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Collana: Tascabili Bompiani 9 страница



Abbassai la mano armata e gli dissi: "Tu lo sai che ho fatto a Gino?"

"Sм."

"Lo sai che sarei capace di farlo anche a te, ma sul serio?"

"Sм."

"Allora lascia stare Sestilia."

"Ma io manco la vedo", disse lui riprendendo coraggio. "Non basta", dissi, "ma al piщ presto devi regolare la tua posizione con Giulia... hai capito", e rialzai la mano. Lui disse tutto tremante: "Lo farт, Luigi... ma lasciami andare." Io ripetei: "Inteso, se non la sposi ti ammazzo, non sarа oggi sarа domani, ma ti ammazzo." E lui disse: "La sposerт."

"Adesso chiamala", gli comandai. Lui portт la mano alla bocca e chiamт: "Giulia, Giulia." Subito, attraverso il viale, Giulia ci venne incontro correndo, povera ragazza. "C'и qui Serafino che vuol parlarti" dissi, "voi andate pure... io torno all'osteria." Li guardai che si allontanavano insieme e poi tornai sotto la pergola.

Ero fradicio di sudore e quasi cascavo per terra, proprio come Serafino quando l'avevo minacciato col coltello. Ma quelli del tavolo mi accolsero con un applauso: "Viva il campione." Terribili riattaccт con la fisarmonica una samba, quelli ricominciarono a fare i buffoni, e Sestilia mi disse piano: "Balliamo, Luigi." Ballammo, e ballando lei mi accostт la bocca all'orecchio e mi disse in un soffio: "Ma che ci hai creduto che non ti volessi piщ bene?" Feci un giro piщ largo, la portai in un angolo buio della pergola, e lм la baciai e cosм rifacemmo pace.

Il giorno dopo pensavo che Serafino avesse giа dimenticato la paura: ma, come entrai nel bar, vidi che mi guardava con timore e poi mi disse: "Facciamo pace, vuoi?" e mi offrм da bere. Quindi prese a parlarmi di sй e di Giulia, e, con molti giri di frase mi fece capire che avevano deciso di sposarsi. Io quasi non credevo alle mie orecchie: Serafino si sposava per paura di me. Avrei voluto dirglielo: "Ma piantala, fatti coraggio, non ti accorgi che siamo della stessa razza?"; e invece, ormai, non potevo: ero il forzuto, quello che ci ha il coltello in saccoccia, quello che mena. E Serafino ci credeva come gli altri.

Si sposarono davvero e io fui invitato alla festa e il fratello di Giulia mi disse che era tutto merito mio. Ma poi toccт a me sposarmi. Avevo fatto tutto quel fracasso per Sestilia, adesso dovevo dimostrarle che l'avevo fatto veramente per lei. Non mi andava per niente di sposare Sestilia, non fosse altro perchй, in mia assenza aveva fatto la civetta con Serafino: ma ormai non potevo piщ ritirarmi. Quando ci sposammo, naturalmente venne anche Serafino insieme con Giulia che era giа incinta. E Serafino, poveretto, mi abbracciт dicendo: "Evviva, Luigi."

"Sм" pensavo io "evviva un corno." Ma il coltello in tasca da allora non lo porto piщ.

 

SCIUPONE

 

