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Collana: Tascabili Bompiani 18 страница



Uno di questi giorni, Natale tornт a casa verso sera e alla madre disse che era stato in giro per cercare lavoro. Non aveva piщ gli occhiali e spiegт che li aveva dimenticati in un caffи dove se li era tolti per leggere il giornale. Lui, sempre, quando doveva fare qualche cosa che richiedeva una cura particolare, si toglieva gli occhiali e li riponeva, forse per il timore di romperli o perchй, da vicino, ci vedeva meglio senza occhiali. La madre gli aveva preparato la cena, al solito, sul tavolino da lavoro, nel vano della finestra della camera da letto; e lui divorт un piatto di vermicelli con le alici, un piatto di bieta ripassata in padella e uno sfilatino di pane. Insomma, aveva una gran fame; e Nespola, piщ tardi, ebbe a dire che non l'aveva mai visto mangiare tanto di gusto. Dopo mangiato, Natale accese una sigaretta e poi dormм forse un'ora sul letto a due piazze. Poi si svegliт, chiese a Nespola i soldi e andт al cinema lм accanto, dove davano un film comico americano. Io ero nella sala e lo vidi in prima fila, senza occhiali, che rideva ogni tanto, scuotendosi per tutto il corpo insaccato dentro la poltrona, come se tossisse. Breve: all'uscita del cinema, gli agenti, che erano giа stati a casa sua, lo arrestarono e lo portarono di peso in questura. La mattina dopo tutti i giornali pubblicarono la notizia: Natale era andato a pagare la pigione e aveva colto l'occasione per ammazzare a martellate il padrone di casa vecchio e podagroso. Se non fosse stato un uomo cosм preciso, forse non l'avrebbero mai scoperto. Ma per tirare meglio la martellata, si era tolto prima gli occhiali, posandoli sopra il davanzale della finestra; poi, nell'orgasmo, li aveva dimenticati, e lм erano stati ritrovati dalla polizia. La madre, poveretta, che non credeva ormai di potere avere altre sorprese, si trovт, invece, quella mattina con la sorpresa piщ grossa di tutte. Non so come la prendesse i primi giorni, quando tutti i giornali parlavano del figlio e di lei; ma poi, и da credersi che si raccomandasse alla Madonna, perchй era religiosa; e che la Madonna le facesse la grazia di ritrovare il coraggio di tirare avanti. Certo che, passato qualche tempo dal delitto, Nespola andт a trovare il figlio in prigione dove lui, grazie al suo aspetto serio e alla sua buona condotta, aveva ottenuto un posto di fiducia negli uffici dell'infermeria.

 

IL CANE CINESE

 

Quell'inverno, non sapendo piщ dove sbatter con la testa, pensai di fare l'accalappiacani. Ma non per conto del comune che poi, i cani li manda a morire, ma per conto mio, per prendere la mancia su ogni cane che rubavo. Me ne andavo in un quartiere elegante, all'ora che le serve portano a spasso i cani, e avevo in tasca una funicella con un nodo scorsoio. Appena una di quelle serve usciva, la seguivo a distanza. Le serve, si sa, non hanno molte distrazioni e approfittano di ogni uscita per incontrarsi con qualche amica oppure con il fidanzato. La serva, dunque, lasciava libero il cane, che correva subito avanti annusando e levando la zampa ad ogni cantone. Appena vedevo che la serva si era distratta, mi avvicinavo al cane, gli gettavo lesto la funicella al collo e scantonavo. Poi il difficile era arrivare a Tormarancio dove abitavo. Ma un po' a piedi, un po' con certi autisti di taxi che stavano di casa da quelle parti, giungevo alla Garbatella. Di lм, arrivavo con la camionetta a casa. Fatemi ridere, perт: a casa. Diciamo piuttosto che arrivavo ad un angolo di stanza in una di quelle casettacce di Tormarancio che, insieme con la branda, mi affittava Bonifazi, un operaio mio amico. Nella stessa stanza ci dormivano lui, la moglie e tre figli, e cosм, la notte, era tutta una distesa di materassi e per uscire bisognava che qualcuno si alzasse e arrotolasse il suo. Io lasciavo il cane in deposito a Bonifazi che conosceva questo mio traffico e il giorno dopo mi recavo a quel palazzo da cui avevo veduto uscire la serva. Al portiere dicevo di aver trovato un cane cosм e cosм. Subito mi chiamavano, mi facevano entrare in un ingresso tutto marmi e specchi e quasi mi abbracciavano per la gratitudine. Il mattino dopo riportavo il cane, prendevo la mancia e poi ricominciavo.



