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Collana: Tascabili Bompiani 9 страница



La sera fissata, salimmo tutti a Porta San Pancrazio, all'osteria. Chi c'era? C'erano Serafino, Giulia. Sestilia, Maurizio detto Zio, Federico, il fratello di Giulia, i due fratelli Pompei, Terribili che portava la fisarmonica, ed io. Tutti conoscevano il piano, quelli del bar ed io perché l'avevamo combinato insieme, Giulia e Sestilia perché erano state avvertite, e anche Serafino doveva sospettare qualche cosa perché era venuto malvolentieri e non apriva bocca. Sestilia ed io neppure ci guardavamo, freddi e distanti; invece Giulia, una ragazza esuberante che rideva sempre e quando rideva le si vedevano le gengive come a un cavallo, piena di speranza si strofinava a Serafino. Gli altri scherzavano e chiacchieravano, con sforzo però, perché c'era qualche cosa per l'aria. Io, poi, avevo proprio paura e ogni tanto guardavo Sestilia, quasi sperando che da lei mi venisse tanta gelosia da prender coraggio. E non dico che non mi piacesse: dritta come un fuso dai piedi al naso, con quel modo di camminare da regine che ci hanno le trasteverine, i boccoli neri in cascata lungo il viso, gli occhi grandi e neri, la bocca cattiva; ma dal piacermi a finire in galera per lei, ci correva. Quasi quasi avrei voluto gridare a Serafino: "Prenditela, se ne hai voglia, e non parliamone più." Ma questo era il Luigi vecchio che parlava, quello di prima del fatto di Gino. Il Luigi nuovo doveva invece tirare le coltellate, prendersi la rivincita.

Giunti all'osteria che era all'imboccatura della via Aurelia, proprio di fronte alle mura, sedemmo ad uno di quei tavoli, sotto la pergola, e ordinammo vino e ciambelle. Subito, forse per effetto del vino, quelli del bar diventarono di un'allegria, strepitosa. Chiacchieravano, bevevano, si tiravano le ciambelle, cantavano, e, quando Terribili prese a suonare la fisarmonica, siccome le due donne non volevano ballare, si misero a ballare la samba tra di loro. Se non avessi avuto tanta paura, vi dico che avrei riso anch'io. Bisognava vederli ballare tra di loro e quello che faceva la donna dimenava i fianchi con tutte le mossette e le smorfie che fanno le donne e quello che faceva l'uomo acchiappava forte l'altro per la vita, lo sollevava e lo faceva girare e poi ricadere in terra. Tutti ridevano che non ne potevano più; i soli a non ridere eravamo io e Serafino. Lui si era tolto la giubba ed era rimasto in canottiera bianca, mostrando certe braccione marrone, come di donna; e io calcolavo dentro di me che un colpo solo di quelle braccia sarebbe bastato ad atterrarmi. Mi venne a questo pensiero la malinconia e dissi piano a Sestilia, adirato: "Con te, poi, parliamo, strega che, non sei altro." Lei alzò le spalle e non disse nulla. Intanto, però, il tempo passava e quelli del bar mi facevano dei segni perché attaccassi. Bravi, come se fosse stato facile. Si trattava; insomma, di mettere a Serafino una paura definitiva, assoluta! da non fargli mai più rialzare il capo. Sembra niente a dirla così; e chi va al cinema e vede gli attori scambiarsi pugni finti e spararsi revolverate che non fanno male a nessuno, può anche pensare che far paura a qualcuno sia una cosa da nulla. E invece non è vero; per metter paura a qualcuno bisogna dargli l'impressione che si vuole ammazzarlo sul serio; e questo è molto difficile quando, invece, come era il caso mio, non si vuole ammazzarlo ma soltanto mettergli paura. Per fortuna c'era stata quella coltellata a Gino: l'avevo fatto una volta per sbaglio, si trattava adesso di farlo apposta. Guardavo intanto Sestilia, e avrei voluto che facesse la civetta con Serafino: questo mi avrebbe scaldato il sangue. Ma invece se ne stava zitta e contegnosa, in disparte, come offesa. Giulia, al contrario, non faceva che strusciarsi a Serafino e rideva ad ogni nonnulla, mostrando le gengive.