Con mia moglie in tutto andavamo d'accordo fuorchй sul capitolo denaro. Avevo un negozio di fornelli, stufe e accessori elettrici in un quartiere non tanto signorile come San Giovanni e perciт il denaro non era mai sicuro. C'erano i giorni buoni in cui vendevo un fornello da quarantamila lire, c'erano quelli cattivi in cui non vendevo una lampadina da trecento lire. Ma questo, Valentina non voleva capirlo. Secondo lei ero avaro; e la mia avarizia consisteva nel fatto che tenevo i conti di cassa, segnavo le entrate e le uscite, e quando non ce li avevo, le dicevo, appunto, che non ce li avevo. Allora lei gridava: "Sei un avaro... ho sposato un avaro." Io le rispondevo: "Ma perchй dici che sono un avaro, cosм, senza averne le prove? perchй non vieni a negozio? perchй non vieni in banca? ti farei vedere quello che vendo e non vendo... ti farei vedere quant'и calato il mio conto." Lei rispondeva che in negozio non ce l'avrei mai veduta perchй lei non era una bottegaia e suo padre era stato funzionario statale; quanto alla banca, non ci sarebbe venuta perchй non ci capiva niente e perciт la lasciassi tranquilla. Poi spiegava, quasi affettuosamente: "Vedi, Augusto, tu sei avaro... magari spenderai tutto quello che hai, magari farai dei debiti... ma sei avaro... avaro non и chi non vuol spendere... avaro и chi gli dispiace spendere."



"E chi te l'ha detto che mi dispiace spendere?"

"Fai sempre una certa faccia quando si tratta di cavare i soldi."

"Ma quale faccia?"

"La faccia dell'avaro."

In quel tempo ero innamorato di mia moglie: rotonda, bianca e rosa, appetitosa, fresca, Valentina era in cima a tutti i miei pensieri. E non trovavo niente da ridire che passasse la giornata senza far nulla, a fumare sigarette americane, leggere i giornali a fumetti e andare al cinema con le amiche. Amandola come l'amavo, mi pareva che lei fosse sempre dalla parte della ragione e io da quella del torto. L'avarizia, non c'и che dire, и un brutto difetto e io, sentendomi sempre dire che ero avaro, avevo finito per crederci e mi ero convinto anch'io che lo ero. Cosм, invece di risponderle: "Ma piantala con questa faccenda dell'avaro... e poi avaro o no, soltanto io so quanto possiamo spendere", bastava che lei dicesse: "eccolo l'avaro", perchй, terrorizzato, cavassi fuori i soldi e pagassi senza fiatare. Cosм lei, che aveva capito ormai questa mia debolezza, non mi lasciava beneavere: "Augusto ci vuole la radio... tutti ci hanno la radio."

"Ma Valentina, costa cara la radio."

"Uh, non farmi l'avaro adesso, con tutti quei soldi che hai in banca vorresti dirmi che non puoi comprarti la radio."

"E va bene, compriamo la radio." Oppure: "Augusto, ho visto un paio di scarpe tanto belle... mi dai i soldi?"

"Ma se ancora l'altro giorno ne hai comprate un paio."

"Ma quelli erano sandali... su, non far l'avaro."

"Beh, ecco i soldi." Insomma, aveva trovato il modo di farmi pagare e tacere, infallibile, e non sbagliava mai.

Io pagavo perchй speravo che un giorno finalmente lei riconoscesse che non ero avaro, che anzi ero generoso, come mi sembrava di essere. Ma questa era una illusione e mi passт presto. Infatti, piщ spendevo e piщ, per lei, ero avaro. Forse lei capiva che spendevo per un impegno dell'orgoglio, per farle cambiare idea e spuntarla con la sua ostinazione a considerarmi avaro; e anche lei per puntiglio, non voleva darmela vinta. Ma forse era soltanto la sua stupiditа: si immaginava che le nascondessi chissа quali ricchezze, proprio come fanno gli avari veri, che quando hanno cento, vanno lamentandosi in giro che hanno soltanto dieci. Del resto aveva ragione lei, dicendo che mi dispiaceva spendere. Mi dispiaceva perchй sapevo quanto avevamo e sapevo pure che di questo passo presto non avremmo piщ avuto niente. Mi ero sposato con il negozio avviato e un conto in banca di quasi un milione. Adesso, per quanti sforzi facessi, e sebbene non portassi piщ denaro alla banca e passassi tutto il guadagno a casa, il conto diminuiva, di mese in mese, sempre piщ. Prima novecentomila, poi ottocento, poi settecento, poi seicento. Era chiaro, spendevamo piщ di quanto guadagnassi e di questo passo, in un anno al massimo, il conto si sarebbe esaurito. Decisi che a cinquecento mi sarei fermato e gliel'avrei detto. Debbo dire che aspettavo quel giorno quasi con ansietа: mi rendevo conto che se quel giorno non riuscivo a puntare i piedi, ero perduto. Intanto il tempo passava e il conto diminuiva. Erano seicentomila lire, poi cinquecentocinquanta, poi cinquecentoventicinque. Una di quelle mattine, ritirai venticinquemila lire, andai a casa e dissi a Valentina: "Guarda, li vedi, sono venticinque biglietti da mille."