Un giorno, col solito sistema della funicella, presi un cane strano, non mai visto prima: sembrava un leone, con la testa grossa, a palla, tutta pelliccia, il corpo col pelo raso, il muso corto e la lingua di un nero violetto. Era una bestia buona ma poco vivace, anzi triste e come pensierosa, e mi seguм a testa bassa, quasi avesse giа saputo quello che l'aspettava. Quel giorno pioveva, io non avevo che una giacchettina rotta e una maglia sotto e le scarpe erano sfondate e, insomma, presi tant'acqua che nella camionetta battevo i denti e a muover le dita dei piedi sentivo che spremevo acqua dalla calza e dal cuoio della scarpa. A Tormarancio, poi, la pioggia, al solito, siccome sta in fondo valle, aveva allagato le case e cosм, invece di trovare il caldo in quella stanza di Bonifazi, ci trovai l'acqua, con la moglie che urlava dalla disperazione, i figli che piangevano e lui che cercava di gettare delle passerelle sul pavimento inondato. Andai a letto senza cena, e quella stessa notte mi venne la febbre, e il giorno dopo rimasi a letto. Questa febbre non mi lasciт per una settimana intera. Io stavo in un angolo, sulla branda, sotto le due funi legate da una parete all'altra sulle quali penzolavano i miei quattro stracci, e guardavo dal fondo della febbre alla stanza, con tutti i materassi arrotolati negli angoli, e altre funi con altri stracci penzolanti che si incrociavano in tutte le direzioni, e in terra non so che di viscido sparso di macchie nere che si muovevano ed erano di scarafaggi che ad ogni pioggia escono dai mattoni di quei muri marci. C'era quasi buio, perchй pioveva sempre e due finestre su tre avevano cartoni in luogo di vetri. La moglie di Bonifazi cucinava nella stanza accanto e io sempre solo e non mi dispiaceva perchй quando sto male non ho voglia di parlare: penso tante cose e sto zitto. Il cane, lui, stava veramente buono e io, affinchй non si ammalasse per l'umiditа, gli avevo fatto coi trucioli e gli stracci una cuccia, proprio sotto la branda, e ogni tanto sporgevo la mano e gli carezzavo la testa. Avevo la febbre proprio alta, rovente, e tuttavia non pensavo che al cane e ogni tanto davo dei soldi alla moglie di Bonifazi perchй gli comprasse della roba da mangiare, non tanto per la mancia quanto perchй voglio bene alle bestie e non mi piace farle soffrire. Il settimo giorno incominciai a delirare e mi venne la fissazione che volessero portarmi via il cane e domandai a Bonifazi che me lo mettesse sulla branda. Ce lo mise, e io allora abbracciai forte il cane, ficcando il viso in quel suo pellicciotto tanto caldo e mi addormentai abbracciandolo: il cane non si muoveva. Durante la notte, forse per via di quella pelliccia del cane, sudai tanto che ero fradicio da strizzare, e poi mi sentii come slegare e la mattina non avevo piщ febbre affatto. Il cane, tutta la notte, non si era mai mosso e quando mi svegliavo lo sentivo che mi respirava sul viso, col fiato un po' corto, forse perchй lo stringevo cosм forte.

