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Collana: Tascabili Bompiani 15 страница



Allora mi voltai verso Lorusso e gli dissi: "Ecco quello che ci vuole per noi... sono andati nella serra per stare tranquilli... Noi adesso ci presentiamo come agenti in borghese... fingiamo di elevare contravvenzioni e gli portiamo via i soldi." Lorusso buttò via la sigaretta, saltò giù dal parapetto e mi disse: "Sì, ma la ragazza la voglio io." Rimasi di stucco e domandai: "Ma che dici?" Lui ripeté: "La ragazza la voglio io... non capisci?... Insomma: me la voglio fare." Allora capii e dissi: "Ma che, sei scemo?... Gli agenti in borghese mica le toccano le donne." E lui: "E a me che me ne importa?" Aveva una voce curiosa, come strangolata, e sebbene non gli vedessi il viso, capii dalla voce che faceva sul serio. Risposi risolutamente: "In tal caso non ne facciamo nulla."

"Ma perché?"

"Perché no... con me le donne non si toccano."

"E se io volessi?"

"Ti prenderei a schiaffi, come è vero Dio." Stavamo lì, presso il parapetto, naso a naso, litigando. Lui disse: "Sei un vigliacco." E io secco: "E tu un cretino." Allora lui, per la rabbia di quella voglia di donna che gli impedivo di sfogare, disse ad un tratto: "Va bene, la ragazza non la tocco... ma l'uomo lo faccio fuori."

"Ma perché? cretino che sei... perché?"

"Così, o la ragazza o l'uomo." Intanto il tempo passava, io fremevo perché un'occasione come quella non poteva tornare più, e, alla fine dissi: "Sta bene... se è necessario... ma vuol dire che lo farai fuori soltanto se io farò un gesto così," e mi passai la mano sulla fronte. Chissа perché, forse perché era proprio stupido, Lorusso accettò subito e rispose che era d'accordo. Gli feci ripetere la promessa di non muoversi se non facevo il segnale e quindi spingemmo il cancello ed entrammo anche noi nel recinto. Da una parte, contro il parapetto, c'era quel piccolo tram che, di giorno, tirato da un somarello, porta a spasso i bambini per i viali del Pincio. Nell'angolo, tra il parapetto e il cancello c'era un fanale e stendeva la sua luce, attraverso il recinto e i vetri, fin dentro la serra. Si vedevano, nella serra, tanti vasi allineati in ordine, secondo grandezza e, dietro i vasi, parecchi di quei busti di marmo, posati in terra, buffi a vedersi così bianchi e immobili, come persone che venissero fuori dal suolo soltanto con il petto. Per un momento non vidi la coppia, poi indovinai che era in fondo alla serra, fuori della luce del fanale. Era un angolo buio, ma la ragazza stava in parte nel raggio del fanale, e io capii che c'era dalla mano bianca che lei lasciava penzolare inerte, durante il bacio, sullo sfondo scuro della veste. Allora spinsi la porta dicendo: "Chi è lа... che fate qui?" Subito l'uomo venne avanti con decisione, mentre la donna restava nell'angolo, forse nella speranza di non essere veduta. Era un giovanotto basso, con la testa grossa e quasi senza collo, la faccia gonfia, gli occhi a fior di pelle e le labbra sporgenti. Sicuro di sé lo vidi subito, e antipatico. Meccanicamente abbassai gli occhi versò i piedi e gli guardai le scarpe e vidi che erano nuove, di quelle che piacciono a me, all'americana, con la suola di para e le cuciture uso mocassino. Non pareva affatto spaventato e questo mi dava sui nervi così che la faccia mi saltava più che mai per il tic. Lui domandò: "E voi chi siete?"

 

"Questura", risposi "non lo sapete che è proibito baciarsi nei luoghi pubblici? Siete in contravvenzione... e voi signorina fatevi pure avanti... è inutile che cerchiate di nascondervi."

Lei ubbidì e venne a mettersi accanto all'amico. Era, come ho detto, un po' più alta di lui, sottile, con la vitina e la gonna nera scampanata che le scendeva fino a mezza gamba. Era bellina, con una faccia di madonna e i capelli neri e lunghi e gli occhi neri e grandi e pareva serissima, manco dipinta, tanto che se non l'avessi vista baciarsi con lui, mai l'avrei creduta capace. "Non lo sa, signorina, che è proibito baciarsi nei luoghi pubblici?" le dissi per dar serietа alla mia parte di agente. "E poi, lei, una signorina così distinta, vergogna... baciarsi al buio, nei giardini, come una prostituta qualsiasi."