Lei disse: "Beh perchй me li fai vedere? vuoi farmi un regalo?"

"No, non voglio farti un regalo."

"Figurarsi, tu farmi un regalo... sarebbe troppo bello."

"Aspetta... te li faccio vedere perchй sono gli ultimi."

"Non ti credo."

"Eppure и vero."

"Vuoi dirmi che tu non ci hai piщ soldi in banca?"

"Ce li ho... ma sono il minimo per un commerciante come me... se spendiamo anche quelli, posso chiudere bottega."

"Lo vedi che ce li hai... allora perchй mi tormenti?... lasciami in pace... e poi non vuoi che ti dica che sei avaro."

Avevo giurato di restar calmo. Ma a quella parola di avaro, saltai su inviperito: "Non sono avaro... spendiamo piщ di quanto guadagniamo... ecco tutto... ma perchй non ci vieni a negozio... perchй non ci vieni in banca?"

"Lasciami in pace con la tua banca e il tuo negozio... fa' quello che vuoi, se ti fa piacere di essere avaro, sii pure avaro... ma lasciami in pace."

"Cretina."

Era la prima volta da quando eravamo sposati che l'insultavo. Avete mai veduto il fuoco saltar su da un po' di petrolio se ci avvicinate un fiammifero? Cosм Valentina, sempre cosм calma e perfino indolente, a quella parola che mi era sfuggita. Prese a ingiuriarmi e piщ mi ingiuriava e piщ trovava nuove ingiurie, quasi che una tirasse l'altra, come le ciliegie. Bisogna dire che ce l'avesse con me da un pezzo e che quello che mi andava dicendo l'avesse rivoltato in mente non so quanto tempo. Non erano, poi, ingiurie semplici, brutali, da uomo, come: "canaglia, farabutto, mascalzone", che in fondo non fanno male a nessuno; no, erano ingiurie da donna, sottili, di quelle che ti entrano dentro come aghi e poi ti rimangono e piщ tardi, se ti muovi, te li senti pungere il diavolo sa dove. Ingiurie che riguardavano la famiglia, il mestiere, il fisico; non ingiurie proprio ma frasi cattive, rigirate in modo perfido, da lasciare senza fiato. Eh, non la conoscevo Valentina, e se non avessi provato tanto dolore sentendola parlare in quel modo, avrei potuto anche meravigliarmi. Basta, andт a finire che lei si calmт, finalmente, e io un po' per la mortificazione, un po' per la stanchezza di quella scena cosм lunga, mi misi a piangere come un bambino, inginocchiato davanti a lei, la faccia contro le sue gambe. Ma pur piangendo e domandandole perdono, sentivo che era finita e che non l'amavo piщ; e questo pensiero per me era cosм amaro che riprendevo a piangere di nuovo, piщ forte di prima. Alla fine smisi di piangere, le diedi cinquemila lire in regalo e me ne andai.

Mi restavano ventimila lire, ma non amavo piщ mia moglie e, per ripicca, ero deciso a mostrarle che non ero avaro, dovessi per questo andare in rovina. Perт, prima di fare quello che avevo in mente, provai un dubbio, un'esitazione, quasi un terrore, come quando, al mare, uno va per tuffarsi e l'acqua che si muove laggiщ in fondo, sotto i suoi piedi, gli fa paura. Mi trovavo sul lungotevere, dalle parti di Ripetta, con un sole di primavera che scaldava, dolce, senza bruciare. Vidi a capo di un ponte un mendicante che sporgeva il viso verso questo sole, pur tendendo la mano, accoccolato in terra. E vedendo questo viso cosм contento, con gli occhi socchiusi e la bocca quasi sorridente, pensai: "Ma di che hai paura?... quand'anche diventassi come lui, saresti sempre piщ felice di adesso." Allora strinsi in pugno tutti quei fogliacci da mille che avevo in tasca e, passando, gliene buttai uno nel cappello. Siccome era cieco, non mi ringraziт e continuт a tendere il viso al sole, ripetendo le solite parole che dicono i mendicanti.