Stetti qualche giorno ancora riguardato, intanto era tornato il sole e io andavo a spasso tra le case di Tormarancio, tirandomi dietro il cane con una funicella. Fuori di Tormarancio ci sono alcune baracche che sono peggio delle case di Tormarancio e figuratevi che cosa possono essere: assi e latte di benzina, tetti di bandone ondulato, steccatelli di sambuco intorno, e le porte cosм basse che per entrarci bisogna chinarsi. In una di queste baracche ci stava un cinese di quelli che vendono le cravatte. Era venuto lм qualche anno prima e poi ci era rimasto e viveva con una donna che chiamavano Fesseria. Lei faceva quel mestiere; era magra, bianca, allampanata, con un viso lungo e certe grandi sopracciglia nere e gli occhi neri. Aveva i capelli folti e neri, dolci come la seta e quando si metteva un po' di rossetto, sembrava perfino bella. Il cinese era un cinese; visto di dietro poteva anche sembrare un italiano, basso e tarchiato com'era; ma poi si voltava e si vedeva che era cinese. Andai dunque a passeggiare con il cane davanti la baracca dei cinese e subito vennero fuori ambedue, lei con un secchio pieno d'acqua che quasi mi buttт tra le gambe e il cinese con una pentola in mano: sempre cucinava. Il cinese mi si avvicinт e in buon italiano disse: "Questo и un cane del mio paese... и un cane cinese." E mi spiegт che quei cani lм, in Cina, sono comuni come da noi i barboni. Disse che, se volevo, lui se lo prendeva il cane, perchй gli ricordava il suo paese e l'avrebbe avuto caro. Ma non poteva darmi nulla, soltanto un paio di quelle sue cravatte di seta naturale; e io, rifiutai; altro che cravatte, volevo la mancia. Fesseria col secchio in mano, mi gridт. "Luigi, allora non ce lo dai il cane?" provocante, allegra, saltando da una pozza all'altra con quelle sue gambe lunghe, magre e bianche. Sebbene mi sentissi ancor male, non potei fare a meno di provar desiderio di lei cosм magra e bianca, con quelle grandi sopracciglia nere. Ma non dissi nulla e tornai da Bonifazi.

Il giorno dopo andai a Roma, a quel palazzo da cui avevo veduto uscire la serva con il cane. Ma quando si dice la sfortuna: "Era una famiglia di americani" mi disse la portiera "e sono partiti proprio ieri... hanno fatto tante storie per il cane ma poi dovevano partire e sono partiti."

Eccomi dunque con un cane di razza e non sapevo cosa farne. Pensai dapprima di venderlo ma nessuno lo voleva: mi guardavano gli stracci e poi dicevano che era roba rubata, come era vero. D'altronde mi dispiaceva portarlo al Comune perchй l'avrebbero fatto morire, povera bestia, e non potevo dimenticare quella notte che mi aveva guarito con il suo pellicciotto e non si era mai mosso. Intanto, perт mi costava, perchй mangiava molto e non era un cane piccolo.

Uno di quei pomeriggi, invece di andare in cittа, uscii da Tormarancio che con il sole, da quel pantano che era, adesso era diventata una fossa di polvere, e mi arrampicai su una delle colline intorno. Ormai era primavera, senza una nuvola nel cielo, con l'aria dolce e il sole, e perfino Tormarancio, vista di lassщ, con tutte quelle casette lunghe e basse dai tetti rossi, sembrava meno galera del solito. La collina era coperta di erba tenera, fresca e verde che era un piacere guardarla, e qua e lа sembrava che avesse nevicato per via delle margherite che crescevano fitte e nascondevano l'erba. Presi a girare da una collina all'altra, le mani in tasca, fischiettando: la malattia mi aveva fatto bene e mi sentivo non so che speranza nel cuore, guardando all'orizzonte pieno di sole, con certe grandi farfalle bianche appaiate che sembravano volargli incontro. Il cane, caso strano, era diventato perfino vivace e prese a corrermi avanti. Poi tornava indietro e mi abbaiava. Tutto, perт, goffamente e pesantemente, da quella bestia triste che era. Ad un certo punto discesi in fondo valle e costeggiai un ruscello, tra due colline alte. Poi udii il cane abbaiare, levai gli occhi e vidi Fesseria che se ne andava a spasso anche lei, tutta sola, i capelli sciolti sulle spalle, un filo d'erba tra i denti, le mani nelle tasche dello zinale di rigatino. Lei si fermт e si chinт a far feste al cane e poi disse ridendo: "Allora ce lo dai il cane?"

