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Collana: Tascabili Bompiani 15 страница



"Sarebbe a dire?"

"Sarebbe a dire che и tempo di andare a letto." Guardт pomposamente l'orologio di quel giovanotto e soggiunse: "Il mio orologio fa le undici e mezzo... e il tuo?" Non dissi nulla, rimisi le scarpe nelle tasche dell'impermeabile e lo seguii,

Prendemmo il tram e tutto il tempo io mi rodevo per l'ingiustizia della mia sorte, e pensavo a quanto era cretino Lorusso, e come dovevo fare per ottenere che mi desse le sue scarpe in cambio delle mie. Come scendemmo dal tram, nel nostro quartiere, ricominciai a discutere e, perfino, visto che la ragione non serviva lo supplicai. "Lorusso, per me quelle scarpe sono la vita... Senza scarpe non posso piщ vivere... Se non vuoi farlo per farmi piacere, fallo almeno per amor di Dio." Ci trovavamo in una strada deserta, laggiщ, dalle parti di San Giovanni. Lui si fermт sotto un lampione e cominciт a girare il piede di qua e di lа, vanitosamente, per farmi rabbia. "Sono belle le mie scarpe, eh?... Ti fanno gola eh?... ma и inutile che ci sformi... tanto non te le do." Poi si mise a canticchiare: "Fai, fai, fai, non le hai avute e non le avrai." Insomma, mi sfotteva. Mi morsi le labbra e giuro che se ci avessi avuto le pallottole nella pistola, l'avrei ammazzato, non soltanto per le scarpe ma anche perchй non lo potevo piщ soffrire. Cosм, arrivammo allo scantinato, dove dormivamo. Bussammo alla finestra del seminterrato; il portiere, brontolando al solito, venne ad aprirci; e scendemmo nello scantinato. Lм c'erano cinque brande in fila, nelle prime tre dormivano il portiere e due figli suoi, giovanotti come noi; nelle ultime due, Lorusso ed io. Il portiere si fece pagare anticipato, poi spense la luce e se ne andт a letto, e noi, al buio, cercammo le brande e ci coricammo. Una volta, perт, sotto quella copertina leggera, ricominciai a pensare alle scarpe e, finalmente, presi una decisione. Lorusso dormiva vestito, ma sapevo che le scarpe se le toglieva e le metteva in terra, tra le due brande. Al buio mi sarei alzato, mi sarei messo le sue scarpe lasciandogli le mie, e poi me ne sarei andato, fingendo di recarmi al cesso che stava fuori, nell'ingresso dello scantinato. Pensai che mi conveniva far questo anche perchй c'era il caso che Lorusso avesse veramente ammazzato quell'uomo nella serra ed era meglio non restare insieme con lui. Lorusso il mio cognome non lo sapeva, conosceva soltanto il mio nome, e cosм, se l'avessero arrestato, non avrebbe saputo dire chi io fossi. Detto e fatto, mi alzo, metto i piedi in terra, pian piano mi chino, infilo le scarpe di Lorusso. Stavo per allacciarle quando mi sento dare un colpo violento: per fortuna mi mossi e il colpo mi sfiorт l'orecchio e mi prese sulla spalla. Era Lorusso che, al buio, mi aveva dato con quella maledetta chiave inglese. Io, dal dolore, questa volta persi la testa, mi alzai e gli diedi un pugno alla cieca. Lui mi afferrт per il petto cercando di darmi ancora con la chiave, e rotolammo insieme in terra. In quel chiasso, si svegliarono il portiere e i due figli e accesero la luce. Io gridavo: "Assassino;" e Lorusso, dal canto suo, urlava: "Ladro;" e gli altri gridavano anche loro e cercavano di separarci. Poi Lorusso diede un colpo con la chiave al portiere che era un omaccione e bastava un nonnulla per farlo infuriare; e il portiere prese una seggiola e cercт di colpire in testa Lorusso. Allora Lorusso si piantт in fondo allo scantinato, contro il muro, e agitando la chiave, incominciт a urlare: "Venite avanti se ci avete core. Vi faccio tutti fuori quanti siete... Sono il terrore di Roma", proprio come un pazzo, rosso in viso, gli occhi fuori dalla testa. In quel momento, io commisi l'imprudenza, tanto ero fuori di me, di gridare: "Attenti che poco fa ha ammazzato un uomo... и un assassino." A dirla in breve: mentre noi cercavamo di tener fermo Lorusso che urlava e si dibatteva come un ossesso, uno dei figli del portiere andт a chiamare gli agenti; e un po' io, un po' Lorusso, si venne a sapere del fatto della serra e ci arrestarono tutti e due.