Insomma, un momento che la fisarmonica non suonava, quasi senza pensarci, forse perché prima ci avevo pensato tanto, mi sporsi sul tavolo e dissi a Serafino: "Ma di' un po', che hai?... ti invitiamo a festeggiare il mio ritorno e non bevi, non parli... te ne stai lì moscio come se ti dispiacesse di non sapermi più sottochiave." Serafino rispose: "Ma no, Luigi... che c'entra... ho un po' di mal di stomaco, ecco tutto." E io: "Sì che ti dispiace... perché mentre non c'ero, ronzavi intorno a Sestilia e il mio ritorno non ci voleva... ecco perché ti dispiace." Avevo alzato la voce e dentro di me pensavo: "Sono ancora a terra, ma debbo alzarmi, alzarmi, come un aeroplano che prende quota... se non mi alzo, casco." Tutti ora tacevano, soddisfatti di vedermi affrontare Serafino, come ad uno spettacolo; Serafino, come notai, si era fatto pallido o meglio grigio, su quel suo faccione liscio e senza barba. Allora mi sporsi ancor di più attraverso il tavolo e gli presi in pugno l'orlo della canottiera, sul petto, torcendolo, e dissi con forza: "Tu hai da lasciarla, Sestilia, hai capito... hai da lasciarla perché lei ed io ci vogliamo bene." Serafino guardò Sestilia, quasi sperando che lei smentisse, ma Sestilia da vera strega, abbassò gli occhi, compunta. Giulia prese il braccio a Serafino, dicendogli: "Vieni Serafino... andiamo via." Lei se ne approfittava, cercando di tirare l'acqua al suo mulino, poveretta. Serafino barbugliò non so che cosa, poi si alzò e disse: "Me ne vado, non voglio essere offeso." Tutta contenta, Giulia si alzò anche lei, dicendo: "Vengo anch'io." Ma Serafino le intimò: "Tu rimani... non ho bisogno di te"; quindi prese la giacca e si allontanò sotto la pergola.



Tutti quei giovanotti subito mi guardarono, per vedere che cosa avrei fatto; e il fratello di Giulia disse: "Se ne va, Luigi... che fai?" Io feci un gesto con la mano, come per dire "calma"; e aspettai che Serafino fosse uscito dall'osteria. Poi mi alzai e via di corsa dietro a lui. Lo raggiunsi sul Viale delle Mura Aurelie: camminava solo, in quella strada buia, grande e grosso, proprio un omaccione, e mi venne di nuovo paura. Ma ormai ero lanciato e lo raggiunsi, e prendendolo per un braccio, dissi trafelato: "Aspetta, ho da parlarti." Sentii che il braccio era grosso ma moscio e come senza muscoli; e lui, pur protestando, si lasciò attirare in una di quelle rientranze buie delle mura. Pensavo: "Mamma mia, aiutami"; e, sebbene avessi veramente paura, con una mano lo sbattei contro il muro e con l'altra alzai il coltello dicendo: "Ora ti ammazzo, Serafino." Questo era il momento, e se lui mi prendeva la mano mi disarmava subito perché avevo deciso di lasciarmi disarmare piuttosto che fare uno sproposito. Sentii invece che lui mi scivolava giù, quasi svenuto, lungo il muro contro il quale l'avevo spinto. Disse scioccamente: "Mamma mia", che erano le stesse parole che io poco prima avevo pensato di farmi coraggio e poi rimase lì a guardarmi, con gli occhi sbarrati; e capii che l'avevo spuntata.

Abbassai la mano armata e gli dissi: "Tu lo sai che ho fatto a Gino?"

"Sì."

"Lo sai che sarei capace di farlo anche a te, ma sul serio?"

"Sì."

"Allora lascia stare Sestilia."

"Ma io manco la vedo", disse lui riprendendo coraggio. "Non basta", dissi, "ma al più presto devi regolare la tua posizione con Giulia... hai capito", e rialzai la mano. Lui disse tutto tremante: "Lo farò, Luigi... ma lasciami andare." Io ripetei: "Inteso, se non la sposi ti ammazzo, non sarа oggi sarа domani, ma ti ammazzo." E lui disse: "La sposerò."

"Adesso chiamala", gli comandai. Lui portò la mano alla bocca e chiamò: "Giulia, Giulia." Subito, attraverso il viale, Giulia ci venne incontro correndo, povera ragazza. "C'è qui Serafino che vuol parlarti" dissi, "voi andate pure... io torno all'osteria." Li guardai che si allontanavano insieme e poi tornai sotto la pergola.

