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Collana: Tascabili Bompiani 10 страница



"Il taxi и mio... se volete far l'amore, ci sono i macchiozzi di Villa Borghese."

Lui mi guardт un momento e poi disse: "E va bene, ringrazia il Cielo che sto con la signorina... portaci al Gianicolo."

Non dissi nulla e li portai al Gianicolo. Era ormai notte, e loro scesero dicendomi di aspettare e si accostarono al parapetto e per un pezzo stettero a guardare il panorama di Roma. Poi tornarono e lui disse: "Adesso andiamo ai Cavalieri di Malta."

"Ma sono giа mille lire."

"Cammina, non aver paura."

Dal Gianicolo ai Cavalieri di Malta и un viaggio. Nel taxi, mi sa che si baciassero ancora, ma ormai non me n'importava piщ, volevo soltanto i soldi. Ai Cavalieri di Malta, in quelle strade deserte, mi fecero fermare a Santa Sabina. Lм c'и una piazza e c'и l'ingresso di un giardino cinto da mura, che guarda al Tevere. Di nuovo mi dissero di aspettare, discesero ed entrarono nel giardino. Era buio, con l'aria dolce, le ultime rondini che svolazzavano prima di andare a dormire, il profumo delle magnolie cosм forte che intontiva. Proprio un luogo da innamorati: e pensando che, dopo tutto, quei due avevano ragione di baciarsi e che, al loro posto, io avrei fatto lo stesso, li aspettai volentieri. Cosм attesi forse mezz'ora, riposandomi in quell'ombra silenziosa e fresca. Tutto ad un tratto l'occhio mi andт al tassametro, vidi che segnava duemila lire, mi riscossi, scesi, entrai nel giardino. Mi bastт uno sguardo per vedere che era deserto, con tutte le panchine vuote sotto gli alberi. C'era un altro ingresso che dava su via di Santa Sabina, di lм certo erano usciti, per scendere poi, allacciati, da veri innamorati, giщ giщ, fino al Circo Massimo. Insomma, me l'avevano fatta.

Nero, maledicendo la mia disgrazia, andai giщ anch'io, al chiaro di luna. All'obelisco di Aksum, una guardia mi fermт: "In contravvenzione... non lo sapete che di notte non si gira coi fanali spenti?"

Ma al Colosseo, ecco finalmente un cliente secondo il mio cuore: un gobbo, in camicia bianca, col collo aperto alla robespierre, la giacca sotto l'ascella, la gobba alta sulla testa senza collo. "Troppo tardi", mormorai tra i denti. "Che dice?" fece lui salendo. "Niente, dove andiamo?" Mi disse l'indirizzo, accesi il motore e partii.

 

I GIOIELLI

 

Quando in una compagnia di amici entra una donna, allora potete dire senz'altro che la compagnia sta per sciogliersi e ognuno sta per andarsene per conto suo. Eravamo, quell'anno, una compagnia di giovanotti affiatati come pochi, sempre uniti, sempre d'accordo, sempre insieme. Guadagnavamo tutti molto bene, Tore con il garage, i due fratelli Modesti con la sensaleria di carne da macello, Pippo Morganti con la pizzicheria, Rinaldo con il bar, e io con le cose piщ diverse: in quel momento trattavo in resina e prodotti affini. Sebbene fossimo tutti sotto i trent'anni, nessuno di noi pesava meno di ottanta, novanta chili: tutti buone forchette, come si dice. Di giorno lavoravamo; ma a partire dalle sette stavamo sempre insieme, prima al bar di Rinaldo, in corso Vittorio, poi in una trattoria con giardino dalle parti della Chiesa Nuova. Le domeniche le passavamo insieme, naturalmente: ora allo stadio per la partita, ora in gita ai Castelli, ora, alla stagione calda, a Ostia o a Ladispoli. Eravamo sei ma si puт dire che fossimo uno solo. Cosм, quando a uno di noi, mettiamo, veniva un capriccio, poi veniva anche agli altri cinque. Per i gioielli, cominciт Tore: una sera si presentт in trattoria, portando al polso un cronometro d'oro massiccio, con il cinturino d'oro anch'esso, a maglia, largo tre dita. Gli domandammo chi gliel'avesse regalato; e lui: "Il direttore della banca d'Italia", intendendo che se l'era comprato con i soldi suoi. Poi se lo sfilт e ce lo mostrт: era un orologio di marca, con due casse, segnava i secondi e pesava, con quella maglia cosм erta, non si sa quanto. Fece impressione. Qualcuno disse: "Un investimento." Ma Tore rispose: "Macchй investimento... Mi fa piacere di portarlo al polso, ecco tutto." Il giorno dopo, alla solita trattoria, giа Morganti aveva il suo orologio, anche lui con il cinturino d'oro, ma non cosм pesante. Poi fu la volta dei fratelli Modesti che se ne comprarono uno ciascuno, piщ grande di quello di Tore ma con la maglia piщ rada e piщ larga. Quanto a Rinaldo e a me, siccome ci piaceva quello di Tore, gli domandammo dove l'avesse preso e andammo insieme a comprarcelo, in un buon negozio del Corso.