Al commissariato dove ci portarono, bastт una telefonata, e subito ci dissero che eravamo quei due che avevano fatto il colpo a Villa Borghese.



Io dissi che era stato Lorusso e lui, questa volta, forse per le botte che aveva preso, non fiatт. Il commissario disse: "Bravi... siete proprio bravi... Rapina a mano armata e tentato omicidio."

Ma per capire quanto sia incosciente Lorusso, basta sapere che, dopo un momento, come riscuotendosi, domandт: "Domani che giorno и?"

Gli risposero: "Venerdм."

E lui allora, fregandosi le mani: "Uh, bene, domani a Regina Coeli c'и la minestra di fagioli." Cosм venni a sapere che era anche pregiudicato, mentre invece mi aveva sempre giurato che in prigione non ce l'avevano mai messo.

Poi mi guardai i piedi, vidi che mi erano rimaste le scarpe di Lorusso e pensai che, dopo tutto, avevo ottenuto quello che volevo.

 

L'AMICIZIA

 

Mariarosa и un nome doppio, e la donna che portava questo nome era doppia anche lei cosм nel fisico come nel morale. Aveva una facciona bianca e rossa, larga come la luna piena, sproporzionata al corpo che era normale; faceva pensare a quelle rose che si chiamano cavolone appunto perchй sono fitte e grosse come cavoli; e, insomma, subito, vedendola, si pensava che con una faccia simile se ne potevano fare facilmente due. Questa sua facciona, poi, era sempre placida, sorridente, serafica, tutto il contrario del carattere che, come mi accorsi a mie spese, era, invece, indiavolato. E per questo ho detto che era doppia anche nel morale.

Le avevo fatto la corte in tutti modi: prima rispettosa, galante, insinuante; poi, vedendo che non mi dava retta, avevo provato ad essere piщ entrante e aggressivo, aspettandola a mezza scala, sul pianerottolo piщ buio, cercando di baciarla per forza: ci avevo guadagnato qualche spintone e, per finire, uno schiaffo. Allora avevo pensato di fare lo sdegnoso, l'offeso, di non salutarla, di voltarmi dall'altra parte quando l'incontravo: peggio, pareva che non fossi mai esistito. Finalmente, mi ero fatto implorante, supplichevole, fino a pregarla con le lagrime agli occhi che mi volesse bene: niente. E almeno mi avesse scoraggiato completamente, una volta per tutte. Ma, maligna, proprio quando stavo per mandarla al diavolo, mi ripigliava con una frase, uno sguardo, un gesto. Piщ tardi, ho capito che per una donna i corteggiatori sono come le collane e i braccialetti: ornamenti di cui, se puт, preferisce di non disfarsi. Ma allora, a quello sguardo, a quel gesto, pensavo: "Eppure qualche cosa c'и sotto... riproviamo."

Improvvisamente seppi che quella civetta si era fidanzata con il mio migliore amico, Attilio. Mi fece rabbia per molti motivi: prima di tutto perchй me l'aveva fatta sotto il naso, senza dirmi niente; e poi perchй Attilio, ero io che gliel'avevo fatto conoscere; e cosм, senza saperlo, avevo retto il lume.