Poco piщ su, dopo il ponte, c'era un negozio di orologi; ci andai e, lм per lм, senza esitare, comprai un orologio per mia moglie, del valore di diciottomila lire. Mi restavano mille lire, ci presi un taxi e mi feci portare al negozio. Giа mi sentivo meglio, sebbene un po' di paura mi restasse; ma mi rinfrancai rifiutando per tutto il mattino la roba ai clienti. A chi dicevo che l'articolo era esaurito; a chi domandavo un prezzo eccessivo; a chi spiegavo che l'articolo ce l'avevo ma non era in vendita perchй era un campione. Mi presi anche il lusso di trattare male un paio di clienti, di quelli proprio antipatici. Intanto continuavo a ripetere dentro di me: "Niente paura, il primo passo e il piщ difficile... poi tutto viene da sй."

Tornai a casa quella mattina quasi temendo di scoprire che dopo tutto amavo ancora mia moglie; lo temevo perchй, allora, avrei dovuto ricominciare a lottare per il centesimo, a sentirmi dare dell'avaro, e, insomma, a rifare la vita che avevo fatto in quegli ultimi due anni. Ma come la guardai, mi accorsi che proprio non l'amavo piщ; mi sembrava un oggetto; notai perfino che sotto la cipria ci aveva il naso un po' lustro. Le dissi: "Cara, ti ho portato un regaluccio: siccome ti lamentavi sempre di non avere un orologio da polso." Mi diede il polso e io, prima di affibbiarci l'orologio, ci misi su un bel bacio sonoro, proprio da marito innamorato. Ma intanto pensavo: "Prendi su... questo bacio и piщ falso di quello di Giuda." Quel giorno bisogna dire che lei avesse rimorso di tutte le brutte cose che mi aveva detto, perchй fu tutta svenevole e graziosa. Ma io non sentivo piщ nulla: dentro, la molla dell'amore mi si era rotta e non c'era piщ niente da fare.

I giorni appresso continuai ad eseguire il mio piano. Non passava giorno che non le facessi qualche regalo; a negozio rifiutavo persino di ascoltare i clienti, dichiarando fin da principio: "Non vendo niente"; intanto il conto in banca diminuiva. Mezzo milione poi non и una gran somma, in capo a due mesi o poco piщ non mi restava quasi piщ nulla. Valentina non si insospettм. Continuava a leggere le riviste, a fumare sigarette americane, ad andare al cinema con le amiche. Soltanto ogni tanto, pro forma, ad un nuovo regalo, diceva: "Lo vedi che avevo ragione io, quando dicevi che non avevi soldi ed eri povero e non ce la facevi piщ... ora spendi molto di piщ, sei, non dico generoso, ma per lo meno meno avaro e i soldi li trovi lo stesso." Io non dicevo nulla ma dentro di me ripetevo: "Aspetta, prima di cantar vittoria."