E io prim'ancora di averci pensato, risposi: "Te lo do ma ad un patto."

Insomma, facemmo l'amore in terra, tra quelle due colline alte, presso il ruscello. Il cane, intanto, leccava l'acqua nel ruscello con la sua lingua violetta e poi si mise a sedere sull'erba, poco discosto da noi, e rimase lм a guardarci, che perfino mi dava soggezione. E io feci quello che feci non soltanto perchй quella donna mi piaceva ma anche perchй mi piaceva dar via il cane per il prezzo di un po' d'amore: perchй mi ero affezionato a lui e mi sembrava che cosм fosse stato pagato per quello che valeva. Alla fine ci rialzammo e Fesseria prese la funicella del cane dicendo: "Lui sarа contento perchй gli ricorda il suo paese." Io rimasi dov'ero guardandola mentre si allontanava col cane, e ancora mi piaceva. Poi mi distesi in terra e dormii un paio d'ore.

La mattina dopo andai in cittа e vi rimasi anche la notte, con un bassotto che avevo preso dalle parti di piazza Santiago del Cile. Dormii in un dormitorio pubblico e poi tornai a Tormarancio. Piщ tardi, nel pomeriggio, andai a spasso con il bassotto e, non so come, capitai davanti la baracca del cinese.

Fesseria non c'era, doveva essere andata a Roma. Ma lui c'era e venne fuori con una secchiata di immondizie che gettт dietro la baracca. Non so perchй avrei voluto che mi ringraziasse per il cane e gli domandai dove fosse. Lui sorrise e mi fece un gesto che non capii e poi tornт nella baracca. Il bassotto frugava nella spazzatura, io mi avvicinai, e allora vidi, tra le cartacce e i torsoli, la zampetta del cane, sporca di sangue ma con tutto il pelo.

Poi mi fu spiegato che al paese loro i cani li mangiano e tutti lo fanno e non c'и nulla di male. Ma in quel momento mi salм il sangue alla testa; entrai nella baracca, lui stava voltato, frugando nel fornello. Si girт sorridendo, con un piatto che conteneva certa carne scura in un intingolo; e compresi che era carne del cane e che lui me la offriva affinchй la mangiassi. Con un pugno gli mandai il piatto in faccia, urlando: "Assassino, che hai fatto al cane?", e subito mi resi conto che lui non capiva perchй fossi tanto in collera. Mi sfuggм, uscм dalla baracca e prese a correre verso Tormarancio. Io raccolsi un selcio e glielo tirai e poi lo rincorsi e lo presi per il collo. Venne fuori tanta gente; e lui, con la faccia stupita e tutta imbrattata di sugo di carne, ripeteva: "Tenetelo, и pazzo;" e io lo scuotevo per il collo e urlavo che non avevo piщ voce: "Che hai fatto al cane?... Assassino... Che hai fatto al cane?" Finalmente ci separarono; e Bonifazi e gli altri mi fecero salire sulla camionetta che andava a Roma. Quel giorno stesso riportai ai padroni il bassotto e mi diedero la mancia. Ma non tornai a Tormarancio. Non possedevo nulla e da Bonifazi non ci avevo lasciato nulla. Gli dovevo una mesata e pensai che non tutto il male vien per nuocere. D'altronde questa storia del cane cinese mi aveva disgustato del mestiere e decisi di cambiare. Mi feci venditore ambulante, andando in giro con un carrettino pieno di un po' di tutto: olive dolci, semi di popone, castagne secche, noccioline americane, fichi secchi e noci. Facevo cartoccetti tutto il giorno, al ponte nuovo, all'imbocco del traforo del Gianicolo e riuscivo sм e no a campare. In quel tempo ero sempre triste e la vita non mi diceva niente, forse per via del cane. Una volta sola vidi Fesseria, di lontano, ma non le parlai: se mi avesse detto che anche lei aveva mangiato il cane, credo che l'avrei ammazzata.