Era maggio e spesso, la sera, andavamo a Monte Mario, all'osteria, a bere vino e mangiare la fava fresca e il pecorino. Una di quelle sere Tore allunga una mano per prendere una fava e tutti noi gli vediamo al dito un anello massiccio, con un brillante non tanto grande ma bello. "Caspita", esclamammo. Lui disse brutalmente: "Ora perт non mi imitate, scimmie che siete... Questo me lo sono comprato per distinguermi." Tuttavia se lo sfilт e noi ce lo passammo: era proprio un bellissimo brillante, limpido, perfetto. Ma Tore и un omaccione un po' molle, con una faccia piatta e tremolante, due occhietti piccoli di porco, un naso come di burro e una bocca che sembra una borsa sgangherata. Con quell'anello al dito grasso e piccolo e quell'orologio al polso tozzo, sembrava quasi una donna. L'anello con il brillante, come voleva lui, non fu imitato. Perт ci comperammo tutti il nostro bravo anello. I Modesti si fecero fare due anelli eguali, d'oro rosso, ma con due pietre dure diverse, una verde e una turchina; Rinaldo si comperт un anello un po' all'antica, traforato e cesellato, con un cammeo marrone in cui si vedeva una figurina bianca di donna nuda; Morganti, sempre sbruffone, acquistт un anello addirittura di platino, con una pietra nera; io, piщ regolare, mi contentai di un anello a castone quadrato, con una pietra gialla piatta in cui feci incidere le mie iniziali, cosм da servirmene per sigillare le ceralacche dei pacchi. Dopo gli anelli, fu la volta dei portasigarette. Cominciт, al solito, Tore, facendoci scattare sotto il naso un astuccio lungo e piatto, d'oro naturalmente, a rigatura incrociata; e poi tutti lo imitarono, chi in un modo e chi in un altro. Dopo il portasigarette, ci sbizzarrimmo: chi si comperт un braccialetto con il ciondolo da portare all'altro polso; chi la penna stilografica aerodinamica; chi la catenella con la crocetta e la medaglia della Madonna da appendere al collo; chi l'accendino. Tore, piщ vano di tutti, si fece altri tre anelli; e adesso piщ che mai pareva una donna, specie quando si toglieva la giacca e restava in camiciola con le mezze maniche, mostrando quelle sue braccione molli che finivano nelle mani piene di anelli.