La signorina fece per protestare ma lui la fermò con un gesto; e quindi, rivolto a me, con prepotenza: "Ah, sono in contravvenzione?... Allora mostrate le carte."

"Quali carte?"

"I documenti di identitа che provano che siete davvero due agenti."

Mi venne in mente che fosse della questura: non mi avrebbe sorpreso, data la mia sfortuna. Dissi, però, con violenza: "Poche chiacchiere... Siete in contravvenzione e dovete pagare."

"Ma che pagare;" parlava spedito, come un avvocato; e si vedeva che non aveva paura. "Ma che agenti... agenti, voi con quelle facce? Lui con quella giacca a vento e tu con quelle scarpe... Ahò, mi prendete per scemo?" A sentirmi ricordare le scarpe, che, effettivamente, così rotte e sformate com'erano, non potevano essere quelle di un agente, mi venne una specie di furia. Tirai fuori dall'impermeabile la pistola, e gliela spinsi forte nella pancia dicendo: "Va bene, non siamo agenti... ma tu scuci i quattrini lo stesso e non far storie."

Lorusso, finora, mi era rimasto a fianco senza dir parola, a bocca aperta, da quello stupido che era. Ma quando vide che avevo smesso la commedia, si svegliò anche lui. "Hai capito?" disse mettendo la chiave inglese sotto il naso all'uomo. "Scuci i quattrini se non vuoi che ti do questo sulla testa." Questo intervento mi irritò ancor più delle maniere superbe dell'uomo. La ragazza, a vedere quell'arnese di ferro, diede un piccolo strillo; e io le dissi con gentilezza, perché so essere gentile quando lo voglio: "Signorina non gli dia retta... e si ritiri in quell'angolo laggiù e ci lasci fare... e tu metti via quel ferro." Quindi dissi all'uomo: "Allora, spicciamoci."

Bisogna dire che quel giovanotto, con tutto che fosse molto antipatico, era però coraggioso; anche adesso che gli tenevo la pistola affondata nella pancia, non mostrava paura. Si mise semplicemente la mano in petto e ne trasse il portafogli: "Ecco il portafogli." Io lo palpai mettendolo in tasca e capii al tatto che di quattrini ce ne erano pochi: "Dammi l'orologio, ora." Lui si sfilò l'orologio dal polso e me lo diede. "Ecco l'orologio." Era un orologio di poco valore, di acciaio. "Ora dammi la penna." Lui si tolse la penna dal taschino: "Ecco la penna." La penna era bella: americana, con il pennino chiuso dentro il cannello, aerodinamica. Ormai non avevo più nulla da chiedergli. Nulla, cioè, salvo quelle sue belle scarpe nuove che mi avevano colpito fin da principio. Lui disse con ironia: "Volete altro?" E io, senza esitare: "Sì, togliti le scarpe."

Questa volta protestò: "Le scarpe, no." E io allora non resistetti. Era un pezzo, fin dal primo momento, che provavo la tentazione di dargli uno schiaffo su quella sua faccia ribattuta e antipatica; e volevo vedere che effetto facesse a me e a lui. Così dissi: "Togliti le scarpe, su... non fare lo scemo", e con la mano libera gli diedi un ceffone, un po' di traverso. Lui diventò rosso rosso e poi bianco e io vidi venire il momento che mi saltava addosso. Ma, per fortuna, la ragazza dal suo angolo gli gridò: "Sì, Gino, dagli tutto quello che vogliono", e lui si morse a sangue le labbra guardandomi fisso, poi disse: "E va bene", chinando il capo; quindi si piegò e prese a slacciarsi le scarpe. Se le tolse una dopo l'altra e, prima di darmele, le considerò un momento con aria di rimpianto: piacevano anche a lui. Senza scarpe era proprio basso, più basso anche di Lorusso; e compresi perché si era comprato un paio di scarpe con la suola così erta. Fu allora che avvenne l'errore. Lui, in calzini, mi domandava: "Che vuoi adesso?... anche la camicia?...;" e io, le scarpe in mano, stavo per rispondergli che bastava così, quando qualche cosa mi sfiorò la fronte.