Uno di quei giorni ritirai alla banca le ultime cinquemila lire e ci comprai tanti pacchetti di sigarette americane in modo da rimanere con non piщ di trecento lire. Era mattina presto e, invece di andare a negozio, tornai a casa, andai in camera da letto e mi distesi, vestito com'ero e con le scarpe ai piedi, sulle lenzuola ancora disfatte. Valentina, che dormiva, si rivoltт nel sonno dicendo: "Non vai a negozio?... и domenica oggi?"; e si riaddormentт. Cominciai a fumare una sigaretta dopo l'altra aspettando che lei si destasse. Lei dormм ancora un'ora, poi si svegliт e domandт subito: "Ma che, и festa oggi?" e io risposi: "Sм, и festa." Allora lei si alzт e si vestм lentamente, parlando poco e spesso domandando: "Ma che festa и?" come se avesse presentito che non era festa affatto. Io aspettavo il momento che lei mi domandava i soldi per la spesa: era lei, con tutta la sua pigrizia, che faceva la spesa e poi cucinava facendosi aiutare da una ragazzina a mezzo servizio. Lei andт nel bagno, finм di vestirsi, e poi andт in cucina e parlт con la servetta e preparт il caffи. Mi levai finalmente dal letto e andai anch'io in cucina. Prendemmo il caffи in silenzio, salvo che lei insistette: "Ma che festa и... Lucia dice che non и festa e che tutti i negozi sono aperti." Allora risposi con semplicitа: "Oggi и la festa mia;" e me andai in camera da letto dove mi distesi di nuovo sulle lenzuola, con scarpe e tutto.

Lм per lм Valentina non disse nulla restando un pezzo in cucina a parlare con la servetta e, come credo, a darmi tempo per mostrare che non mi prendeva sul serio. Finalmente si affacciт sulla soglia, le mani sui fianchi, e disse: "Se non ti va di lavorare, non discuto.... sei padrone di restartene a letto... ma se ti va di mangiare, devi darmi i soldi per la spesa."

Gettai fumo al soffitto e risposi: "Soldi? Non ne ho."

"Come non ne hai?"

"Non ne ho!"

Lei disse, allora: "Senti, che capricci sono questi? Che ti salta in testa?... Se non mi dai i soldi, io la spesa non la faccio, e se non faccio la spesa, non mangiamo..."

"Infatti" risposi "credo proprio che non mangeremo!"

"Beh" disse lei "vado di lа, non ho tempo da perdere... metti i soldi sul comodino."

Io continuai a fumare e quando lei tornт, dopo qualche minuto, dissi con sinceritа: "Valentina, parlo sul serio, non ho piщ un soldo... mi restano in tutto trecento lire... non ho piщ niente."

"Tu hai il tuo conto in banca... che avarizia ti ha preso ora?"

"Non sono avaro, non ho piщ niente... guarda, del resto." Cavai di tasca il libretto della banca e glielo mostrai: questa volta lei non disse che non se ne intendeva e che la lasciassi in pace, aveva capito che facevo sul serio e mostrava un viso spaventato. Guardт il libretto e poi si lasciт cadere su una seggiola, senza fiato. Spiegai: "Tu mi dicevi che ero avaro; e piщ spendevo, piщ, per te, ero avaro... allora mi sono rovinato apposta... ho speso tutto... a negozio non ho piщ voluto vendere... e adesso и finita... Non ho piщ niente e non abbiamo manco da mangiare... ma almeno non potrai dirmi che sono avaro."

Lei, tutto ad un tratto, si mise a piangere, piщ, come pareva, perchй sentiva che non l'amavo piщ che per il fatto in sй. Poi disse: "Non mi hai mai voluto bene, e adesso mi fai anche mancare da mangiare."

"Per forza" dissi "non ci ho soldi."

Lei disse: "Io ti lascio... me ne vado da mamma."

"Arrivederci."

Se ne andт nell'altra stanza e, insomma, anche dalla mia vita perchй da quel mattino non l'ho piщ rivista. Dopo un poco mi alzai dal letto e uscii anch'io. Era una giornata di sole, comprai uno sfilatino e andai a mangiarmelo sul lungotevere. Guardando all'acqua che scorreva mi sentii ad un tratto felice e pensai che quei due anni di matrimonio non erano stati che un'avventura senza conseguenze: quando fossi stato vecchio, me ne sarei ricordato non come di due anni ma come di due giorni. Mangiai piano lo sfilatino e poi mi attaccai alla bocchetta di una fontanella e bevvi. Piщ tardi andai da mio fratello e gli domandai di ospitarmi finchй avessi trovato lavoro. Lo trovai, infatti, da semplice elettricista, di lм a qualche settimana.