Eravamo carichi di gioie; e, non so perchй, fu proprio allora che le cose cominciarono a guastarsi. Roba di poco perт: qualche canzonatura, qualche frase un po' pungente, qualche risposta secca. Finchй una di quelle sere, Rinaldo, il proprietario del bar, si presentт con una ragazza, la nuova cassiera, alla solita trattoria. Si chiamava Lucrezia, forse non aveva ancora vent'anni, ma era giа formata come una donna di trenta. Aveva le carni bianche come il latte, gli occhi neri, grandi, fermi e senza espressione, la bocca rossa, i capelli neri. Pareva proprio una statua, anche perchй stava sempre composta e immobile, senza quasi parlare. Rinaldo ci confidт che l'aveva trovata con un annuncio economico e disse che non sapeva niente di lei, neppure se avesse famiglia e con chi vivesse. Era proprio quello che ci voleva, soggiunse, per la cassa: una ragazza cosм faceva affluire i clienti con la sua bellezza e poi, con la sua serietа, li teneva a distanza; una brutta non attira e una bella ma facile non lavora e provoca disordine. Quella sera la presenza di Lucrezia ci mise in soggezione: stemmo tutto il tempo impettiti, con le giacche addosso, parlando con ritegno senza scherzi nй parolacce, mangiando con educazione; e perfino Tore si provт a tagliare la frutta con il coltello e la forchetta, senza molto successo perт. Il giorno dopo ci precipitammo tutti al bar per vederla nelle sue funzioni. Stava seduta su uno sgabello minuscolo dal quale traboccavano i fianchi che erano giа troppo larghi per la sua etа; con il petto prepotente quasi premeva i tasti della macchina contabile. Restammo tutti a bocca aperta vedendola, calma, precisa, senza fretta, distribuire i foglietti col prezzo, premendo via via i tasti della macchina senza neppure guardarli, fissando gli occhi davanti a sй, verso il banco del bar. Ogni volta, con una voce tranquilla, impersonale, avvertiva il barista: "due espressi... un bitter... un'aranciata... una birra." Non sorrideva mai, non guardava mai il cliente; e sм che c'erano di quelli che le venivano fin sotto il naso per essere guardati. Era vestita con proprietа, ma da quella ragazza povera che era: un vestito bianco, sbracciato, semplice. Ma pulito, fresco, stirato. Non aveva gioielli, lei, neppure gli orecchini, sebbene ci avesse i buchi ai lobi degli orecchi. Noi, si capisce, vedendola cosм bella, cominciammo a scherzare, incoraggiati da Rinaldo che ne era fiero. Ma lei, dopo i primi scherzi, disse: "Ci vediamo stasera in trattoria, no?... Intanto lasciatemi perdere... quando lavoro non mi piace di essere disturbata." Tore a cui erano rivolte queste parole, perchй era il piщ sguaiato e entrante, disse con finta meraviglia: "Scusate, sapete... siamo povera gente... non sapevamo di avere a che fare con una principessa... scusate... non volevamo offendere." E lei, secca: "Non sono un principessa ma una povera ragazza che lavora per campare... e non mi avete offesa... un caffи e un bitter." Insomma, ce ne andammo via quasi mortificati.

La sera, ci incontrammo, al solito, in trattoria, Rinaldo arrivт con Lucrezia per ultimo; e noi si ordinт subito da mangiare. Per un poco, mentre aspettavamo i piatti, ricominciт la soggezione; poi l'oste portт un gran vassoio con il pollo alla romana, spezzato, col sugo di pomodoro e i peperoni. Allora ci guardammo in faccia e Tore, interpretando il sentimento comune, esclamт: "Sapete che vi dico? A tavola mi piace stare in libertа... fate come me e vi troverete bene." Cosм dicendo afferrт una coscia e, con le due mani piene di anelli, se la portт alla bocca e prese a divorarla. Fu il segnale; dopo un momento di esitazione tutti mangiavamo con le mani; tutti salvo Rinaldo e, naturalmente, Lucrezia che spelluzzicт appena appena un pezzetto di petto. Dopo quel primo momento, rinfrancati, tornammo in tutto e per tutto alla cagnara antica: mangiavamo parlando e parlavamo mangiando; buttavamo giщ, sul boccone, bicchieri rasi di vino; ci sdraiavamo sulla seggiola; raccontavamo le solite storie ardite. Anzi, forse per sfida, ci comportavamo peggio del solito; e non ricordo di aver mangiato mai tanto e cosм di gusto come quella sera. Finito il pranzo, Tore allentт la fibbia alla cinghia dei pantaloni e fece un rutto profondo, da far tremare il soffitto, se non fossimo stati, invece, all'aperto, sotto un pergolato. "Auffa, mi sento meglio", dichiarт. Prese uno stecchino, e, come sempre faceva, cominciт a sforacchiarsi tutti i denti, uno per uno, e poi daccapo; e finalmente, lo stecchino fisso all'angolo della bocca, ci raccontт non so che storia proprio scollacciata. Lucrezia, allora, si alzт e disse: "Rinaldo, mi sento stanca... Se non ti dispiace, accompagnami a casa." Tutti ci lanciammo un'occhiata significativa: era cassiera da due giorni appena e giа gli dava dei tu e lo chiamava per nome. Altro che annunzio economico nel giornale. Se ne andarono, e, appena partiti, Tore fece un altro rutto e disse: "Era tempo... non ne potevo piщ... avete visto che superbia?... e lui che le andava dietro buono buono... un agnello... perт l'annunzio economico... diciamo piuttosto che era un annunzio matrimoniale."