Era un piccolo ragno calato in fondo al suo filo dal soffitto della serra; e io lo vidi quasi subito. Mi portai la mano alla fronte come per scacciarlo; e Lorusso, da vero bruto, credendo che gli avessi fatto il segnale, subito alzò la chiave inglese e assestò un gran colpo a parte dietro sulla testa dell'uomo. Sentii io stesso il colpo, forte e sordo, come se avesse dato sopra un mattone. E quello subito mi cadde addosso, quasi abbracciandomi, come un ubriaco; e poi scivolò giù, il viso rovesciato indietro e gli occhi voltati che si vedeva soltanto il bianco. Subito la ragazza diede uno strillo acuto e si precipitò dall'angolo sopra di lui che stava disteso immobile per terra, chiamandolo per nome. Per capire, quanto Lorusso sia cretino, basterа dire che, in quella confusione, alzò di nuovo la chiave inglese sulla testa alla ragazza inginocchiata domandandomi con lo sguardo se dovesse farle lo stesso scherzo che aveva fatto all'amico. Io gli gridai: "Ma sei pazzo? Andiamocene." E così scappammo.

Appena fummo di nuovo sul viale, dissi a Lorusso: "Ora cammina piano come se passeggiassi... Hai fatto abbastanza scemenze oggi." Lui rallentò il passo e io, pur camminando, mi ficcai le scarpe nell'impermeabile, una per tasca.

Mentre camminavamo, dissi a Lorusso: "E poi non debbo dirti che sei cretino... che ti è venuto in mente di dare quella botta?" Lui mi guardò e rispose: "Tu mi hai fatto il segnale."

"Ma quale segnale?... Era un ragno che mi sfiorava la fronte."

"E che potevo saperne io... mi hai fatto il segnale." In quel momento ce l'avevo con lui che l'avrei strangolato. Dissi con rabbia: "Sei proprio un cretino... Ora l'avrai ammazzato." Lui, allora, come se l'avessi calunniato, protestò: "No... gli ho dato col rovescio... dove non c'è la punta... Se avessi voluto ammazzarlo, gli avrei dato con la punta." Non dissi nulla, mi rodevo dalla rabbia e la faccia mi saltava per il tic al punto che portai una mano alla guancia per farla star ferma. Lui riprese: "Hai visto che bella ragazza... quasi quasi glielo dicevo: su bella, vieni bella... Capace che lei ci stava... Ho fatto male a non provare." Camminava soddisfatto, pavoneggiandosi, e continuava a dire quello che avrebbe voluto fare alla ragazza e come l'avrebbe fatto; finché io gli dissi: "Senti, chiudi quella bocca malefica e sta' zitto... Altrimenti non garantisco." Lui tacque e, in silenzio, passammo piazzale Flaminio, il lungotevere, il ponte, e giungemmo a piazza della Libertа. Lì ci sono le panchine, all'ombra degli alberi, e non c'era nessuno, e c'era perfino un po' di nebbia che veniva su dal Tevere. Io dissi: "Sediamoci qui un momento... così vediamo quanto abbiamo fatto... E poi voglio provarmi le scarpe."

Sedemmo sulla panchina e, per prima cosa, aprii il portafogli e trovai che conteneva soltanto duemila lire e facemmo a metа. Poi dissi a Lorusso: "Non meriteresti niente... ma io sono giusto... a te ti do il portafogli e l'orologio... Io mi tengo le scarpe e la penna... Va bene?" Lui, subito, protestò: "Non va bene per niente... che maniere sono queste? Dov'è la metа?" E io, stizzito: "Ma tu hai fatto un errore... è giusto che paghi." Insomma ci disputammo un pezzo e alla fine convenimmo che io mi sarei tenuto le scarpe, e lui avrebbe avuto il portafogli, la penna e l'orologio.

Io, però, gli dissi: "Che te ne fai della penna... non sai neppure scrivere il tuo nome." E lui: "Per regola tua so scrivere e leggere, ho frequentato la terza elementare... E poi una penna come questa a piazza Colonna me la comprano sempre." Io avevo ceduto perché non vedevo l'ora di buttar via le scarpe vecchie e poi ero stanco di litigare e dal nervoso mi era venuto perfino il mal di stomaco. Mi tolsi, dunque, le scarpe e provai quelle nuove. Ma scoprii con delusione che erano corte; e si sa che a tutto c'è rimedio fuorché alle scarpe corte. Allora dissi a Lorusso: "Guarda, le scarpe sono corte... Sono invece proprio il piede tuo... Facciamo a cambio... tu mi dai le tue che ti stanno lunghe e io ti do queste che sono più belle e più nuove delle tue." Questa volta lui fece un fischio lungo, come di disprezzo, e rispose: "Poveretto... va bene che sono cretino, come dici, ma non fino a questo punto."