Ero fradicio di sudore e quasi cascavo per terra, proprio come Serafino quando l'avevo minacciato col coltello. Ma quelli del tavolo mi accolsero con un applauso: "Viva il campione." Terribili riattaccò con la fisarmonica una samba, quelli ricominciarono a fare i buffoni, e Sestilia mi disse piano: "Balliamo, Luigi." Ballammo, e ballando lei mi accostò la bocca all'orecchio e mi disse in un soffio: "Ma che ci hai creduto che non ti volessi più bene?" Feci un giro più largo, la portai in un angolo buio della pergola, e lì la baciai e così rifacemmo pace.

Il giorno dopo pensavo che Serafino avesse giа dimenticato la paura: ma, come entrai nel bar, vidi che mi guardava con timore e poi mi disse: "Facciamo pace, vuoi?" e mi offrì da bere. Quindi prese a parlarmi di sé e di Giulia, e, con molti giri di frase mi fece capire che avevano deciso di sposarsi. Io quasi non credevo alle mie orecchie: Serafino si sposava per paura di me. Avrei voluto dirglielo: "Ma piantala, fatti coraggio, non ti accorgi che siamo della stessa razza?"; e invece, ormai, non potevo: ero il forzuto, quello che ci ha il coltello in saccoccia, quello che mena. E Serafino ci credeva come gli altri.

Si sposarono davvero e io fui invitato alla festa e il fratello di Giulia mi disse che era tutto merito mio. Ma poi toccò a me sposarmi. Avevo fatto tutto quel fracasso per Sestilia, adesso dovevo dimostrarle che l'avevo fatto veramente per lei. Non mi andava per niente di sposare Sestilia, non fosse altro perché, in mia assenza aveva fatto la civetta con Serafino: ma ormai non potevo più ritirarmi. Quando ci sposammo, naturalmente venne anche Serafino insieme con Giulia che era giа incinta. E Serafino, poveretto, mi abbracciò dicendo: "Evviva, Luigi."

"Sì" pensavo io "evviva un corno." Ma il coltello in tasca da allora non lo porto più.

 

SCIUPONE

 

Con mia moglie in tutto andavamo d'accordo fuorché sul capitolo denaro. Avevo un negozio di fornelli, stufe e accessori elettrici in un quartiere non tanto signorile come San Giovanni e perciò il denaro non era mai sicuro. C'erano i giorni buoni in cui vendevo un fornello da quarantamila lire, c'erano quelli cattivi in cui non vendevo una lampadina da trecento lire. Ma questo, Valentina non voleva capirlo. Secondo lei ero avaro; e la mia avarizia consisteva nel fatto che tenevo i conti di cassa, segnavo le entrate e le uscite, e quando non ce li avevo, le dicevo, appunto, che non ce li avevo. Allora lei gridava: "Sei un avaro... ho sposato un avaro." Io le rispondevo: "Ma perché dici che sono un avaro, così, senza averne le prove? perché non vieni a negozio? perché non vieni in banca? ti farei vedere quello che vendo e non vendo... ti farei vedere quant'è calato il mio conto." Lei rispondeva che in negozio non ce l'avrei mai veduta perché lei non era una bottegaia e suo padre era stato funzionario statale; quanto alla banca, non ci sarebbe venuta perché non ci capiva niente e perciò la lasciassi tranquilla. Poi spiegava, quasi affettuosamente: "Vedi, Augusto, tu sei avaro... magari spenderai tutto quello che hai, magari farai dei debiti... ma sei avaro... avaro non è chi non vuol spendere... avaro è chi gli dispiace spendere."

"E chi te l'ha detto che mi dispiace spendere?"

"Fai sempre una certa faccia quando si tratta di cavare i soldi."

"Ma quale faccia?"

"La faccia dell'avaro."

In quel tempo ero innamorato di mia moglie: rotonda, bianca e rosa, appetitosa, fresca, Valentina era in cima a tutti i miei pensieri. E non trovavo niente da ridire che passasse la giornata senza far nulla, a fumare sigarette americane, leggere i giornali a fumetti e andare al cinema con le amiche. Amandola come l'amavo, mi pareva che lei fosse sempre dalla parte della ragione e io da quella del torto. L'avarizia, non c'è che dire, è un brutto difetto e io, sentendomi sempre dire che ero avaro, avevo finito per crederci e mi ero convinto anch'io che lo ero. Così, invece di risponderle: "Ma piantala con questa faccenda dell'avaro... e poi avaro o no, soltanto io so quanto possiamo spendere", bastava che lei dicesse: "eccolo l'avaro", perché, terrorizzato, cavassi fuori i soldi e pagassi senza fiatare. Così lei, che aveva capito ormai questa mia debolezza, non mi lasciava beneavere: "Augusto ci vuole la radio... tutti ci hanno la radio."