Per due o tre giorni si ripeterono le stesse scene: Lucrezia che mangiava composta e silenziosa; noialtri che facevamo finta che non ci fosse; e Rinaldo che tra Lucrezia e noi non sapeva come regolarsi. Ma qualche cosa si preparava, tutti lo sentivamo: la ragazza, acqua cheta, non lo mostrava ma voleva tutto il tempo che Rinaldo scegliesse tra lei e noi. Finalmente, una sera, senza alcuna ragione precisa, forse perchй faceva caldo e si sa il caldo dа ai nervi, Rinaldo, a metа pranzo, ci aggredм in questo modo: "И l'ultima volta che vengo a mangiare con voi." Restammo tutti stupefatti, Tore domandт: "Ah, ma davvero? E si puт sapere perchй?"

"Perchй non mi piacete."

"Non ti piacciamo? ci dispiace tanto, proprio tanto."

"Siete una banda di maiali, ecco quello che siete."

"Guarda come parli, ma che sei pazzo?"

"Sм, siete una banda di maiali, lo dico e lo ripeto... a mangiare con voi mi viene da vomitare." Tutti adesso eravamo rossi in faccia dall'ira, alcuni si erano alzati in piedi. "Intanto", disse Tore, "il primo maiale sei tu! Chi ti dа il diritto di giudicarci? Non stavamo sempre insieme? Non facevamo sempre le stesse cose?"

"Sta' zitto tu" gli disse Rinaldo "che con tutti quei gioielli addosso sembri proprio una di quelle... non ti manca che il profumo... di', non ci hai mai pensato a profumarti?" Il colpo era diretto a tutti noi; comprendendo donde veniva, guardammo Lucrezia: ma lei, falsa, badava a tirare Rinaldo per la manica raccomandandosi che smettesse e venisse via. Tore gli disse allora: "Anche tu ci hai i gioielli... anche tu hai l'orologio, l'anello, il braccialetto... tu come gli altri." E Rinaldo, fuori di sй: "Ma io, sapete che faccio? Me li tolgo e li do a lei... prendi Lucrezia, te li regalo." Cosм dicendo, si sfilт anello, braccialetto, orologio, si tolse di tasca il portasigarette e gettт ogni cosa in grembo alla ragazza. "Voialtri" disse insultante "questo non lo fareste... non potreste farlo."

"Ma va' all'inferno", disse Tore; perт si capiva, adesso, che si vergognava di avere tutti quegli anelli alle dita. "Rinaldo, riprenditi la tua roba e andiamo", disse Lucrezia, calma. Prese in mucchio tutti gli ori che Rinaldo le aveva dato e glieli mise in tasca. Rinaldo perт, per non so quale rancore che ci aveva contro di noi, continuт ad inveire, pur lasciandosi trascinare via da Lucrezia. "Siete una banda di maiali, questo ve lo dico io... imparate a mangiare, imparate a vivere... maiali."

"Cretino" gli urlт Tore inferocito "ignorante... ti sei fatto imbeccare da quell'altra cretina che ci hai a fianco." Avete visto Rinaldo? Salta attraverso il tavolo, afferra Tore per i risvolti della camicia. Insomma, dovemmo dividerli.