Ma sono un buon amico e per me l'amicizia passa avanti a tutto. Avevo voluto bene a Mariarosa; ma dal momento che era diventata la fidanzata di Attilio, per me era sacra. Lei avrebbe voluto, magari, continuare a stuzzicarmi; ma io glielo feci capire in tutti i modi e, alla fine, un giorno, glielo dissi chiaramente: "Tu sei una donna e l'amicizia non la capisci... Ma tu, da quando ti sei messa con Attilio, per me и come se non ci fossi... Non ti vedo e non ti sento... inteso?"

Lм per lм, sembrт che mi desse ragione. Siccome perт continuava a civettare, decisi di non vederla piщ e tenni la parola. Seppi piщ tardi che si erano sposati ed erano andati ad abitare presso la sorella di lei che faceva l'infermiera. E che Attilio, il quale nove giorni su dieci era sempre disoccupato, aveva trovato da fare come facchino presso una ditta di trasporti. Mariarosa, invece, faceva come prima la stiratrice ma a giornata. Queste informazioni, in certo senso, mi tranquillizzarono. Sapevo, insomma, che non stavano bene e che il matrimonio molto bene non poteva andare. Ma da buon amico leale, continuai a non farmi vivo. Un amico и un amico e l'amicizia и sacra.

Sono stagnaro e, si sa, gli stagnari girano da una casa all'altra e, girando, capitano anche dove non vorrebbero capitare. Uno di questi giorni, mentre andavo da un cliente con la borsa dei ferri a tracolla, e un doppio giro di tubi di piombo intorno al braccio, passando per Ripetta mi sentii chiamare per nome: Ernesto. Mi voltai, era lei. A vederla, con quella sua facciona soda, placida e sorniona sulla personcina dalla vita di vespa e dai fianchi e dal petto rotondi, mi tornт il sentimento e quasi rimasi senza fiato. Ma pensai: "Sei un amico... comportati da amico." Dissi, asciutto: "Chi non more si rivede."

Lei aveva il fagotto della spesa sotto il braccio, pieno di verdura e di pacchi di carta gialla. Disse, sorridendo: "Non mi riconosci?"

"Se ti ho detto: chi non more si rivede."

"Perchй non mi accompagni a casa?" riprese. "Giusto stamattina mi sono accorta che il tubo del lavandino in cucina non butta piщ... accompagnami, su."

Risposi, con lealtа: "Se и per una riparazione, va bene... Lei mi lanciт una di quelle sue occhiate che un tempo mi facevano girare la testa e soggiunse: "Perт dovresti portarmi il fagotto..." E cosм eccomi, carico come un somaro, con la borsa dei ferri, i tubi di piombo e il fagotto della spesa, dietro di lei che mi precedeva.

Andammo non tanto lontano, in una traversa di via Ripetta, entrammo in un portoncino che pareva l'ingresso di una grotta, salimmo per una scala da vergognarsi, umida, buia, puzzolente. A metа scala, lei si voltт e disse sorridendo: "Ti ricordi quando ti appostavi sul pianerottolo, al buio... che paura mi facevi... o te lo sei giа dimenticato?" Risposi, rigido: "Mariarosa, non ricordo niente... ricordo soltanto che sono amico di Attilio e che l'amicizia passa avanti a tutto." Lei disse, sconcertata: "E chi ti ha detto che non dovresti essergli amico?"

Entrammo nell'appartamento: tre stanzette sotto il tetto, con le finestre su un cortile che pareva un pozzo, nero e senza sole. In cucina non ci si rigirava e la porta-finestra dava sul balconcino dove c'era il cesso. Mariarosa sedette su una seggiola, a gambe larghe, il grembo pieno di fagioli da capare; e io, posata la borsa sul pavimento, mi inginocchiai presso l'acquaio per fare la riparazione. Vidi subito che il tubo era marcio e che bisognava rimetterlo nuovo; e l'avvertii: "Guarda che bisogna rimettere il tubo nuovo... te la senti di pagarlo?"

"E l'amicizia?"

"E va bene" dissi con un sorriso, "te lo metto gratis... vuol dire che in cambio mi darai un bacio."

