Студопедия
Случайная страница | ТОМ-1 | ТОМ-2 | ТОМ-3
АрхитектураБиологияГеографияДругоеИностранные языки
ИнформатикаИсторияКультураЛитератураМатематика
МедицинаМеханикаОбразованиеОхрана трудаПедагогика
ПолитикаПравоПрограммированиеПсихологияРелигия
СоциологияСпортСтроительствоФизикаФилософия
ФинансыХимияЭкологияЭкономикаЭлектроника

Collana: Tascabili Bompiani 4 страница



Alla fine venne la sua volta; andò dentro la stanza dell'aiuto-regista e ci rimase forse due minuti; quindi ne uscì sempre con la stessa superbia. Il patto era che l'aiuto-regista doveva guardare alle fotografie e poi dirle: "Signorina, può darsi che presto avremo bisogno di lei... si tenga preparata, una di queste mattine la chiamiamo." Nient'altro. Ma per lei era abbastanza. Da quella povera ragazza che era quando era entrata, ecco che usciva giа cambiata, nella sua fantasia, in stellina o addirittura stella.

Mi levai anch'io e la seguii, per i corridoi lunghi e nudi. Camminava senza fretta, dritta e dignitosa, con le sue belle gambe storte. Esitò un momento all'incrocio dei corridoi, poi imboccò l'anticamera e uscì nella strada. I teatri si trovavano alla periferia, lungo uno stradone mezzo di campagna e mezzo di cittа: da una parte c'erano i campi, pieni di sole in quel mattino di ottobre; dall'altra i palazzoni popolari, alti come torri, pieni di finestre e di panni stesi ad asciugare. Lei camminava piano lungo i palazzi; e io feci presto a raggiungerla. Chiamai, trafelato: "Agata..."

Mi guardò e poi pronunziò a fior di labbra, quasi senza voltarsi: "Ciao, Gino..."

Dissi, tutto in una volta, come un solo lamento: "Agata, perché non vuoi vedermi?... ti voglio tanto bene... perché non mi vuoi bene... Agata vediamoci."

"Ora mi vedi", fece lei stringendosi nelle spalle. Dissi: "Agata, vuoi sposarmi?"

"Non ci penso neanche", rispose, sempre camminando.

"Perché?"

Per tutta risposta, domandò: "Che fai adesso?"

"Faccio la controfigura, ma..."

"Perché ti ostini a voler fare l'attore", continuò cattiva, "non lo sai che non ci sei tagliato?... fai la controfigura e vorresti sposarmi... ma che, mi prendi per scema?"

"Agata..." esclamai disperato; e feci per prenderla per un braccio. Si svincolò subito con una violenza che mi offese. Persi la testa e gridai: "Controfigura è sempre meglio che nulla... che ti credi? che stamattina ti hanno telefonato sul serio? sono io che ti ho fatto chiamare dall'aiuto-regista, per vederti... a te, cara mia, non ti faranno mai far niente, neppure i rumori di fondo."

Subito mi pentii di aver parlato ma ormai era troppo tardi. Capii dal suo contegno che mi credeva; e capii pure che con quelle parole avevo distrutto ogni speranza di riaverla. Non disse nulla, non si fermò, non cambiò colore, non mi guardò: continuò a camminare piano, calma, la borsa sotto il braccio. Pentito, incominciai a correrle a fianco, supplicandola di perdonarmi: ma lei, questa volta, fece come se io non ci fossi stato. Tirò dritta, senza fretta, per la strada deserta, tra i campi e i palazzi popolari. Finalmente, vedendo che non mi dava retta, mi fermai in mezzo al marciapiede, a guardarla, mentre si allontanava. La delusione doveva essere stata terribile per lei; ma non trapelava se non nel modo di camminare. Prima era stata soddisfatta, pavoneggiante; adesso era soltanto malinconica. Lo si capiva da come muoveva le gambe e teneva la testa un po' inclinata verso la spalla. Mi fece pena e mi parve a un tratto di non averla mai amata tanto. Aprii la bocca come per chiamare: "Agata"; ma, in quello stesso momento, lei svoltò e scomparve. E io rimasi con la bocca spalancata sulla prima "a" di Agata, davanti la strada deserta.