Valentina come ho detto, non l'ho piщ rivista. Ma sapete che va dicendo? Che sono uno sciupone dalle mani bucate, che lei non ce la faceva a farmi risparmiare; e cosм mi ha lasciato.

 

LA GIORNATA NERA

 

Quando si dice. Tanti non ci credono alla iettatura, ma io ci ho le prove. Che giorno era avant'ieri? martedм diciassette. Che successe la mattina, prima di uscire? cercando il pane nella credenza rovesciai il sale. Chi incontrai, per strada, appena uscito? una ragazza gobba, con una voglia pelosa di cotica sul viso, che, nel quartiere, e sм che ci conosco tutti, io non avevo mai visto. Che feci entrando nel garage? passai sotto la scala di un operaio che stava riparando l'insegna al neon. Chi fu il meccanico che nel garage mi parlт per primo? coso, tanto per non nominarlo, che tutti lo sanno che porta male con quella sua faccia storta e quei suoi occhiacci biliosi. Non vi basta? eccovi la giunta: andando al posteggio per poco non schiacciai un gatto nero che mi attraversт la strada, sbucato da non so dove, cosм che dovetti frenare di colpo con un cigolio del diavolo.

Al posteggio di piazzale Flaminio, a pochi passi dalla stazione dei treni per Viterbo, non aspettai molto. Saranno state le sette, ed ecco arrivarmi di corsa, con certi passi come se ballassero la tarantella, due burini proprio di campagna. Lui basso e tozzo, in pantaloni neri, fascia sulla pancia, farsetto, camicia senza colletto, la faccia schiacciata e nera di barba, guercio, con un occhio chiuso e l'altro spalancato; lei, forse la madre, vestita da zingara, con la gonna nera, lo sciallino nero, la faccia come di bosso giallo, tutta grinze, e gli anelli d'oro alle orecchie. Carichi come somari, poi, con involti, pacchi e mazzi di insalata e fazzoletti pieni di pomodori. Lui mi diede senza parlare un pezzo di carta sul quale, con certe lettere svolazzanti che sembravano note di musica, c'era scritto l'indirizzo: piazza Pollarola; che sta appunto, presso il mercato di Campo dei Fiori. Intanto lei, lesta lesta, caricava tutto quel ben di Dio dentro il taxi. Mi voltai a guardare e osservai: "Ma che, mi avete preso per il camion della verdura?"

Lui rispose tra i denti, senza guardarmi: "И tutta roba buona... corri, su, che abbiamo fretta."

Accesi il motore e corsi. Mentre correvo, sentii lui che diceva alla donna: "Ma guarda dove metti i piedi... mi hai schiacciato un pomodoro;" e subito pensai che mi avessero sporcato il taxi. Come, infatti, giunsi a piazza Pollarola mi voltai e vidi che avevano proprio fatto un macello: foglie di insalata, terra, acqua, pomodori schiacciati, e mica uno solo. Dissi, arrabbiato: "E ora chi me lo ripaga il cuoio dei sedili?"

"Non и nulla", disse lui cavando di tasca il fazzoletto e pulendo dove era piщ sporco. Risposi inviperito: "И inutile che asciughi... mi hai fatto un danno di migliaia di lire."

Ma lui non mi dava piщ retta. Aiutava la donna a scaricare gli involti, ripetendo: "Su, fa in prescia... metti giщ." Allora gli gridai: "Aho, niente niente, oltre che guercio, saresti anche sordo?... dico a te... chi me lo ripaga il cuoio dei sedili?"

Spazientito, si voltт, dicendo: "Aspetta, non vedi che sto scaricando?"

"Ma io voglio che mi ripaghi il danno."

Ormai aveva finito. "Tie" fece mettendomi in mano il denaro della corsa "prendi e vattene."

"Ma che, sei scemo? che me ne faccio?"