"Sarebbe a dire?"

"Sarebbe a dire che è tempo di andare a letto." Guardò pomposamente l'orologio di quel giovanotto e soggiunse: "Il mio orologio fa le undici e mezzo... e il tuo?" Non dissi nulla, rimisi le scarpe nelle tasche dell'impermeabile e lo seguii,

Prendemmo il tram e tutto il tempo io mi rodevo per l'ingiustizia della mia sorte, e pensavo a quanto era cretino Lorusso, e come dovevo fare per ottenere che mi desse le sue scarpe in cambio delle mie. Come scendemmo dal tram, nel nostro quartiere, ricominciai a discutere e, perfino, visto che la ragione non serviva lo supplicai. "Lorusso, per me quelle scarpe sono la vita... Senza scarpe non posso più vivere... Se non vuoi farlo per farmi piacere, fallo almeno per amor di Dio." Ci trovavamo in una strada deserta, laggiù, dalle parti di San Giovanni. Lui si fermò sotto un lampione e cominciò a girare il piede di qua e di lа, vanitosamente, per farmi rabbia. "Sono belle le mie scarpe, eh?... Ti fanno gola eh?... ma è inutile che ci sformi... tanto non te le do." Poi si mise a canticchiare: "Fai, fai, fai, non le hai avute e non le avrai." Insomma, mi sfotteva. Mi morsi le labbra e giuro che se ci avessi avuto le pallottole nella pistola, l'avrei ammazzato, non soltanto per le scarpe ma anche perché non lo potevo più soffrire. Così, arrivammo allo scantinato, dove dormivamo. Bussammo alla finestra del seminterrato; il portiere, brontolando al solito, venne ad aprirci; e scendemmo nello scantinato. Lì c'erano cinque brande in fila, nelle prime tre dormivano il portiere e due figli suoi, giovanotti come noi; nelle ultime due, Lorusso ed io. Il portiere si fece pagare anticipato, poi spense la luce e se ne andò a letto, e noi, al buio, cercammo le brande e ci coricammo. Una volta, però, sotto quella copertina leggera, ricominciai a pensare alle scarpe e, finalmente, presi una decisione. Lorusso dormiva vestito, ma sapevo che le scarpe se le toglieva e le metteva in terra, tra le due brande. Al buio mi sarei alzato, mi sarei messo le sue scarpe lasciandogli le mie, e poi me ne sarei andato, fingendo di recarmi al cesso che stava fuori, nell'ingresso dello scantinato. Pensai che mi conveniva far questo anche perché c'era il caso che Lorusso avesse veramente ammazzato quell'uomo nella serra ed era meglio non restare insieme con lui. Lorusso il mio cognome non lo sapeva, conosceva soltanto il mio nome, e così, se l'avessero arrestato, non avrebbe saputo dire chi io fossi. Detto e fatto, mi alzo, metto i piedi in terra, pian piano mi chino, infilo le scarpe di Lorusso. Stavo per allacciarle quando mi sento dare un colpo violento: per fortuna mi mossi e il colpo mi sfiorò l'orecchio e mi prese sulla spalla. Era Lorusso che, al buio, mi aveva dato con quella maledetta chiave inglese. Io, dal dolore, questa volta persi la testa, mi alzai e gli diedi un pugno alla cieca. Lui mi afferrò per il petto cercando di darmi ancora con la chiave, e rotolammo insieme in terra. In quel chiasso, si svegliarono il portiere e i due figli e accesero la luce. Io gridavo: "Assassino;" e Lorusso, dal canto suo, urlava: "Ladro;" e gli altri gridavano anche loro e cercavano di separarci. Poi Lorusso diede un colpo con la chiave al portiere che era un omaccione e bastava un nonnulla per farlo infuriare; e il portiere prese una seggiola e cercò di colpire in testa Lorusso. Allora Lorusso si piantò in fondo allo scantinato, contro il muro, e agitando la chiave, incominciò a urlare: "Venite avanti se ci avete core. Vi faccio tutti fuori quanti siete... Sono il terrore di Roma", proprio come un pazzo, rosso in viso, gli occhi fuori dalla testa. In quel momento, io commisi l'imprudenza, tanto ero fuori di me, di gridare: "Attenti che poco fa ha ammazzato un uomo... è un assassino." A dirla in breve: mentre noi cercavamo di tener fermo Lorusso che urlava e si dibatteva come un ossesso, uno dei figli del portiere andò a chiamare gli agenti; e un po' io, un po' Lorusso, si venne a sapere del fatto della serra e ci arrestarono tutti e due.