Quella sera, dopo che se ne furono andati, non fiatammo e partimmo noi stessi dopo qualche minuto. La sera dopo ci ritrovammo, ma ormai l'antica allegria era finita. Notammo, intanto, che molti degli anelli erano spariti e anche qualche orologio. Dopo due sere, eravamo tutti senza gioielli, ma piщ mosci che mai. Passт una settimana e poi, chi con una scusa e chi con un'altra, cessammo affatto di incontrarci. Era finita, e, si sa, quando le cose sono finite, non ricominciano: a nessuno piacciono le minestre riscaldate. In questi giorni poi ho saputo che Rinaldo ha sposato Lucrezia; mi hanno detto che, in chiesa, lei era coperta di gioielli meglio di una statua della Madonna. E Tore? L'ho visto tempo fa nel suo garage. Aveva un anello al dito, ma non d'oro e senza brillante: uno di quegli anelli d'argento che portano i meccanici.

 

TABл

 

Alessandro mi aveva fatto quella scenata indegna in trattoria; ma due settimane dopo, correndo in motocicletta sulla Cassia, si scontrт con un camion e rimase ucciso sul colpo. Giulio mi aveva preso a schiaffi all'uscita del cinema; ma dopo tre giorni appena, si prese ai bagni nel Tevere quella terribile malattia che viene dalle fogne e se andт in poche ore. Remo mi aveva detto: "Brutto scemo, fesso e ignorante", in via Ripetta; ma poco dopo, svoltando in via dell'Oca, scivolт su una buccia e si ruppe il femore. Mario mi aveva fatto un gesto osceno alla partita di calcio, ma quasi subito, si puт dire, si accorse che gli avevano sfilato il portafoglio dalla tasca. Questi quattro casi e altri ancora che non dico per non diventare monotono, mi avevano convinto quell'anno che ero protetto da una forza misteriosa la quale faceva morire o almeno puniva chiunque mi si mettesse contro. Notate che non si trattava di iettatura. Lo iettatore danneggia senza motivo, a caso, spargendo disgrazie un po' come l'autopompa sparge l'acqua: a chi tocca tocca. No, io sentivo che, sebbene uomo da nulla, nй bello, nй forte, nй ricco (sono commesso in un negozio di tessuti), nй, insomma, particolarmente dotato in alcun modo, io ero protetto da una forza soprannaturale, per cui nessuno poteva farmi del male impunemente. Direte: presunzione. E allora, per favore, spiegatemi la combinazione di quelle morti e di quelle disgrazie capitate a tutti coloro che avevano voluto fare i prepotenti con me. Spiegatemi perchй trovandomi in qualche frangente, e invocando, appunto, quella forza, questa accorreva subito, come un cagnolino, e puniva l'imprudente che aveva osato andarmi contro. Spiegatemi finalmente... ma lasciamo andare.

Vi basti sapere che in quel tempo mi ero messo in testa di essere fatato, come per un incantesimo.

Uno di quei giorni d'estate decidemmo, Grazia ed io, di andare a passare la domenica a Ostia. Nel negozio di tessuti eravamo in tre commessi: Grazia, io e uno nuovo che si chiamava Ugo. Un tipo, quest'ultimo, a dir la veritа, che non mi piaceva affatto: alto, atletico, sicuro di sй, con un viso da pugilatore, schiacciato al naso e sporgente alla mascella. Ugo aveva una maniera di gettare la pezza sul banco, svolgere la stoffa e farla schioccare tra le dita, guardando non al cliente ma ai passanti, nella strada, attraverso i vetri della porta del negozio, che mi dava proprio sui nervi; e quando un compratore esprimeva qualche dubbio, invece di cercare di persuaderlo, adoperava la maniera forte: ossia si rinchiudeva in un silenzio sprezzante e disapprovatore; oppure diceva, addirittura, seccamente: "La signora ha bisogno di un articolo piщ andante", e andava a riporre la pezza. Tirava, insomma, a intimidire il compratore; e infatti, quasi sempre, questi lo richiamava, pentito, riesaminava la stoffa e faceva l'acquisto. Ma io, ogni volta che volevo imitarlo, forse perchй non avevo la presenza fisica e la sfacciataggine di Ugo, mi sentivo dire che ero maleducato, che la direzione avrebbe fatto bene a licenziarmi e cose simili. Perciт, dopo alcuni tentativi infruttuosi, tornai alla maniera mia che и invece scivolosa, smelata, tutta insinuazioni e compiacenza.