"Non ti и bastato?"

"Questa и la corsa, va bene... ma il danno?"

Adesso eravamo di fronte, io e lui. La donna stava in disparte, immobile, tranquilla, tra i suoi fagotti. Lui disse: "Ora ti pago;" quindi, dopo aver dato uno sguardo in giro per la piazza, che a quell'ora era deserta, mise la mano in saccoccia. Credetti che prendesse i soldi. Era invece un coltello a serramanico, da pastore: "Lo vedi questo?" Feci un salto indietro; lui richiuse il coltello e soggiunse: "Allora siamo intesi."

Bollente di rabbia, saltai di nuovo nel taxi, accesi il motore, girai per la piazza e poi, a gran velocitа, corsi addosso alla donna che stava tuttora ferma presso i fagotti. Si scansт per miracolo, io entrai col taxi fra tutte quelle verdure, facendo una strage. Lui gridт non so che cosa e saltт sul predellino. Tolsi una mano dal volante e gli diedi un colpo in faccia, costringendolo a scendere; ma persi la direzione e andai a sbattere contro un muro. Perт riuscii a raddrizzare la macchina e svoltai. A ponte Vittorio, finalmente, mi fermai e guardai: il parafango era scorticato e storto: oltre al sudiciume, un danno davvero di migliaia di lire. Cominciava bene.

Pieno di malumore, bestemmiando burini e campagna, feci altre cinque corsette da nulla, dalle duecento alle trecento lire. Finalmente, alle due, mi trovai alla Stazione Centrale, in coda ad una fila di altri taxi. Arriva un treno, la gente si sparpaglia, i taxi partono uno dopo l'altro, viene il mio turno, sale un signore grosso e alto, calvo, con le lenti sul viso tondo e sbarbato. Aveva una valigetta, disse asciutto: "via di Macchia Madama."

Ora le strade di Roma, nessuno puт conoscerle tutte. Perт, piщ o meno, a naso, si indovina. Ma questa via di Macchia Madama era proprio la prima volta che la sentivo nominare. Domandai: "Ma dove sta?"

"Vada pure fino al Foro Italico... poi gliel'insegno io."

Non dissi nulla e partii. Corsi, corsi e corsi ecco via Flaminia, ecco ponte Milvio; fuori ponte Milvio, presi per il lungotevere, verso il Foro. Lui mi gridт: "Ora, la prima a destra e poi ancora a destra."

Eravamo ormai sotto il pendio di Monte Mario. Presi, dietro lo stadio che ci ha le statue nude, per una strada in salita e cominciai ad arrampicarmi. A mezza costa, un cartello in cima a un palo, tra i cespugli, portava la scritta: "via di Macchia Madama." Ma non era una strada, bensм un viottolo di campagna, tutto sassi e polvere. Domandai: "Debbo entrare lа dentro?"

"Sicuro!"

Mi scappт: "Ma abita proprio alla foresta nera."

"Faccia meno lo spiritoso... и una strada come tutte le altre."

Basta, abbozzai, come si dice, e spinsi la macchina su per il viottolo. Le buche e i sassi non si contavano; da una parte ci avevo il fianco del monte, tutto cespugli di ginestre; dall'altro uno sprofondo; e in fondo, il panorama di Roma. Salii e salii; alle voltate, tanto erano strette, dovevo far marcia indietro; finalmente, ecco un cancello, in cima all'ultima salita. Entro nel cancello, giro per uno spiazzo ghiaiato, senz'alberi, di fronte a un villino bianco, mi fermo. Lui discese e mi diede in fretta il denaro della corsa. Protestai: "Questa и la corsa... e il ritorno?"

"Quale ritorno?"

"Qui siamo fuori Roma... lei deve pagare il ritorno."

