminava come un raggio di sole la faccia smunta e sbiancata dalla malattia. Sorridevo di allegria anticipata perché mi figuravo la scena: io che apparivo sulla soglia, loro che mi guardavano un momento e poi si alzavano tutti insieme e mi venivano incontro; e chi mi batteva una mano sulla spalla, chi mi chiedeva notizie della salute, chi mi raccontava quello che era successo in mia assenza. Mi accorgevo, insomma, da quel sorriso, di voler bene agli amici; e quell'incontro mi faceva trepidare un po' come quando si rivede, dopo molto tempo, una donna amata. Provavo il sentimento dell'amicizia e, come succede, quel che provavo mi pareva che dovessero provarlo anche gli altri.

Come mi affacciai al bar vidi, invece, che era deserto. Non c'erano che il barista, Saverio, intento a pulire il banco e la vaporiera, e Mario, il padrone, che leggeva il giornale, seduto alla cassa. La radio aperta suonava in sordina un ballabile. Con Mario, un giovanottone grande e moscio, con la testa piccola, e gli occhi di donna sempre pesti e languidi, eravamo, si può dire, fratelli. Eravamo cresciuti insieme nella stessa strada, eravamo andati a scuola insieme, eravamo stati sotto le armi insieme. Felice, trepidante, mi avvicinai a lui che leggeva e dissi in un soffio, che, un po' per la debolezza e un po' per la gioia, quasi mi mancava la voce: "Mario..."

"Oh, Gigi", fece lui alzando gli occhi, con voce normale, "chi non muore si rivede... che hai avuto?"

"La polmonite e sono stato tanto male... ho dovuto fare la penicillina... non ti dico quello che ho passato."

"Ma davvero?", disse lui ripiegando il giornale e guardandomi, "si vede... sei un po' sbattuto... ma ora sei guarito?"

"Sì, sono guarito... per modo di dire, però... non mi reggo in piedi... il dottore dice che dovrei andare per un mese almeno al mare..."

"Ha ragione... sono malattie pericolose... prendi un caffè?"

"Grazie... e gli amici?"

"Saverio, un caffè forte per Gigi... Gli amici? Sono usciti proprio ora per andare al cinema."

Adesso aveva aperto di nuovo il giornale, come desideroso di riprendere la lettura. Dissi: "Mario..."

"Che c'è?"

"Guarda, dovresti farmi un favore... per passare un mese al mare ci vogliono quattrini... io non li ho... potresti prestarmi diecimila lire? Appena ricomincerò con le mediazioni, te le renderò."

Lui mi guardò con quei suoi occhi neri e languidi, un lungo momento. Poi disse: "Vediamo", e aprì il cassettino della macchina contabile. "Guarda", disse poi mostrandomi il cassetto quasi vuoto, "proprio non li ho... ho fatto un pagamento poco fa... mi dispiace."

"Come non li hai?" dissi sperduto, "diecimila lire non sono molte..."

"Anzi, sono poche", disse lui, "ma avercele." Come per una improvvisa ispirazione, levò gli occhi verso il banco e gridò: "Saverio, ci avresti diecimila lire da prestare a Gigi?" Il barista, un poveruomo con famiglia, naturalmente rispose. "Signor Mario... io, diecimila lire?" Allora Mario si voltò verso di me e disse: "Sai chi può prestartele? Egisto... lui ci ha il negozio che gli rende... lui te le presta di certo." Non dissi nulla: ero gelato. Ma, per la forma, bevvi il caffè e poi volli pagarlo io. Lui capì e disse: "Mi rincresce, sai..."

"Figurati", risposi, e uscii.

Egisto era un altro di questi cari amici che avevo veduto tutti i giorni per anni. Il mattino dopo, presto, uscii di casa e andai da Egisto. Aveva un negozio di mobili usati dietro piazza Navona, in via di Parione. Come giunsi davanti al negozio, lo vidi subito attraverso i vetri della porta, ritto in piedi tra cataste di seggiole e di panchetti, sullo sfondo di un comò, in cappotto, con il bavero rialzato sulla nuca e le mani in tasca. Egisto era un tipo proprio comune: né alto né basso, né magro né grasso, con una faccia prudente e infastidita. Aveva sempre ora un occhio ora l'altro, rosso e mezzo chiuso, per qualche orzarolo; e si mangiava le unghie, a fondo, fino alla carne. Sebbene mi sentissi giа meno entusiasta, pure quando chiamai "Egisto" c'era ancora un fremito di gioia nella mia voce. Lui disse: "Addio Gigi", freddamente; ma non ci feci caso perché sapevo che aveva un carattere freddo. Entrai e dissi francamente: "Egisto, sono venuto per chiederti un favore."

Lui rispose: "Intanto chiudi la porta perché fa freddo." Chiusi la porta e ripetei la frase. Lui andò in fondo al negozio, in un angolo buio dove c'era una vecchia scrivania e una seggiola e sedette dicendo: "Ma tu sei stato male... raccontami un po'... che hai avuto?"