Al commissariato dove ci portarono, bastò una telefonata, e subito ci dissero che eravamo quei due che avevano fatto il colpo a Villa Borghese.

Io dissi che era stato Lorusso e lui, questa volta, forse per le botte che aveva preso, non fiatò. Il commissario disse: "Bravi... siete proprio bravi... Rapina a mano armata e tentato omicidio."

Ma per capire quanto sia incosciente Lorusso, basta sapere che, dopo un momento, come riscuotendosi, domandò: "Domani che giorno è?"

Gli risposero: "Venerdì."

E lui allora, fregandosi le mani: "Uh, bene, domani a Regina Coeli c'è la minestra di fagioli." Così venni a sapere che era anche pregiudicato, mentre invece mi aveva sempre giurato che in prigione non ce l'avevano mai messo.

Poi mi guardai i piedi, vidi che mi erano rimaste le scarpe di Lorusso e pensai che, dopo tutto, avevo ottenuto quello che volevo.

 

L'AMICIZIA

 

Mariarosa è un nome doppio, e la donna che portava questo nome era doppia anche lei così nel fisico come nel morale. Aveva una facciona bianca e rossa, larga come la luna piena, sproporzionata al corpo che era normale; faceva pensare a quelle rose che si chiamano cavolone appunto perché sono fitte e grosse come cavoli; e, insomma, subito, vedendola, si pensava che con una faccia simile se ne potevano fare facilmente due. Questa sua facciona, poi, era sempre placida, sorridente, serafica, tutto il contrario del carattere che, come mi accorsi a mie spese, era, invece, indiavolato. E per questo ho detto che era doppia anche nel morale.

Le avevo fatto la corte in tutti modi: prima rispettosa, galante, insinuante; poi, vedendo che non mi dava retta, avevo provato ad essere più entrante e aggressivo, aspettandola a mezza scala, sul pianerottolo più buio, cercando di baciarla per forza: ci avevo guadagnato qualche spintone e, per finire, uno schiaffo. Allora avevo pensato di fare lo sdegnoso, l'offeso, di non salutarla, di voltarmi dall'altra parte quando l'incontravo: peggio, pareva che non fossi mai esistito. Finalmente, mi ero fatto implorante, supplichevole, fino a pregarla con le lagrime agli occhi che mi volesse bene: niente. E almeno mi avesse scoraggiato completamente, una volta per tutte. Ma, maligna, proprio quando stavo per mandarla al diavolo, mi ripigliava con una frase, uno sguardo, un gesto. Più tardi, ho capito che per una donna i corteggiatori sono come le collane e i braccialetti: ornamenti di cui, se può, preferisce di non disfarsi. Ma allora, a quello sguardo, a quel gesto, pensavo: "Eppure qualche cosa c'è sotto... riproviamo."

Improvvisamente seppi che quella civetta si era fidanzata con il mio migliore amico, Attilio. Mi fece rabbia per molti motivi: prima di tutto perché me l'aveva fatta sotto il naso, senza dirmi niente; e poi perché Attilio, ero io che gliel'avevo fatto conoscere; e così, senza saperlo, avevo retto il lume.

Ma sono un buon amico e per me l'amicizia passa avanti a tutto. Avevo voluto bene a Mariarosa; ma dal momento che era diventata la fidanzata di Attilio, per me era sacra. Lei avrebbe voluto, magari, continuare a stuzzicarmi; ma io glielo feci capire in tutti i modi e, alla fine, un giorno, glielo dissi chiaramente: "Tu sei una donna e l'amicizia non la capisci... Ma tu, da quando ti sei messa con Attilio, per me è come se non ci fossi... Non ti vedo e non ti sento... inteso?"