A Grazia, Ugo non piaceva; almeno cosм mi aveva assicurato piщ volte: "Quello lм... per caritа... che orrore! Sembra un negro." Perт quando, dopo aver preso gli accordi per Ostia, Ugo si avvicinт a noi domandando con quella sua voce arrogante: "Che fate di bello domenica?", lei rispose subito, dimenandosi, sorridendo, gonfiandosi tutta di civetteria: "Perchй non viene anche lei, Ugo?" Figurarsi Ugo: subito accettт, e anzi disse con aria di protezione che avrebbe provveduto a portare una ragazza, cosм che ognuno avrebbe avuto la sua. Ma lo disse in un certo modo per cui rimasi incerto: come se lui avesse inteso dire che la sua ragazza era Grazia e che quell'altra l'avrebbe portata per me.

La domenica ci trovammo all'ora fissata alla stazione di San Paolo, tra una folla da non si dire. Grazia che inaugurava un vestito nuovo, celeste, intonato coi suoi capelli biondi; io carico di pacchi, avendo fatto gli acquisti per la colazione; Ugo vestito da paino, color penicillina; e la ragazza di Ugo, certa Clementina. Il sospetto che mi era venuto al negozio, perт, si trovт subito confermato quando Ugo, con autoritа, prese sottobraccio Grazia e disse a me e Clementina: "Ehi, voialtri due, non ve la squagliate, perт... fate in modo di non perderci di vista al momento della partenza." Grazia rideva e si stringeva contro di lui, felice. Guardai Clementina: era proprio quello che ci voleva per me, s'intende secondo l'idea che Ugo si faceva della mia persona: una buona ragazza, bianca e grassa, coi fianchi e il petto di mucca e il viso stupido, anch'esso bovino: non le mancava che il campanaccio al collo. Mi disse con un sorriso, guardando a Ugo e Grazia: "Come si vede che quei due si vogliono bene, non и vero?" Era forse un invito a fare lo stesso noialtri. Risposi, invece, acido, tenendomi a distanza: "Ah, ma davvero... guarda un po'... e io che non me ne ero accorto."

Arrivт il treno e Ugo, naturalmente, fu il primo a salire, chissа come, tra la folla che urlava e si accapigliava; il primo, anche, ad affacciare quella sua faccia antipatica al finestrino, gridando: "Ho quattro posti, venite pure su con comodo." Salimmo e ci mettemmo a sedere, coppia di fronte a coppia, e il treno partм. Durante tutto il tragitto si puт dire che non staccai un solo momento gli occhi da quei due: era piщ forte di me. Ugo ormai si era impadronito di Grazia, e ora le parlava sottovoce, facendola ridere e arrossire; ora, cosм per scherzo, l'abbracciava; ora, senza parer di nulla, le faceva qualche carezza. Grazia, da vera svergognata, ci stava, e non faceva che dimenarsi come un'anguilla e strofinarsi contro di lui. Ma quello che mi offendeva di piщ era che si comportassero in quel modo come se io non ci fossi stato, ignorando la mia presenza. E almeno avessi potuto rifarmi con Clementina, per bilanciare la condotta di Ugo. Ma oltre a non piacermi, Clementina non sembrava desiderare che le facessi la corte: dormiva, il collo rovesciato indietro, la bocca aperta, le mani in grembo.