"Ma Valentina, costa cara la radio."

"Uh, non farmi l'avaro adesso, con tutti quei soldi che hai in banca vorresti dirmi che non puoi comprarti la radio."

"E va bene, compriamo la radio." Oppure: "Augusto, ho visto un paio di scarpe tanto belle... mi dai i soldi?"

"Ma se ancora l'altro giorno ne hai comprate un paio."

"Ma quelli erano sandali... su, non far l'avaro."

"Beh, ecco i soldi." Insomma, aveva trovato il modo di farmi pagare e tacere, infallibile, e non sbagliava mai.

Io pagavo perché speravo che un giorno finalmente lei riconoscesse che non ero avaro, che anzi ero generoso, come mi sembrava di essere. Ma questa era una illusione e mi passò presto. Infatti, più spendevo e più, per lei, ero avaro. Forse lei capiva che spendevo per un impegno dell'orgoglio, per farle cambiare idea e spuntarla con la sua ostinazione a considerarmi avaro; e anche lei per puntiglio, non voleva darmela vinta. Ma forse era soltanto la sua stupiditа: si immaginava che le nascondessi chissа quali ricchezze, proprio come fanno gli avari veri, che quando hanno cento, vanno lamentandosi in giro che hanno soltanto dieci. Del resto aveva ragione lei, dicendo che mi dispiaceva spendere. Mi dispiaceva perché sapevo quanto avevamo e sapevo pure che di questo passo presto non avremmo più avuto niente. Mi ero sposato con il negozio avviato e un conto in banca di quasi un milione. Adesso, per quanti sforzi facessi, e sebbene non portassi più denaro alla banca e passassi tutto il guadagno a casa, il conto diminuiva, di mese in mese, sempre più. Prima novecentomila, poi ottocento, poi settecento, poi seicento. Era chiaro, spendevamo più di quanto guadagnassi e di questo passo, in un anno al massimo, il conto si sarebbe esaurito. Decisi che a cinquecento mi sarei fermato e gliel'avrei detto. Debbo dire che aspettavo quel giorno quasi con ansietа: mi rendevo conto che se quel giorno non riuscivo a puntare i piedi, ero perduto. Intanto il tempo passava e il conto diminuiva. Erano seicentomila lire, poi cinquecentocinquanta, poi cinquecentoventicinque. Una di quelle mattine, ritirai venticinquemila lire, andai a casa e dissi a Valentina: "Guarda, li vedi, sono venticinque biglietti da mille."

Lei disse: "Beh perché me li fai vedere? vuoi farmi un regalo?"

"No, non voglio farti un regalo."

"Figurarsi, tu farmi un regalo... sarebbe troppo bello."

"Aspetta... te li faccio vedere perché sono gli ultimi."

"Non ti credo."

"Eppure è vero."

"Vuoi dirmi che tu non ci hai più soldi in banca?"

"Ce li ho... ma sono il minimo per un commerciante come me... se spendiamo anche quelli, posso chiudere bottega."

"Lo vedi che ce li hai... allora perché mi tormenti?... lasciami in pace... e poi non vuoi che ti dica che sei avaro."

Avevo giurato di restar calmo. Ma a quella parola di avaro, saltai su inviperito: "Non sono avaro... spendiamo più di quanto guadagniamo... ecco tutto... ma perché non ci vieni a negozio... perché non ci vieni in banca?"

"Lasciami in pace con la tua banca e il tuo negozio... fa' quello che vuoi, se ti fa piacere di essere avaro, sii pure avaro... ma lasciami in pace."

"Cretina."