"E l'amicizia?" Mi morsi le labbra, pensando: "Amicizia a doppio taglio;" ma non dissi nulla. Presi le tenaglie, svitai la guarnizione che era marcia come il tubo, tolsi il tubo, tirai fuori dalla borsa la macchinetta per le saldature, ci versai la benzina, sempre in silenzio. A questo punto la sentii che mi domandava: "Tu sei veramente amico di Attilio?"

Mi voltai a guardarla: stava con gli occhi abbassati, sorridente, melliflua, intenta ai fagioli. Dissi: "E come no..."

"Allora" continuт tranquilla "con te posso parlare liberamente.. vorrei proprio sapere da te che lo conosci bene, se certe mie impressioni sono giuste."

Risposi che parlasse pure; intanto avevo acceso la fiamma e la regolavo. Lei riprese: "Per esempio, non ti pare che quel posto che ha trovato non и roba per lui... fare il portatore..."

"Vuoi dire il facchino..."

"Fare il portatore non и un mestiere, io insisto perchй studi da infermiere... poi mia sorella potrebbe farlo entrare al Policlinico..."

Intanto avevo innestato il tubo. Presi la macchinetta e quasi senza pensarci, tenendola sospesa, domandai: "Tu vuoi la veritа o vuoi i complimenti?"

"La veritа."

"Beh, io sono amico di Attilio, ma questo non mi impedisce di vederne i difetti... Prima di tutto и pigro."

"Pigro?" Presi un pezzo di stagno, avvicinai la macchinetta e cominciai la saldatura. La fiamma ruggiva e io, per vincere il rumore, alzai la voce: "Sм, pigro... tu cara mia dovrai abituarti ad avere un marito sfaccendato... io sм che sono lavoratore... lui no; a lui piace alzarsi tardi, gironzolare, andare al caffи, leggersi il giornale con le notizie sportive, discuterle... giusto il facchino, magari... ma l'infermiere che и un mestiere di responsabilitа... no, non ce lo vedo."

"Ma io" riprese lei sempre con quella sua voce calma e riflessiva "non sono neanche sicura che ce l'abbia questo posto... dice di andare al lavoro... soldi perт non ne ho ancora visti... comincio a pensare che possa avermi detto qualche bugia... tu che ne dici?"

"Bugie?" risposi senza riflettere. "Ma quello и il piщ gran bugiardo che io conosca... quello ti fa vedere lo stravedere... quanto a bugie, puoi stare tranquilla..."

"И proprio quello che pensavo... ma se non va al lavoro che farа? Io non credo che proprio non faccia altro che gironzolare e andare al caffи... qualche cosa ci deve essere... va sempre cosм di fretta, и sempre cosм preoccupato." Si interruppe per prendere dal tavolo una pentola in cui mettere i fagioli giа capati. La guardai, al di sopra della spalla: sorridente, tranquilla, serena. Riprese dopo un momento: "Sai che penso? che ci abbia una donna... tu che lo conosci, mi puoi dire se и vero."

Una voce, dentro di me, mi avvertiva: "Attento, Ernesto, vacci piano... c'и il tranello." Ma sia che il rancore fosse piщ forte della prudenza, sia che vedendola sparlare a quel modo del marito, cominciassi di nuovo a sperare per me, non potei fare a meno di rispondere: "Dico che hai ragione... le donne per lui sono tutto... belle o brutte, giovani o vecchie... non lo sapevi?"

La saldatura era finita. Spensi la macchinetta e con il dito pareggiai lo stagno ancora molle. Quindi cominciai a stringere il dado con la chiave inglese. Lei intanto, calma, diceva: "Sм, qualche cosa sapevo, ma niente di preciso... ora, pensa che idea mi и venuta... che se la intenda con Emilia, quella ragazza, la conosci? coi capelli rossi, che lavorava insieme con me nella stireria... tu che ne dici?"