"Io non pago niente... non ho mai pagato ritorno e non comincerт oggi a pagarlo." Dette queste parole, si allontanт in fretta verso il villino. Gli gridai, esasperato: "Io qui resto finchй non mi avrа pagato il ritorno... dovessi aspettare fino a stasera." Lo vidi alzare le spalle e poi, come la porta si apriva, mi parve di intravedere un uomo in grembiale bianco. Guardai al villino: aveva tutte le persiane chiuse; a pianterreno le finestre portavano le inferriate. Alzai le spalle anch'io, tornai nel taxi, che sotto il sole giа si arroventava, sedetti al volante, presi dalla saccoccia lo sfilatino della colazione e lo mangiai lentamente, in quel silenzio profondo, guardando, oltre il ciglio del burrone, al panorama di Roma. Poi mi venne sonno, in quel caldo ardente, mi addormentai e dormii forse un'ora. Mi svegliai di soprassalto, intontito e sudato, e vidi che tutto era come prima: il piazzale deserto, il villino con le persiane chiuse, il sole, il silenzio. Preso da frenesia, cominciai a suonare il clakson pensando: "Qualcuno avrа pure da venire."

A quegli urli del clakson, qualcuno venne, infatti. Un ometto nero che pareva un sagrestano, vestito di seta cruda, spuntт da dietro il villino, trottт attraverso il piazzale, mi si accostт: "Libero?"

"Sм"

"Beh, portami a San Pietro."

Pensai che tutto il male non veniva per nuocere: San Pietro era una bella corsa e, oltre tutto, ci prendevo anche il ritorno. Accesi il motore e partii. Mi parve, и vero, mentre uscivo dal cancello, di vedere qualcuno che da una finestra, mi accennava dei gesti di richiamo, ma non ci feci caso. Discesi piano, svolta dopo svolta, una cinquantina di metri per quel viottolo, poi, ad un gomito piщ stretto, feci marcia indietro. Ecco, tutto ad un tratto, scendere a precipizio per il pendio, aggrappandosi ai cespugli e agitando le braccia, due omaccioni in grembiale bianco: "Ferma, ferma." Mi fermai. Uno di loro aprм lo sportello e disse, senza tanti complimenti, all'ometto rannicchiato in fondo al taxi: "Su bello mio, scendi... e poche storie."

"Ma io sono aspettato dal Papa."

"Beh, sarа per un'altra volta... scendi, su."

Insomma, discese, e l'omaccione lo prese subito per un braccio, mentre l'altro mi spiegava: "И sempre cosм tranquillo, per questo lo lasciamo libero... ma coi pazzi non si puт mai sapere."

"Ma quella che cos'era? una clinica per i pazzi?"

"Eh giа, non l'avevi ancora capito?"

No, non l'avevo capito; e, in sostanza, ci avevo rimesso tutto il tempo che ero stato lassщ, piщ il ritorno. Ormai era il pomeriggio e la mattina era stata proprio nera. Andai al posteggio di Viale Pinturicchio e lм, forse non ci crederete, aspettai circa quattro ore. Finalmente, sull'imbrunire, ecco un giovanotto bruno, in canottiera sotto la giacca, coi capelli lunghi, un vero bullo, al braccio di una ragazzetta formosa e storta. Disse: "Portaci al Gianicolo", e salirono. Mi misi a correre alla disperata e intanto, ogni poco, guardavo allo specchio sopra il parabrezza. All'altezza del Lungotevere Flaminio, in un punto deserto, lui acchiappт la ragazza per i capelli, le rovesciт la testa indietro e la baciт sulla bocca. Lei gemette: "No, no, cattivo;" e poi, naturalmente, gli girт un braccio intorno il collo e rese il bacio. Bacia e bacia, non finivano piщ; io non sono severo con le coppiette, di solito; ma quel giorno, dopo tante disgrazie, mi venne come una furia. Frenai e arrestai la macchina di botto annunziando: "Siamo arrivati."

"И giа il Gianicolo?" domandт lei sbucando fuori dall'abbraccio con tutto il rossetto sbaffato e i capelli in disordine.

"No, non и il Gianicolo... ma se voialtri non state piщ composti, io non proseguo."

Lui disse, da vero bullo: "Ma a te che te ne frega?"


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