Era la prima volta da quando eravamo sposati che l'insultavo. Avete mai veduto il fuoco saltar su da un po' di petrolio se ci avvicinate un fiammifero? Così Valentina, sempre così calma e perfino indolente, a quella parola che mi era sfuggita. Prese a ingiuriarmi e più mi ingiuriava e più trovava nuove ingiurie, quasi che una tirasse l'altra, come le ciliegie. Bisogna dire che ce l'avesse con me da un pezzo e che quello che mi andava dicendo l'avesse rivoltato in mente non so quanto tempo. Non erano, poi, ingiurie semplici, brutali, da uomo, come: "canaglia, farabutto, mascalzone", che in fondo non fanno male a nessuno; no, erano ingiurie da donna, sottili, di quelle che ti entrano dentro come aghi e poi ti rimangono e più tardi, se ti muovi, te li senti pungere il diavolo sa dove. Ingiurie che riguardavano la famiglia, il mestiere, il fisico; non ingiurie proprio ma frasi cattive, rigirate in modo perfido, da lasciare senza fiato. Eh, non la conoscevo Valentina, e se non avessi provato tanto dolore sentendola parlare in quel modo, avrei potuto anche meravigliarmi. Basta, andò a finire che lei si calmò, finalmente, e io un po' per la mortificazione, un po' per la stanchezza di quella scena così lunga, mi misi a piangere come un bambino, inginocchiato davanti a lei, la faccia contro le sue gambe. Ma pur piangendo e domandandole perdono, sentivo che era finita e che non l'amavo più; e questo pensiero per me era così amaro che riprendevo a piangere di nuovo, più forte di prima. Alla fine smisi di piangere, le diedi cinquemila lire in regalo e me ne andai.

Mi restavano ventimila lire, ma non amavo più mia moglie e, per ripicca, ero deciso a mostrarle che non ero avaro, dovessi per questo andare in rovina. Però, prima di fare quello che avevo in mente, provai un dubbio, un'esitazione, quasi un terrore, come quando, al mare, uno va per tuffarsi e l'acqua che si muove laggiù in fondo, sotto i suoi piedi, gli fa paura. Mi trovavo sul lungotevere, dalle parti di Ripetta, con un sole di primavera che scaldava, dolce, senza bruciare. Vidi a capo di un ponte un mendicante che sporgeva il viso verso questo sole, pur tendendo la mano, accoccolato in terra. E vedendo questo viso così contento, con gli occhi socchiusi e la bocca quasi sorridente, pensai: "Ma di che hai paura?... quand'anche diventassi come lui, saresti sempre più felice di adesso." Allora strinsi in pugno tutti quei fogliacci da mille che avevo in tasca e, passando, gliene buttai uno nel cappello. Siccome era cieco, non mi ringraziò e continuò a tendere il viso al sole, ripetendo le solite parole che dicono i mendicanti.

Poco più su, dopo il ponte, c'era un negozio di orologi; ci andai e, lì per lì, senza esitare, comprai un orologio per mia moglie, del valore di diciottomila lire. Mi restavano mille lire, ci presi un taxi e mi feci portare al negozio. Giа mi sentivo meglio, sebbene un po' di paura mi restasse; ma mi rinfrancai rifiutando per tutto il mattino la roba ai clienti. A chi dicevo che l'articolo era esaurito; a chi domandavo un prezzo eccessivo; a chi spiegavo che l'articolo ce l'avevo ma non era in vendita perché era un campione. Mi presi anche il lusso di trattare male un paio di clienti, di quelli proprio antipatici. Intanto continuavo a ripetere dentro di me: "Niente paura, il primo passo e il più difficile... poi tutto viene da sé."

Tornai a casa quella mattina quasi temendo di scoprire che dopo tutto amavo ancora mia moglie; lo temevo perché, allora, avrei dovuto ricominciare a lottare per il centesimo, a sentirmi dare dell'avaro, e, insomma, a rifare la vita che avevo fatto in quegli ultimi due anni. Ma come la guardai, mi accorsi che proprio non l'amavo più; mi sembrava un oggetto; notai perfino che sotto la cipria ci aveva il naso un po' lustro. Le dissi: "Cara, ti ho portato un regaluccio: siccome ti lamentavi sempre di non avere un orologio da polso." Mi diede il polso e io, prima di affibbiarci l'orologio, ci misi su un bel bacio sonoro, proprio da marito innamorato. Ma intanto pensavo: "Prendi su... questo bacio è più falso di quello di Giuda." Quel giorno bisogna dire che lei avesse rimorso di tutte le brutte cose che mi aveva detto, perché fu tutta svenevole e graziosa. Ma io non sentivo più nulla: dentro, la molla dell'amore mi si era rotta e non c'era più niente da fare.