 

MARIO

 

Fu cosм. Di mattina presto, mi alzai che Filomena ancora dormiva, presi la borsa dei ferri, uscii di soppiatto di casa e andai a Monte Parioli, in via Gramsci, dove c'era uno scaldabagno che buttava. Quanto tempo ci avrт messo per fare la riparazione? Certo un paio d'ore perchй dovetti smontare e rimontare il tubo. Finito il lavoro, con l'autobus e con il tram tornai a via dei Coronari, dove ho casa e bottega. Notate il tempo: due ore a Monte Parioli, mezz'ora per andarci, mezz'ora per tornare: tre ore in tutto. Che sono tre ore? molto e poco, dico io, secondo i casi. Io ci avevo messo tre ore per rimettere a posto un tubo di piombo; qualcun altro, invece...

Ma andiamo per ordine. Alla imboccatura di via dei Coronari, mentre camminavo svelto lungo i muri, mi sentii chiamare per nome. Mi voltai: era Fede, la vecchia affittacamere che sta di casa di fronte a noi. Questa Fede, poveretta, ha due gambe cosм grosse, per via della podagra, che manco un elefante. Mi disse, tutta affannosa: "Che scirocco, oggi... vai in su? mi dai una mano per la sporta?"

Risposi che l'avrei fatto volentieri. Mi passai la borsa dei ferri sull'altra spalla e afferrai la sporta. Lei prese a camminarmi accanto, trascinando quelle due colonne di gambe sotto la palandrana. Dopo un poco, domandт: "E Filomena dov'и?"

Risposi: "Dov'ha da essere? A casa."

"Giа, a casa" disse lei a testa china "si capisce."

Domandai, tanto per parlare: "Perchй si capisce?"

E lei: "Si capisce... eh, povero figlio mio."

Insospettito, lasciai passare un momento e poi insistetti: "Perchй povero figlio mio?"

"Perchй mi fai compassione", disse quella befana senza guardarmi.

"E cioи?"

"E cioи non sono piщ i tempi di una volta... le donne oggi non sono piщ come al tempo mio."

"Perchй?"

"Al tempo mio, uno poteva lasciare la sposa a casa, tranquillo... come la lasciava, cosм la ritrovava... oggi invece..."

"Invece?"

"Oggi non и cosм... basta... ridammi la sporta: grazie tanto."

Ormai tutta la gioia di quella bella mattinata mi era andata in veleno. Dissi, tirando indietro la sporta: "Non ve la do se non vi spiegate... che c'entra Filomena in tutto questo?"

"Io non so nulla", disse lei "ma, uomo avvisato mezzo salvato."

"Ma insomma" gridai "che ha fatto Filomena?"

"Domandalo ad Adalgisa", rispose lei; e questa volta acchiappт la sporta e si allontanт con un'agilitа che non le conoscevo, quasi correndo nella sua palandrana lunga.

Pensai che non era piщ il caso di andare a bottega, e feci dietro-front per cercare Adalgisa. Per fortuna stava anche lei in via dei Coronari. Adalgisa ed io eravamo stati fidanzati prima che incontrassi Filomena. Era rimasta zitella e sospettavo che quella storia su Filomena l'avesse inventata proprio lei. Salii quattro piani, bussai forte col pugno, per poco non la presi in faccia poichй lei aprм la porta di botto. Aveva le maniche rimboccate, teneva in mano una scopa. Disse secca secca: "Gino, che vuoi?"

Adalgisa и una ragazza non tanto grande, piacente, ma con la testa un po' grossa e il mento in fuori. Per via del mento, la chiamano scucchiona. Ma non bisogna dirglielo. Io, inviperito, invece glielo dissi: "Sei stata tu, scucchiona, a raccontare in giro che Filomena, mentre sto a bottega, fa non so che in casa?"