Mi alzai in piedi. Mariarosa, che aveva messo i fagioli nella pentola, si alzт anche lei, scuotendo la veste per farne cadere i baccelli. Poi andт all'acquaio, mise la pentola sotto il rubinetto e fece scorrere l'acqua. Le andai dietro e la presi con le due mani per quella sua vita cosм snella dicendo: "Sм, и vero, vede Emilia tutti i giorni, verso sera, l'aspetta fuori della stireria e l'accompagna a casa. Ora sai tutto: che aspetti?"

Lei voltт appena il viso, sorridendo, e rispose: "Ernesto, non hai detto che gli eri amico? Lasciami!" Per tutta risposta, cercai di abbracciarla. Ma lei si svincolт e disse, dura: "Ora hai fatto la riparazione... и meglio che te ne vai." Mi morsi la lingua e risposi: "Hai ragione... ma tu mi fai perdere la testa... bisogna che mi ricordi sempre che sono amico di Attilio e che tu sei sua moglie." Cosм dicendo, mortificato, raccolsi i ferri, feci per salutarla e andarmene. In quel momento la porta della cucina si aprм e Attilio comparve.

Mi salutт, contento, da amico: "Addio, Ernesto." Risposi: "Mariarosa mi aveva pregato di riparare il tubo... и fatto: ci ho messo il tubo nuovo."

"Grazie", disse lui, avvicinandosi; "grazie tanto..." In quel momento la voce di Mariarosa, calma ma sforzata, ci fece voltare tutti e due: "Attilio..."

Stava ritta presso il fornello, un sorriso in mezzo alla faccia, la mano posata sul marmo. Continuт, tutto in un fiato, senza alzare la voce: "Attilio, anche Ernesto dice che sei pigro e che non hai voglia di lavorare..."

"Hai detto questo?"

"E, come pensavo, ha detto pure che sei un gran bugiardo e che, forse forse, non hai neanche il posto di facchino..."

"Hai detto questo?"

"E poi mi ha confermato quello che giа sapevo: che vedi Emilia tutti i giorni e fai l'amore con lei... mentre io faccio la serva, e sgobbo a stirare per le case, tu ti diverti con Emilia... e a me dici che vai al lavoro... и inutile che dici di no, ormai... Ernesto, che ti и amico e ti conosce, mi ha confermato ogni cosa..." Parlava con voce calmissima e io, per la prima volta, compresi che mi ero lasciato andare a confidarmi con una matta. Infatti, aveva appena finito di parlare, mentre lui, brutto, mi si avvicinava ripetendo: "Hai detto questo?", che prese un ferro da stiro, di ferro, che stava sul fornello e glielo scaraventт in testa. Con tanta precisione che se lui non abbassava il capo, lo ammazzava. Poi quel che avvenne, non saprei ridirlo. Lei rigida, tranquilla e pazza, continuava a prendere dal fornello oggetti pesanti e pericolosi, come coltelli, mattarelli, pentole, e a tirarglieli dietro; lui, dopo due o tre tentativi di schermirsi, infilт la porta e scappт. Scappai anch'io abbandonando in terra quei due o tre metri di tubo di piombo, e presi per le scale a precipizio, mentre lui urlava. "Non farti rivedere, sai... se ti rivedo, ti ammazzo." Non mi sentii sicuro se non quando ebbi passato il ponte e mi ritrovai tra i giardinetti di piazza della Libertа. Qui sedetti su una panchina, per rifiatare. Allora pensai che era stata l'amicizia a farmi parlare, proprio perchй sapevo che Attilio era fatto a quel modo e mi dispiaceva; e giurai dentro di me che da quel giorno non sarei piщ stato amico a nessuno.