Capii dal tono che voleva parlare della malattia per evitare il discorso sul favore che stavo per chiedergli. Tagliai corto rispondendo seccamente: "Ho avuto la polmonite."

"Ma davvero?... E lo dici così? Racconta un po'..."

"Non è di questo che volevo parlarti", dissi; "il favore piuttosto... avrei bisogno urgente di quindicimila lire... prestamele: tra un mese te le restituisco." Avevo aumentato la somma perché, venuto meno Mario, ormai erano in due soltanto che potevano prestarmele.

Lui prese subito a rosicchiarsi l'unghia dell'indice e poi attaccò quella del medio. Finalmente disse, senza guardarmi: "Quindicimila lire non posso prestartele... ma posso indicarti la maniera di guadagnare cinquecento lire al giorno e anche mille, senza fatica."

Lo guardai, confesso, quasi con speranza: "E come?"

Lui aprì il cassetto della scrivania, ne cavò un ritaglio di giornale e me lo porse dicendo: "Leggi qui." Lo presi e lessi: Da cinquecento a mille al giorno guadagnerete senza fatica, a domicilio, fabbricando oggetto artistico ricorrenza anno santo. Inviare cinquecento lire casella postale ecc. ecc.

Per un momento rimasi a bocca aperta. Bisogna sapere che quell'annunzio lo conoscevo giа: si trattava di certi furboni di provincia che sfruttavano la credulitа dei poveretti. Mandavate cinquecento lire e ricevevate in cambio un modellino di carta con i buchi da ripassare all'inchiostro di Cina, sulle cartoline postali. Veniva fuori il profilo di San Pietro. Poi bisognava piazzare le cartoline, e loro dicevano che, data la grande affluenza dei pellegrini, se ne potevano vendere facilmente da cinquanta a cento al giorno, a cinquanta lire l'una. Gli restituii il ritaglio osservando: "Ti credevo un amico."

Lui adesso si mangiava l'unghia dell'anulare. Rispose senza alzare gli occhi: "E lo sono..."

"Ciao, Egisto..."

"Ciao, Gigi."

Da via di Parione andai a prendere l'autobus in corso Vittorio e mi recai in via dei Quattro Santi Coronati. Lì stava l'altro amico sul quale avevo contato per il prestito: Attilio. Era il terzo e l'ultimo perché gli altri del gruppo erano poveretti che, anche se l'avessero voluto, non avrebbero potuto prestarmi un centesimo. Io avevo calcolato bene, come potete vedere: Mario possedeva il bar ben avviato, Egisto trafficava non so quanto con il suo negozio di mobili usati, e quest'Attilio, poi, addirittura, saccheggiava con un garage, affittando macchine e facendo riparazioni. Anche con lui ero, si può dire, fratello: perfino gli avevo tenuto a battesimo la bambina. Lo trovai disteso sotto una macchina, sul marciapiede, la testa e il petto sotto e le gambe fuori. Lo chiamai: "Attilio", ma questa volta la mia voce non aveva più alcun tremito. Lui armeggiò ancora un momento e poi venne fuori pian piano, asciugandosi la faccia tutta sporca di olio di motore con la manica della tuta. Era un uomo tarchiato, con una faccia fosca, color del pane crudo, gli occhi piccoli, la fronte bassa, e una vecchia cicatrice sul sopracciglio destro. Disse subito: "Guarda, Gigi che se è per una macchina, niente da fare... le ho tutte fuori e la giardiniera è in riparazione."

Risposi: "Non si tratta di una macchina... sono venuto per chiederti un favore: prestami venticinquemila lire."

Mi guardò accigliato, e poi disse: "Venticinquemila lire... te le do subito... aspetta;" e io rimasi sbalordito perché ormai non ci avevo più sperato. Andò lentamente alla giubba appesa a un chiodo dentro il garage, ne trasse il portafogli e poi tornò verso di me, domandando: "Le vuoi in biglietti da mille oppure in biglietti da cinquemila?"

"Come ti fa più comodo; non importa." Mi guardava fisso, con una faccia che pareva gonfia di non capivo che minaccia. Insistette: "O forse le vuoi in parte in biglietti da cento?..."

"Grazie, in biglietti da mille va bene."

"Ma forse", disse come preso ad un tratto da un sospetto. "te ne servono trentamila... se ti servono, dillo pure, non aver paura."

"Beh, hai indovinato, facciamo trentamila... è proprio la somma che mi serve."

"Para la mano."

Tesi la mano. Allora lui fece un passo indietro e disse con una voce truce: "Ma di' la veritа, ci hai creduto, povero cocco, che il denaro che fatico tanto a guadagnare, io debba spenderlo per uno sfaccendato come te... ci hai creduto eh? Ma ti sei sbagliato."

"Ma io..."

"Ma tu sei scemo... manco cento lire... lavora, datti da fare invece di passare il tempo al caffè..."

"Potevi dirmelo subito", incominciai inferocito, "non si fa così..."


Дата добавления: 2015-10-21; просмотров: 28 | Нарушение авторских прав







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