I giorni appresso continuai ad eseguire il mio piano. Non passava giorno che non le facessi qualche regalo; a negozio rifiutavo persino di ascoltare i clienti, dichiarando fin da principio: "Non vendo niente"; intanto il conto in banca diminuiva. Mezzo milione poi non è una gran somma, in capo a due mesi o poco più non mi restava quasi più nulla. Valentina non si insospettì. Continuava a leggere le riviste, a fumare sigarette americane, ad andare al cinema con le amiche. Soltanto ogni tanto, pro forma, ad un nuovo regalo, diceva: "Lo vedi che avevo ragione io, quando dicevi che non avevi soldi ed eri povero e non ce la facevi più... ora spendi molto di più, sei, non dico generoso, ma per lo meno meno avaro e i soldi li trovi lo stesso." Io non dicevo nulla ma dentro di me ripetevo: "Aspetta, prima di cantar vittoria."

Uno di quei giorni ritirai alla banca le ultime cinquemila lire e ci comprai tanti pacchetti di sigarette americane in modo da rimanere con non più di trecento lire. Era mattina presto e, invece di andare a negozio, tornai a casa, andai in camera da letto e mi distesi, vestito com'ero e con le scarpe ai piedi, sulle lenzuola ancora disfatte. Valentina, che dormiva, si rivoltò nel sonno dicendo: "Non vai a negozio?... è domenica oggi?"; e si riaddormentò. Cominciai a fumare una sigaretta dopo l'altra aspettando che lei si destasse. Lei dormì ancora un'ora, poi si svegliò e domandò subito: "Ma che, è festa oggi?" e io risposi: "Sì, è festa." Allora lei si alzò e si vestì lentamente, parlando poco e spesso domandando: "Ma che festa è?" come se avesse presentito che non era festa affatto. Io aspettavo il momento che lei mi domandava i soldi per la spesa: era lei, con tutta la sua pigrizia, che faceva la spesa e poi cucinava facendosi aiutare da una ragazzina a mezzo servizio. Lei andò nel bagno, finì di vestirsi, e poi andò in cucina e parlò con la servetta e preparò il caffè. Mi levai finalmente dal letto e andai anch'io in cucina. Prendemmo il caffè in silenzio, salvo che lei insistette: "Ma che festa è... Lucia dice che non è festa e che tutti i negozi sono aperti." Allora risposi con semplicitа: "Oggi è la festa mia;" e me andai in camera da letto dove mi distesi di nuovo sulle lenzuola, con scarpe e tutto.

Lì per lì Valentina non disse nulla restando un pezzo in cucina a parlare con la servetta e, come credo, a darmi tempo per mostrare che non mi prendeva sul serio. Finalmente si affacciò sulla soglia, le mani sui fianchi, e disse: "Se non ti va di lavorare, non discuto.... sei padrone di restartene a letto... ma se ti va di mangiare, devi darmi i soldi per la spesa."

Gettai fumo al soffitto e risposi: "Soldi? Non ne ho."

"Come non ne hai?"

"Non ne ho!"

Lei disse, allora: "Senti, che capricci sono questi? Che ti salta in testa?... Se non mi dai i soldi, io la spesa non la faccio, e se non faccio la spesa, non mangiamo..."

"Infatti" risposi "credo proprio che non mangeremo!"

"Beh" disse lei "vado di lа, non ho tempo da perdere... metti i soldi sul comodino."

Io continuai a fumare e quando lei tornò, dopo qualche minuto, dissi con sinceritа: "Valentina, parlo sul serio, non ho più un soldo... mi restano in tutto trecento lire... non ho più niente."

"Tu hai il tuo conto in banca... che avarizia ti ha preso ora?"

"Non sono avaro, non ho più niente... guarda, del resto." Cavai di tasca il libretto della banca e glielo mostrai: questa volta lei non disse che non se ne intendeva e che la lasciassi in pace, aveva capito che facevo sul serio e mostrava un viso spaventato. Guardò il libretto e poi si lasciò cadere su una seggiola, senza fiato. Spiegai: "Tu mi dicevi che ero avaro; e più spendevo, più, per te, ero avaro... allora mi sono rovinato apposta... ho speso tutto... a negozio non ho più voluto vendere... e adesso è finita... Non ho più niente e non abbiamo manco da mangiare... ma almeno non potrai dirmi che sono avaro."