 

LA ROVINA DELL'UMANIT·

 

Verso la metа di febbraio cadde la tramontana che mi aveva fatto tanto soffrire durante l'inverno, il cielo si riempм di nuvole e prese a soffiare un vento umido che pareva venire dal mare. Ai soffi di questo vento mi sentii rianimare, benchй in una maniera triste, come se mi avesse sussurrato all'orecchio: "Su, coraggio, finchй c'и vita c'и speranza." Ma proprio perchй sentivo che l'inverno era finito e cominciava la primavera, capii che non ne potevo piщ di andare a lavorare nel laboratorio dello zio. Ero entrato nel laboratorio un anno prima, come un treno entra in una galleria, e ancora non ne ero uscito e non vedevo neppure il chiarore dell'uscita. Non che fosse un lavoro spiacevole o antipatico: c'и di peggio. Il laboratorio era un grande capannone, situato in fondo ad un terreno cintato, che serviva da deposito ad una fabbrica di laterizi, a mezza strada sulla Via della Magliana. Dentro il capannone, l'aria era sempre piena della farina bianca della segatura, come in un mulino; in mezzo a questo polverio, nel ronzio continuo delle seghe e dei torni elettrici, ci muovevamo noialtri lavoranti e lo zio, infarinati come mugnai, affaccendati il giorno intero a fabbricare mobili e infissi. Lo zio, poveretto, mi voleva bene come ad un figlio; i lavoranti erano tutti buona gente, e, come ho giа detto, non era un lavoro antipatico: prima un tronco di quercia e di acero o di castagno, storto, lungo, appoggiato alla parete del laboratorio, con tutta la corteccia e, magari, dentro la corteccia, ancora le formiche che ci abitavano quando era un albero; poi, a forza di sega, tante assi bianche e pulite; poi; fuori da queste assi, col tornio, con la pialla, con gli altri strumenti, secondo i casi, gambe di tavoli, parti di armadi, cornici; e finalmente, una volta inchiodato, avvitato, incollato il mobile, la verniciatura e la lucidatura. Per chi lavora volentieri, questo progresso dal tronco dell'albero al mobile puт anche diventare una passione; ed и sempre interessante, o per lo meno non и noiosa. Ma si vede che sono fatto in maniera diversa dagli altri: dopo qualche mese, io, di questo lavoro, non ne potevo piщ. E non tanto perchй non sono lavoratore, ma perchй mi piace fermarmi ogni poco nel lavoro e guardarmi intorno: cosм, per vedere chi sono, dove sono, a che punto sono arrivato. Lo zio, invece, era proprio il contrario di me: lavorava sempre, con accanimento, con passione, senza mai rifiatare nй riflettere; e cosм da una seggiola ad un infisso, da un infisso ad un armadio, da un armadio a un comodino, da un comodino ad una seggiola era arrivato a cinquant'anni, che tanti ne aveva, e si capiva che avrebbe continuato a quel modo fino alla morte, che sarebbe stata un po' la morte, di un tornio che si spezza o di una sega che perde i denti, la morte, insomma, di uno strumento e non di un uomo. E infatti, la domenica, quando si metteva gli abiti della festa e se ne andava lento lento, per i marciapiedi di Via Arenula, insieme con la moglie e coi figli, gli occhi socchiusi, la bocca storta e due rughe profonde tra la bocca e gli occhi, sembrava proprio uno strumento fuori uso, inutile, spezzato; e non potevo fare a meno di ricordare che quella faccia gli era venuta a forza di chinarsi sul tornio e sulla sega e di strizzare gli occhi nel polverio della segatura; e mi, dicevo che non valeva la pena di vivere se ogni tanto non ci si fermava e non si pensava che si stava vivendo.