Lei mi fissт con due occhi arrabbiati: "L'hai voluta, Filomena... mo' te la tieni."

Entrai e l'acchiappai per un braccio. Ma glielo lasciai subito perchй lei mi guardт quasi con speranza. Dissi: "Dunque sei stata tu?"

"Io non sono stata... come l'ho avuta, cosм l'ho data."

"E chi te l'ha data?"

"Giannina."

Non dissi nulla e feci per uscire. Ma lei mi trattenne e soggiunse guardandomi, provocante: "E non chiamarmi piщ scucchiona."

"E che, non ce l'hai la scucchia?" risposi liberandomi e scendendo la scala a rompicollo.

"Meglio la scucchia che le corna", gridт lei affacciandosi alla ringhiera.

Ora cominciavo a sentirmi male. Non mi pareva possibile che Filomena mi tradisse, visto che in tre anni che eravamo sposati lei non aveva fatto che ricoprirmi di tenerezze. Ma guarda che cos'и la gelosia. Proprio queste tenerezze, alla luce dei discorsi di Fede e di Adalgisa, mi sembravano una prova di tradimento. Basta, Giannina era cassiera in un bar lм accanto, sempre in via dei Coronari. Giannina и una bionda linfatica, coi capelli lisci e gli occhi di porcellana azzurra. Calma, lenta, riflessiva. Andai alla cassa e le sussurrai: "Di' un po', sei stata tu a inventare che Filomena, quando non ci sono, riceve gente in casa?"

Lei stava dando retta ad un cliente. Battй con le dita sui tasti della macchina contabile, staccт il biglietto, annunziт, senza alzare la voce: "Due espressi...;" quindi domandт, tranquilla: "Che mi dici, Gino?" Ripetei la domanda. Lei porse il resto al cliente e poi rispose: "Per caritа Gino, ti pare che inventi una cosa simile su Filomena... la mia migliore amica?"

"Allora Adalgisa se l'и sognato."

"No" corresse lei "no... non se l'и sognato... ma io non l'ho inventato... l'ho ripetuto."

"Che buon'amica", non potei fare a meno di esclamare.

"Ma ho anche detto che non ci credevo... questo, certo, Adalgisa non te l'ha detto."

"E a te, chi te l'aveva raccontato?"

"Vincenzina... и venuta apposta dalla stireria per farmelo sapere." Uscii senza salutarla e andai dirimpetto, alla stireria. Dalla strada potei subito vedere Vincenzina, ritta in piedi davanti al tavolo, che pesava con le due braccia sul ferro, stirando. Vincenzina и una ragazza minuscola, con un viso schiacciato, come di gatto, bruna bruna, vivace. Sapevo che aveva un debole per me e, infatti, a un cenno che le feci col dito, lasciт subito il ferro e venne fuori. Disse, speranzosa: "Gino, beato chi ti vede."

Risposi: "Strega, и vero che vai dicendo in giro che Filomena, mentre sto a bottega, riceve gli uomini in casa?"

E lei, un po' delusa, dondolandosi, le mani nelle tasche del grembiale: "Ti dispiacerebbe?"

"Rispondi" insistetti: "sei stata tu a inventare quest'infamia?"

"Uh, quanto sei geloso" disse lei alzando le spalle "che sarа? una donna ora non potrа far quattro chiacchiere con un amico..."

"Dunque sei stata tu."

"Senti, mi fai compassione" disse ad un tratto quella vipera; "che vuoi che me ne importi di tua moglie... io non ho inventato niente... me l'ha detto Agnese... lei sa anche il nome di lui."

"Come si chiama?"

"Fattelo dire da lei."

Ormai ero sicuro che Filomena mi tradiva. Si sapeva anche il nome. Pensai involontariamente: "Per fortuna nella borsa non ho alcun ferro grosso, altrimenti potrei perder la testa e ammazzarla." Non riuscivo a capacitarmi: Filomena, mia moglie, con un altro. Entrai nella tabaccheria dove Agnese vendeva le sigarette per conto del padre. Gettai il denaro sul banco, dicendo: "Due nazionali."