Lei, tutto ad un tratto, si mise a piangere, più, come pareva, perché sentiva che non l'amavo più che per il fatto in sé. Poi disse: "Non mi hai mai voluto bene, e adesso mi fai anche mancare da mangiare."

"Per forza" dissi "non ci ho soldi."

Lei disse: "Io ti lascio... me ne vado da mamma."

"Arrivederci."

Se ne andò nell'altra stanza e, insomma, anche dalla mia vita perché da quel mattino non l'ho più rivista. Dopo un poco mi alzai dal letto e uscii anch'io. Era una giornata di sole, comprai uno sfilatino e andai a mangiarmelo sul lungotevere. Guardando all'acqua che scorreva mi sentii ad un tratto felice e pensai che quei due anni di matrimonio non erano stati che un'avventura senza conseguenze: quando fossi stato vecchio, me ne sarei ricordato non come di due anni ma come di due giorni. Mangiai piano lo sfilatino e poi mi attaccai alla bocchetta di una fontanella e bevvi. Più tardi andai da mio fratello e gli domandai di ospitarmi finché avessi trovato lavoro. Lo trovai, infatti, da semplice elettricista, di lì a qualche settimana.

Valentina come ho detto, non l'ho più rivista. Ma sapete che va dicendo? Che sono uno sciupone dalle mani bucate, che lei non ce la faceva a farmi risparmiare; e così mi ha lasciato.

 

LA GIORNATA NERA

 

Quando si dice. Tanti non ci credono alla iettatura, ma io ci ho le prove. Che giorno era avant'ieri? martedì diciassette. Che successe la mattina, prima di uscire? cercando il pane nella credenza rovesciai il sale. Chi incontrai, per strada, appena uscito? una ragazza gobba, con una voglia pelosa di cotica sul viso, che, nel quartiere, e sì che ci conosco tutti, io non avevo mai visto. Che feci entrando nel garage? passai sotto la scala di un operaio che stava riparando l'insegna al neon. Chi fu il meccanico che nel garage mi parlò per primo? coso, tanto per non nominarlo, che tutti lo sanno che porta male con quella sua faccia storta e quei suoi occhiacci biliosi. Non vi basta? eccovi la giunta: andando al posteggio per poco non schiacciai un gatto nero che mi attraversò la strada, sbucato da non so dove, così che dovetti frenare di colpo con un cigolio del diavolo.

Al posteggio di piazzale Flaminio, a pochi passi dalla stazione dei treni per Viterbo, non aspettai molto. Saranno state le sette, ed ecco arrivarmi di corsa, con certi passi come se ballassero la tarantella, due burini proprio di campagna. Lui basso e tozzo, in pantaloni neri, fascia sulla pancia, farsetto, camicia senza colletto, la faccia schiacciata e nera di barba, guercio, con un occhio chiuso e l'altro spalancato; lei, forse la madre, vestita da zingara, con la gonna nera, lo sciallino nero, la faccia come di bosso giallo, tutta grinze, e gli anelli d'oro alle orecchie. Carichi come somari, poi, con involti, pacchi e mazzi di insalata e fazzoletti pieni di pomodori. Lui mi diede senza parlare un pezzo di carta sul quale, con certe lettere svolazzanti che sembravano note di musica, c'era scritto l'indirizzo: piazza Pollarola; che sta appunto, presso il mercato di Campo dei Fiori. Intanto lei, lesta lesta, caricava tutto quel ben di Dio dentro il taxi. Mi voltai a guardare e osservai: "Ma che, mi avete preso per il camion della verdura?"

Lui rispose tra i denti, senza guardarmi: "È tutta roba buona... corri, su, che abbiamo fretta."

Accesi il motore e corsi. Mentre correvo, sentii lui che diceva alla donna: "Ma guarda dove metti i piedi... mi hai schiacciato un pomodoro;" e subito pensai che mi avessero sporcato il taxi. Come, infatti, giunsi a piazza Pollarola mi voltai e vidi che avevano proprio fatto un macello: foglie di insalata, terra, acqua, pomodori schiacciati, e mica uno solo. Dissi, arrabbiato: "E ora chi me lo ripaga il cuoio dei sedili?"

"Non è nulla", disse lui cavando di tasca il fazzoletto e pulendo dove era più sporco. Risposi inviperito: "È inutile che asciughi... mi hai fatto un danno di migliaia di lire."


Дата добавления: 2015-10-21; просмотров: 31 | Нарушение авторских прав







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