A Ostia, andammo allo stabilimento e ci spogliammo, a turno, nella cabina. Una volta tutti e quattro in costume da bagno, le differenze si svelarono ancora di piщ: Grazia aveva un bel corpo slanciato, con le gambe alte e forti, il busto fiorente; ma Clementina, invece, pareva un guanciale legato per metа, tutta fianchi e petto, senza vita e senza collo. Tra Ugo e me, poi, lo stacco era anche piщ visibile: lui aveva il corpo da lottatore, muscoloso, sodo, bruno, largo alle spalle e stretto ai fianchi, con lo slip incollato sulle natiche e le cosce pelose tutte frementi; io invece, ero piccolo, con le gambe magre, il corpo senza muscoli, le braccia sfornite: un ragno. Ugo, naturalmente, prese subito Grazia per la mano; e via di corsa, attraverso la rena bollente verso il mare, dove si tuffarono insieme a testa bassa. "Che bella coppia", disse Clementina che pareva fare apposta a invelenirmi. Ora quei due laggiщ, in mare, si schizzavano l'acqua addosso, si davano gli spintoni e poi Ugo prendeva Grazia in braccio, e Grazia gli si attaccava al collo e rideva. Domandai a Clementina se voleva fare il bagno e lei rispose che l'avrebbe fatto volentieri ma voleva restare presso la riva perchй non sapeva nuotare. Insomma, facemmo il bagno in mezzo metro d'acqua sporca e calda, tra i bambini che piangevano e gridavano e si gettavano i palloni, e le balie e le mamme che li chiamavano per nome, con la radio dello stabilimento che urlava senza posa una vecchia canzonetta: "Il mare и sempre blu, come quando c'eri tu..." Intanto Ugo e Grazia nuotavano lontano, da veri sportivi, e quasi non si vedevano piщ.

In quel momento, senza volerlo, proprio con naturalezza, mi venne in mente che Ugo, quel giorno, sarebbe affogato. Lo pensai senza sforzo, come una cosa inevitabile e giusta: mi aveva fatto un torto, dunque doveva morire. Questo pensiero mi ridiede ad un tratto la tranquillitа. Mi avvicinai a Clementina che stava in piedi nell'acqua, aggrappandosi con le due mani alla corda salvagente, e le dissi: "Ugo и uno di quei bravoni che, poi, gli prende un crampo e affogano... e poi li riportano svenuti sulla spiaggia e gli fanno la respirazione artificiale." Lei mi guardт incomprensiva, e disse: "Ma se nuota benissimo." Io risposi scuotendo il capo: "Nuota benissimo non discuto... ma il tipo dell'uomo che finisce la domenica steso sulla rena mentre gli fanno la respirazione artificiale ce l'ha... lo lasci dire a me."

Dopo un poco, Grazia e Ugo tornarono a riva e presero a correre per la spiaggia, per asciugarsi dicevano loro. Si inseguivano, si acchiappavano a piene mani, si tiravano le palle di rena, cascavano a terra insieme. Io li guardavo fisso, stando presso Clementina che si aggrappava alla corda, e mi pareva di vederlo, Ugo, che si gettava in mare e gli prendeva un crampo, incominciava ad annaspare, affogava e poi lo portavano a riva, e gli facevano la respirazione artificiale. Non ero sicuro che dovesse morire; perт non mi dispiaceva pensare che per un'ora, almeno, stesse, come si dice, tra la vita e la morte. Intanto Ugo e Grazia avevano finito di asciugarsi e Ugo venne a proporci una gita in barca. Clementina subito dichiarт che lei in barca non ci veniva perchй non sapeva nuotare; e cosм salimmo in barca noi tre, io ai remi, e Ugo e Grazia seduti l'uno accanto all'altra a poppa.

Presi a remare piano, su quel mare calmo e noioso, nel sole che ardeva, guardandoli fissamente, quasi sperando che tutto il veleno che era nei miei sguardi li facesse vergognare e li rendesse piщ discreti. Fatica sprecata: come poco fa in treno, continuavano a strofinarsi e a scherzare, quasi io fossi stato il barcaiolo. Anzi Ugo volle sottolineare la cosa, dicendomi burlescamente: "Se non vi dispiace, buon uomo, remate con la sinistra, altrimenti andiamo a sbattere contro quel patino." Questa volta perdetti la pazienza e risposi: "Di' un po' Ugo, nessuno te lo ha mai detto che sei un gran maleducato?" Lui si rizzт a sedere e domandт: "Coooosa?", allungando l'"o", come per significare: "Che sento? sento bene?" Ripresi, sempre remando: "Sм, un maleducato e un ignorante... nessuno te l'ha mai detto?"