Lì per lì, sembrò che mi desse ragione. Siccome però continuava a civettare, decisi di non vederla più e tenni la parola. Seppi più tardi che si erano sposati ed erano andati ad abitare presso la sorella di lei che faceva l'infermiera. E che Attilio, il quale nove giorni su dieci era sempre disoccupato, aveva trovato da fare come facchino presso una ditta di trasporti. Mariarosa, invece, faceva come prima la stiratrice ma a giornata. Queste informazioni, in certo senso, mi tranquillizzarono. Sapevo, insomma, che non stavano bene e che il matrimonio molto bene non poteva andare. Ma da buon amico leale, continuai a non farmi vivo. Un amico è un amico e l'amicizia è sacra.

Sono stagnaro e, si sa, gli stagnari girano da una casa all'altra e, girando, capitano anche dove non vorrebbero capitare. Uno di questi giorni, mentre andavo da un cliente con la borsa dei ferri a tracolla, e un doppio giro di tubi di piombo intorno al braccio, passando per Ripetta mi sentii chiamare per nome: Ernesto. Mi voltai, era lei. A vederla, con quella sua facciona soda, placida e sorniona sulla personcina dalla vita di vespa e dai fianchi e dal petto rotondi, mi tornò il sentimento e quasi rimasi senza fiato. Ma pensai: "Sei un amico... comportati da amico." Dissi, asciutto: "Chi non more si rivede."

Lei aveva il fagotto della spesa sotto il braccio, pieno di verdura e di pacchi di carta gialla. Disse, sorridendo: "Non mi riconosci?"

"Se ti ho detto: chi non more si rivede."

"Perché non mi accompagni a casa?" riprese. "Giusto stamattina mi sono accorta che il tubo del lavandino in cucina non butta più... accompagnami, su."

Risposi, con lealtа: "Se è per una riparazione, va bene... Lei mi lanciò una di quelle sue occhiate che un tempo mi facevano girare la testa e soggiunse: "Però dovresti portarmi il fagotto..." E così eccomi, carico come un somaro, con la borsa dei ferri, i tubi di piombo e il fagotto della spesa, dietro di lei che mi precedeva.

Andammo non tanto lontano, in una traversa di via Ripetta, entrammo in un portoncino che pareva l'ingresso di una grotta, salimmo per una scala da vergognarsi, umida, buia, puzzolente. A metа scala, lei si voltò e disse sorridendo: "Ti ricordi quando ti appostavi sul pianerottolo, al buio... che paura mi facevi... o te lo sei giа dimenticato?" Risposi, rigido: "Mariarosa, non ricordo niente... ricordo soltanto che sono amico di Attilio e che l'amicizia passa avanti a tutto." Lei disse, sconcertata: "E chi ti ha detto che non dovresti essergli amico?"

Entrammo nell'appartamento: tre stanzette sotto il tetto, con le finestre su un cortile che pareva un pozzo, nero e senza sole. In cucina non ci si rigirava e la porta-finestra dava sul balconcino dove c'era il cesso. Mariarosa sedette su una seggiola, a gambe larghe, il grembo pieno di fagioli da capare; e io, posata la borsa sul pavimento, mi inginocchiai presso l'acquaio per fare la riparazione. Vidi subito che il tubo era marcio e che bisognava rimetterlo nuovo; e l'avvertii: "Guarda che bisogna rimettere il tubo nuovo... te la senti di pagarlo?"

"E l'amicizia?"

"E va bene" dissi con un sorriso, "te lo metto gratis... vuol dire che in cambio mi darai un bacio."

"E l'amicizia?" Mi morsi le labbra, pensando: "Amicizia a doppio taglio;" ma non dissi nulla. Presi le tenaglie, svitai la guarnizione che era marcia come il tubo, tolsi il tubo, tirai fuori dalla borsa la macchinetta per le saldature, ci versai la benzina, sempre in silenzio. A questo punto la sentii che mi domandava: "Tu sei veramente amico di Attilio?"

Mi voltai a guardarla: stava con gli occhi abbassati, sorridente, melliflua, intenta ai fagioli. Dissi: "E come no..."

"Allora" continuò tranquilla "con te posso parlare liberamente.. vorrei proprio sapere da te che lo conosci bene, se certe mie impressioni sono giuste."

Risposi che parlasse pure; intanto avevo acceso la fiamma e la regolavo. Lei riprese: "Per esempio, non ti pare che quel posto che ha trovato non è roba per lui... fare il portatore..."