Agnese и una ragazzetta di diciassette anni, con una foresta di capelli crespi e secchi ritti sulla testa. La faccia l'ha gonfia, infarinata di cipria rosa, pallida, senza colori, con due occhi neri come due bacche di lauro. La conoscevo come la conoscono tutti, in via dei Coronari. E come lo sapevano tutti, cosм sapevo anch'io che era interessata, capace, per denaro, di vendersi l'anima. Mentre mi dava le sigarette, mi chinai e le domandai: "Di' un po' come si chiama?"

"Ma chi?" rispose lei stupita.

"L'amico di mia moglie."

Mi guardт esterrefatta: dovevo avere una brutta faccia. Disse subito: "Io non so niente."

Cercai di sorridere: "Via, dimmelo... lo sanno tutti ormai, io soltanto non lo so."

Mi guardava fisso, scuotendo il capo; allora soggiunsi: "Guarda, se me lo dici ti do questo." E cavai di tasca un foglio da mille che avevo avuto quel mattino per la riparazione.

Alla vista del denaro, lei si turbт, manco le avessi parlato d'amore. Il labbro le tremт, si guardт intorno e poi mise la mano sul foglio, dicendo piano: "Mario."

"E tu come l'hai saputo?"

"Dalla tua portiera."

Dunque era proprio vero. Come nel gioco del freddo e del caldo, adesso eravamo giа nel mio palazzo. Presto saremmo stati nel mio appartamento. Uscii dalla tabaccheria e corsi a casa mia, qualche portone piщ in lа. Intanto ripetevo: "Mario", e a quel nome tutti i Mario che conoscevo mi sfilavano davanti gli occhi: Mario il lattaio, Mario l'ebanista, Mario il fruttivendolo, Mario che era stato soldato e ora era disoccupato, Mario il figlio dei norcino, Mario, Mario, Mario... A Roma i Marii saranno un milione e a via dei Coronari ce ne saranno cento. Entrai nel portone di casa mia, andai difilato alla bussola della portiera. Vecchia e baffuta come Fede, stava a gambe larghe, un braciere tra i piedi e un mucchio di cicoria da capare in grembo. Domandai, affacciandomi: "Dite un po' l'avete inventato voi che Filomena, in mia assenza, riceve un certo Mario?"

Irritata rispose subito: "Ma chi si inventa niente? и tua moglie che me l'ha detto."

"Filomena?"

"Giа... mi ha detto: deve venire un giovanotto cosм e cosм che si chiama Mario... se Gino и in casa, digli che non salga... ma se Gino non c'и, fallo pure salire... ora и su."

"И su?"

"E come... и salito che sarа quasi un'ora."

Dunque, non soltanto Mario esisteva, ma adesso stava con Filomena, in casa, da un'ora. Mi gettai per le scale, salii di corsa tre piani, bussai. Filomena stessa venne ad aprirmi: e subito notai che lei, sempre cosм placida e serena, sembrava spaventata. Dissi: "Brava... quando non ci sono, ricevi Mario."

"Ma quando mai?..." incominciт lei.

"So tutto", gridai; e feci per entrare. Allora lei mi sbarrт il passo dicendo: "Lascia perdere... che te ne importa? Torna piщ tardi."

Questa volta non ci vidi piщ. Le diedi uno schiaffo gridando: "Ah, и cosм, non deve importarmi?;" e poi, con una spinta la misi da parte e corsi in cucina.