"Ma che ti prende?", domandт lui alzando la voce. "Mi prende" dissi francamente "che sei un cafone numero uno."

"Guarda come parli."

"Parlo come mi pare, sei un cafone e anche un mascalzone."

"Aho, vacci piano, con me c'и poco da scherzare." Cosм dicendo, si levт in piedi e mi diede un colpo forte, in cima al petto. Lasciai i remi, mi alzai anch'io, e feci per rendergli il colpo; ma lui, pronto, mi strinse il polso con due dita che parevano di ferro. Adesso lottavamo, tutti e due in piedi, mentre Grazia, seduta, strillava e si raccomandava. Ad un movimento piщ violento, la barca, che era stretta e bassa, si rovesciт e cademmo tutti in acqua.

Non eravamo lontani dalla riva e giuro che, mentre cadevo in acqua, pensai contento: "Ora gli prende un crampo e affoga... e muore come Alessandro, come Giulio." Intanto la barca se ne andava, capovolta e coi remi galleggianti sull'acqua; e noi tre venivamo fuori, nuotando. "Imbecille", mi gridт Ugo; Grazia, come se nulla fosse, si dirigeva nuotando verso la spiaggia. "Imbecille sei tu e anche farabutto", risposi; e cosм dicendo mi entrт l'acqua in bocca. Ma giа Ugo non si occupava piщ di me, nuotava per raggiungere Grazia. Presi anch'io a nuotare verso la riva, pensando sempre al crampo che tra poco l'avrebbe fatto colare a picco, quando improvvisamente, provai un dolore acuto per tutto il fianco destro, dalla spalla al piede, e capii che il crampo, invece che a lui, stava venendo a me. Fu un attimo e in quell'attimo persi la testa: il dolore non cessava, incominciai ad annaspare, il respiro mi mancava, provavo una paura terribile, cacciai un grido e l'acqua mi entrт in bocca. Urlai: "Aiuto" e di nuovo inghiottii acqua. Il crampo intanto continuava e io andai sotto e poi risalii, gridai di nuovo "aiuto" e andai sotto di nuovo, sempre inghiottendo acqua. Insomma, sarei affogato se, finalmente, una mano non mi avesse afferrato per il braccio, mentre una voce, quella di Ugo, mi diceva: "Sta' fermo, che ti riporto a riva." Allora chiusi gli occhi e credo che svenni.

Rinvenni non so quanto tempo dopo e sentii sotto la schiena la rena bollente della spiaggia. Qualcuno, stringendomi per i polsi, mi alzava e abbassava le braccia; qualcun altro, accovacciato, mi faceva con le mani dei massaggi al petto e alla pancia. L'aria era piena di un polverone fitto, il sole abbagliava, e intorno a me c'era una foresta di gambe abbronzate e pelose: tutta gente che mi guardava morire. Sentii qualcuno che diceva: "Per me и andato"; e qualcun altro che osservava: "Fanno i bravi e poi ecco qua: affogano." Mi sentivo gonfio di acqua e la testa mi pesava e intanto le mie due braccia andavano su e giщ come i manichi di un mantice, e allora mi venne una gran rabbia e dissi, cercando di svincolarmi: "Ma lasciatemi... andate all'inferno;" e poi svenni di nuovo.

Di quel giorno maledetto non voglio dire altro. Ma una settimana dopo, al negozio, un momento che Ugo era lontano, Grazia mi disse sottovoce: "Lo sai perchй a Ostia, domenica scorsa, stavi per affogare?"

"No, perchй?"

"Me l'ha spiegato Ugo... lui dice che c'и una forza misteriosa che lo protegge: chi gli si mette contro, puт anche capitargli di morire... insomma, dice che lui и tabщ... ma si puт sapere che vuol dire tabщ?"


Дата добавления: 2015-10-21; просмотров: 21 | Нарушение авторских прав







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