L'autobus che parte dalla stazione di Trastevere va e torna dalla campagna. Contadini, operai, ogni sorta di povera gente, ci portano il fango delle scarpe, il puzzo di sudore dei panni di fatica e, forse, anche qualche insetto. Cosм al capolinea ci buttano sul pavimento e perfino sui sedili non so che disinfettante puzzolente che prende alla gola e fa piangere come la cipolla. Una di quelle mattine dolci di febbraio, mentre aspettavo che l'autobus partisse, gli occhi pieni di lagrime per via del disinfettante, il vento marino che entrava dai finestrini mi diede una gran voglia di andarmene per conto mio, per fermarmi un poco a riflettere sopra me stesso. Cosм, quando discesi davanti il laboratorio, invece di avviarmi a destra, verso il capannone, andai a sinistra, verso i prati che stanno tra lo stradone e il Tevere. Presi a camminare sull'erba pallida, nel vento fiacco e umido, incontro il cielo pieno di nuvole bianche. Il Tevere non lo vedevo perchй in quel punto scorre in una piega del terreno; al di lа del Tevere vedevo le fabbriche abbandonate dell'E 42, il palazzo con tutti gli arconi che pare una colombaia, la chiesa con la cupola e le colonne che non reggono nulla e sembrano colonne di legno di un gioco di costruzioni per bambini. Dietro di me c'era la zona industriale di Roma: gli alti forni con i lunghi pennacchi di fumo nero; i capannoni delle fabbriche, pieni di finestroni; i cilindri bassi e larghi di due o tre gasometri, quelli alti e stretti dei silos. Pensando agli operai che faticavano in quelle fabbriche, l'ozio mi pareva piщ saporito. Mi sentivo tutto sornione e in agguato, come se fossi andato a caccia. E, in veritа, andavo a caccia, ma non di uccelletti, bensм di me stesso.

Giunto al Tevere, ad un punto che la costa и meno ripida, mi lasciai sdrucciolare giщ per il pendio fino alla riva e sedetti tra i cespugli. Ad un passo dai miei piedi scorreva il Tevere, e lo vedevo girare come una serpe per la campagna, con la luce abbagliante del cielo rannuvolato sulla pelle gialla e grinzosa. Al di lа del Tevere, c'erano altri prati di un verde pallido e, sparse per i prati, tante pecore che brucavano, gonfie di lana sporca, con qualche agnellino proprio bianco qua e lа, cui la lana non aveva fatto a tempo di insudiciarsi. Stavo seduto con le ginocchia tra le braccia e guardavo fisso all'acqua gialla che in quel punto faceva un mulinello fuori dal quale sporgeva un ramo nero, ispido e arruffato che pareva la capigliatura di un'annegata. Allora, in quel silenzio, mentre quel ramo nero come l'ebano tremava alle scosse della corrente ma non si muoveva, mi sentii tutto ad un tratto come ispirato; e non con il pensiero ma con un senso piщ profondo del pensiero mi parve di aver capito una cosa molto importante. O meglio, di poterla capire, soltanto che mi fossi sforzato di arrivarci. Stava, insomma, questa cosa in bilico, come si dice che le parole stanno sulla punta della lingua. E io, per fermarla e impedirle di ricadere giщ nel buio, dissi improvvisamente ad alta voce: "Mi chiamo Gerardo Mucchietto."

Subito, una voce canzonatoria che veniva dall'alto, disse: "Soprannominato Mucchio... ma che, parli solo?"

Mi voltai e proprio sopra di me, ritta in piedi sulla costa, vidi la figlia del custode del deposito di laterizi, Gioconda, in gonna di velluto nero e maglia rossa, senza calze, i capelli al vento. Ora, di tutte le persone che conoscevo al mondo, proprio Gioconda era quella che avrei meno desiderato di vedere in quel momento. Si era incapricciata di me e mi perseguitava, sebbene le avessi fatto capire in tutti i modi che non mi piaceva. Cosм, mi venne subito l'impulso di dirle qualche cosa di sgradevole, in modo che andasse via e io potessi restar solo e tornare a quella cosa che ero stato lм per lм per capire quando venuta. Le dissi, senza muovermi: "Guarda, che ti si vedono le gambe."

E lei, sfacciata, scivolandomi accanto: "Permetti che ti tenga compagnia?"

"Non so che farmene della tua compagnia" dissi sempre senza guardarla "e poi come fai a sederti qui in terra... con tutta quella polvere?" La vidi sollevare la veste e sedere giщ, soddisfatta, dicendo: "Tanto non ho le mutande." La cosa cui volevo pensare era sempre lм, per fortuna, in bilico sull'orlo della mente, come un uccello sopra un davanzale. Gioconda, intanto, tutta zuccherosa, mi si attaccava al braccio e mi diceva: "Gerardo perchй sei cosм perfido?... io ti voglio tanto bene."