Accidenti alle chiacchiere delle donne e accidenti alle donne. C'era, sм, Mario, seduto al tavolo, in atto di bere il caffиllatte, ma non era Mario l'ebanista, nй Mario il fruttivendolo, nй Mario il figlio del norcino, nй insomma alcuno dei tanti Marii a cui avevo pensato per strada. Era semplicemente Mario il fratello di Filomena che era stato in galera due anni per furto con scasso. Io, sapendo che un giorno sarebbe uscito, le avevo detto: "Guarda che in casa mia non ce lo voglio... non voglio neppure sentirne parlare." Ma lei, poveretta, che al fratello voleva bene con tutto che fosse ladro, aveva voluto riceverlo lo stesso in mia assenza. Mario, vedendomi cosм fuori di me, si era alzato in piedi. Dissi, ansimante: "Addio, Mario."

"Me ne vado" disse lui, moscio. "Non aver paura... me ne vado... eh che sarа?... manco fossi appestato."

Sentivo Filomena nel corridoio che singhiozzava e adesso mi vergognavo di quello che avevo fatto. Dissi, confuso: "No, rimani... per oggi rimani... rimani a colazione... non и vero Filomena" soggiunsi rivolto a lei che si era affacciata sulla soglia asciugandosi le lagrime "che Mario puт rimanere a colazione?" Basta, rimediai alla meglio, e poi andai in camera da letto, ci chiamai Filomena, le diedi un bacio e facemmo pace. Restava, perт, il fatto delle chiacchiere. Esitai e poi dissi a Mario: "Andiamo, Mario... vieni a bottega: puт darsi che il padrone qualche cosa ti faccia fare." Lui mi seguм; quando fummo per le scale soggiunsi: "Nessuno ti conosce qui... tu, in questi anni, sei stato a lavorare a Milano... intesi?"

"Intesi." Scendemmo la scala. Come fummo davanti la bussola della portineria, presi Mario per un braccio e lo presentai, dicendo: "Questo и Mario... mio cognato... viene da Milano... ora starа qui con noi."

"Piacere, piacere, piacere."

"Il piacere и tutto mio", pensai uscendo per la strada. Per le chiacchiere delle donne, ci avevo rimesso mille lire; e adesso, per giunta, ci avevo anche il ladruncolo in casa.

 

GLI AMICI SENZA SOLDI

 

Se ne dicono tante sull'amicizia, ma, insomma, che vuol dire essere amico? Basterа, come feci io, per cinque anni di seguito, vedere al bar di piazza Mastai sempre lo stesso gruppo, far la partita sempre con gli stessi giocatori, discutere di calcio sempre con gli stessi tifosi, andare insieme in gita, allo stadio, a fiume, mangiare e bere insieme alla stessa osteria? Oppure bisognerа, d'ora in poi, dormire nello stesso letto, mangiare con lo stesso cucchiaio, soffiarsi il naso nello stesso fazzoletto? Io, piщ ci penso a questa faccenda dell'amicizia, e piщ ci perdo la testa. Crediamo per anni e anni di essere intimi, pappa e ciccia come si dice, di volerci bene, di esser fratelli. E poi, tutto a un tratto, scopriamo invece che gli altri avevano tenuto le debite distanze e ci criticavano e magari ci avevano sulle corna e, insomma, non provavano per noi non dico il sentimento dell'amicizia ma neppure quello della simpatia. Ma allora, dico io, l'amicizia sarebbe un'abitudine come prendere il caffи o comprare il giornale; una comoditа come la poltrona o il letto; un passatempo come il cinema e la foglietta? Ma se и cosм perchй la chiamano amicizia e non la chiamano piuttosto in un altro modo?

Basta, io sono un uomo tutto cuore, di quelli che non credono al male. Cosм, quell'inverno, dopo aver avuto la polmonite, tra il medico che mi diceva che dovevo passare un mese almeno al mare, e i soldi che non c'erano perchй tutti i pochi risparmi se ne erano andati in medici e cure, dissi alla mamma che quelle trentamila lire che ci volevano me le sarei fatte prestare dagli amici del bar di piazza Mastai. La mamma non и come me: tanto io sono entusiasta, credulo, avventato, altrettanto lei и scettica, amara, prudente. Cosм, quel giorno, mi rispose, senza voltarsi dal fornello: "Ma quali amici, se durante la malattia non и venuto a trovarti neppure un cane?"


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