"Vuoi dire il facchino..."

"Fare il portatore non è un mestiere, io insisto perché studi da infermiere... poi mia sorella potrebbe farlo entrare al Policlinico..."

Intanto avevo innestato il tubo. Presi la macchinetta e quasi senza pensarci, tenendola sospesa, domandai: "Tu vuoi la veritа o vuoi i complimenti?"

"La veritа."

"Beh, io sono amico di Attilio, ma questo non mi impedisce di vederne i difetti... Prima di tutto è pigro."

"Pigro?" Presi un pezzo di stagno, avvicinai la macchinetta e cominciai la saldatura. La fiamma ruggiva e io, per vincere il rumore, alzai la voce: "Sì, pigro... tu cara mia dovrai abituarti ad avere un marito sfaccendato... io sì che sono lavoratore... lui no; a lui piace alzarsi tardi, gironzolare, andare al caffè, leggersi il giornale con le notizie sportive, discuterle... giusto il facchino, magari... ma l'infermiere che è un mestiere di responsabilitа... no, non ce lo vedo."

"Ma io" riprese lei sempre con quella sua voce calma e riflessiva "non sono neanche sicura che ce l'abbia questo posto... dice di andare al lavoro... soldi però non ne ho ancora visti... comincio a pensare che possa avermi detto qualche bugia... tu che ne dici?"

"Bugie?" risposi senza riflettere. "Ma quello è il più gran bugiardo che io conosca... quello ti fa vedere lo stravedere... quanto a bugie, puoi stare tranquilla..."

"È proprio quello che pensavo... ma se non va al lavoro che farа? Io non credo che proprio non faccia altro che gironzolare e andare al caffè... qualche cosa ci deve essere... va sempre così di fretta, è sempre così preoccupato." Si interruppe per prendere dal tavolo una pentola in cui mettere i fagioli giа capati. La guardai, al di sopra della spalla: sorridente, tranquilla, serena. Riprese dopo un momento: "Sai che penso? che ci abbia una donna... tu che lo conosci, mi puoi dire se è vero."

Una voce, dentro di me, mi avvertiva: "Attento, Ernesto, vacci piano... c'è il tranello." Ma sia che il rancore fosse più forte della prudenza, sia che vedendola sparlare a quel modo del marito, cominciassi di nuovo a sperare per me, non potei fare a meno di rispondere: "Dico che hai ragione... le donne per lui sono tutto... belle o brutte, giovani o vecchie... non lo sapevi?"

La saldatura era finita. Spensi la macchinetta e con il dito pareggiai lo stagno ancora molle. Quindi cominciai a stringere il dado con la chiave inglese. Lei intanto, calma, diceva: "Sì, qualche cosa sapevo, ma niente di preciso... ora, pensa che idea mi è venuta... che se la intenda con Emilia, quella ragazza, la conosci? coi capelli rossi, che lavorava insieme con me nella stireria... tu che ne dici?"

Mi alzai in piedi. Mariarosa, che aveva messo i fagioli nella pentola, si alzò anche lei, scuotendo la veste per farne cadere i baccelli. Poi andò all'acquaio, mise la pentola sotto il rubinetto e fece scorrere l'acqua. Le andai dietro e la presi con le due mani per quella sua vita così snella dicendo: "Sì, è vero, vede Emilia tutti i giorni, verso sera, l'aspetta fuori della stireria e l'accompagna a casa. Ora sai tutto: che aspetti?"

Lei voltò appena il viso, sorridendo, e rispose: "Ernesto, non hai detto che gli eri amico? Lasciami!" Per tutta risposta, cercai di abbracciarla. Ma lei si svincolò e disse, dura: "Ora hai fatto la riparazione... è meglio che te ne vai." Mi morsi la lingua e risposi: "Hai ragione... ma tu mi fai perdere la testa... bisogna che mi ricordi sempre che sono amico di Attilio e che tu sei sua moglie." Così dicendo, mortificato, raccolsi i ferri, feci per salutarla e andarmene. In quel momento la porta della cucina si aprì e Attilio comparve.

Mi salutò, contento, da amico: "Addio, Ernesto." Risposi: "Mariarosa mi aveva pregato di riparare il tubo... è fatto: ci ho messo il tubo nuovo."


Дата добавления: 2015-10-21; просмотров: 28 | Нарушение авторских прав







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