"Non sono perfido, non mi piaci, ecco tutto."

"E perchй non ti piaccio?"

Dissi in fretta, con la paura che, parlando, quella cosa a cui volevo pensare se ne andasse: "Non mi piaci perchй hai una facciona rossa piena di foruncoli... sembri una rosa cavolona..."

Che avrebbe fatto un'altra dopo una frase come quella? Se ne sarebbe andata subito. Ma lei invece, stringendosi contro di me, civetta: "Gerardino, perchй non sei piщ gentile con me?"

"Sм, lo sarт" dissi disperato, "purchй tu te ne vada."

"Che, aspettavi un'altra donna, Gerardino?"

"No, nessuno, volevo star solo."

"Perchй solo? Stiamo invece insieme... и cosм bello stare insieme."

Questa volta non dissi nulla: la cosa era sempre lа, sull'orlo, e sentivo che sarebbe bastato un nonnulla per farla rientrare nel buio donde era uscita. Fu a questo punto che Gioconda esclamт: "Vuoi vedere che indovino quello a cui stai pensando?"

Punto sul vivo risposi: "Non indovini neppure se ci pensi cent'anni."

"E io invece ti dico che lo indovino... vediamo se ho ragione... io dico che tu stavi pensando a queste mie calzettine arrotolate alla caviglia, assortite con la maglia... di' la veritа, stavi pensando a questo." Cosм dicendo stese la gamba, grossa e rossa, coperta di peli biondi, mostrando il piede con il calzerotto color fragola. Io non potei fare a meno di levare gli occhi verso quel piede e, tutto ad un tratto, avvertii che quella cosa era ricaduta giщ, dall'altra parte, nell'oscuritа. Non sentivo piщ niente, non capivo piщ niente, ero vuoto, morto, inerte, come le panche di legno stagionato che lo zio teneva appoggiate al muro nel laboratorio. Al pensiero di aver perduto di vista quella cosa tanto bella e importante per colpa delle chiacchiere di quella stupida, mi venne ad un tratto una grandissima rabbia e gridai, voltandomi bruscamente: "Ma perchй sei venuta?... Sei la mia disgrazia... non potevi lasciarmi solo?" E siccome lei continuava a stringermi per il braccio, mi liberai con forza e la colpii sulla testa. Ma lei si aggrappava, cocciuta, sebbene la picchiassi su quel testone biondo: allora mi levai in piedi, l'acciuffai per i capelli e la buttai a terra sul greto e la pestai coi piedi per tutto il corpo e persino sulla testa. Lei, acciambellata, il viso tra le mani, gemeva, e cacciт anche qualche strillo, ma non si ribellт: forse era contenta. Perт, quando mi fui stancato di pestarla, si levт e, tutta impolverata, si allontanт singhiozzando. Io gridai forte: "Voi donne siete la rovina dell'umanitа." Lei, sempre singhiozzando si avviт per un viottolo, lungo il greto del Tevere, e scomparve.

Ma ormai quella cosa era volata via e, adesso, sebbene fossi solo, mi sentivo altrettanto inerte, sordo e vuoto che quando c'era Gioconda. Non c'era nulla da fare, per quel giorno, e chissа per quanto tempo ancora non avrei piщ ritrovato un'occasione come quella. Pieno di rabbia e al tempo stesso incerto e smanioso, girai tutta la mattina per quei prati, maledicendo Gioconda e la sorte, senza riuscire a fermarmi nй con il pensiero nй con il corpo. Finalmente capii che non mi restava che tornare al laboratorio e ci andai. Gioconda, tra i mucchi di laterizi, una pentola in braccio, spargeva il mangime alle galline e mi salutт da lontano con un sorriso. Io non risposi ed entrai nel capannone. "Voglia di lavorare saltami addosso", gridт lo zio vedendomi. Non dissi nulla, mi misi la tuta e ripresi il tornio al punto preciso dove l'avevo lasciato il giorno prima.


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