 

IL PAGLIACCIO

 

Quell'inverno, tanto per non lasciar intentato alcun mestiere, presi a girare per i ristoranti suonando la chitarra a un mio compagno che cantava. Il compagno si chiamava Milone, anche soprannominato il professore per via che un tempo aveva insegnato la ginnastica svedese. Era un omaccione sui cinquanta, non proprio grasso ma inquadrato, con una faccia spessa e torva e un corpaccio massiccio che faceva scricchiolare le seggiole quando si sedeva. Io suonavo la chitarra da par mio, ossia sul serio, senza quasi muovermi, gli occhi bassi, perché sono un artista e non un buffone; il buffone invece lo faceva Milone. Cominciava come per caso, ritto in piedi, appoggiato a un muro, il cappelluccio sugli occhi, i pollici sotto l'ascella, la pancia, fuori dai pantaloni e la cinghia sotto la pancia: pareva un ubriaco che cantasse alla luna. Poi, via via, si scaldava e, pur senza veramente cantare, perché non aveva né voce né orecchio, finiva per dar spettacolo di sé, o meglio, come ho detto, per fare il buffone. La sua specialitа erano le canzonette sentimentali, le più famose, quelle che normalmente commuovono e inteneriscono; ma in bocca sua quelle canzonette non commuovevano bensì facevano ridere perché lui sapeva renderle ridicole, in una maniera tutta sua, spiacevole e triste. Io non so che ci avesse quell'uomo: o che in gioventù qualche donna gli avesse fatto un torto; oppure che fosse nato a quel modo, con un carattere così, da prender gusto a mettere alla berlina le cose buone e belle; fatto sta che non era un semplice caratterista; no, lui ci metteva non so che rabbia e ci voleva tutta l'ottusitа della gente mentre mangia per non accorgersi che non era ridicolo ma semplicemente penoso. Soprattutto superava se stesso quando si trattava di rifare le mossette, le smorfie e i vezzi femminili. Che fa una donna, sorride civettuola? e lui, da sotto la falda del cappello, abbozzava un ghigno sguaiato da baldracca. Batte, come si dice, un poco l'anca? e lui si metteva a far la danza del ventre spingendo in fuori la natica quadrata e massiccia come un pacco. Fa la voce dolce? e lui stringendo la bocca, ne tirava fuori una vocetta flautata, alla melassa, addirittura stomachevole. Non aveva, insomma, misura, passava sempre il segno, diventava scurrile, ripugnante. A tal punto che io spesso mi vergognavo, perché un conto è accompagnare con la chitarra un cantante e un conto tener bordone a un pagliaccio. E poi ricordavo di aver suonato non molto tempo addietro quelle stesse canzoni, cantate sul serio da un bravo artista; e mi faceva pietа vederle ridotte a quel modo, irriconoscibili e indecenti. Glielo dissi, una volta, mentre trottavamo per le strade, da un ristorante all'altro. "Ma che ti hanno fatto le donne a te?" Al solito, dopo aver fatto il buffone, era distratto e tetro, come se avesse avuto chissа che pensieri per la testa. "A me", disse, "non mi hanno fatto niente."



"Dico così", spiegai, "perché a prenderle in giro ci metti una passione." Questa volta lui non rispose e il discorso finì lì.

L'avrei lasciato se non ci avessi avuto l'interesse; perché, sebbene questo possa sembrare impossibile, faceva più soldi lui con le sue volgaritа che tanti bravi posteggiatori con le loro belle canzoni. Giravamo soprattutto per quei ristoranti non proprio di lusso, quasi delle trattorie, alla buona ma cari, dove la gente ci va per rimpinzarsi e stare allegra. Ora, appena entravamo, e io zitto zitto, sfoderavo la chitarra, da quei tavoli affollati era un solo grido: "Oh, il professore... ecco il professore... vieni qua professore." Torvo, sbracato, stralunato, strisciante, Milone si presentava dicendo: "Comandino" e quel "comandino" era giа così ridicolo, alla maniera sua, che tutti scoppiavano dalle risate. Intanto arrivava la pasta asciutta; e, mentre il trattore si affannava in giro a servire, Milone, con una vocetta fessa, annunziava: "Una canzonetta proprio bella: Quando Rosina scende dal villaggio... io farò Rosina." Figuratevi quelli: a vederlo fare Rosina, coi soliti lazzi e le solite scurrilitа, restavano perfino in sospeso con gli spaghetti penzolanti dalla forchetta, tra la bocca e il piatto. E non erano mica compagnie di macellai o roba simile; era tutta gente fine: gli uomini vestiti di blu scuro, impomatati, la perla sulla cravatta; le donne impellicciate, coperte di gioielli, delicate, preziose. Dicevano tra di loro, mentre Milone faceva il pagliaccio: "È grande... è proprio grande;" oppure qualcuno, allarmato, gridava: "Mi raccomando, non lo dite in giro che l'abbiamo scoperto... se no si guasta." Tra le altre volgaritа, Milone aveva una canzone in cui, ad un certo punto, per render più ridicolo il personaggio, faceva con la bocca un certo rumore che non dico. Ebbene, ci credereste?, erano proprio quelle damine così vezzose a volere il bis di questa canzone.

Bisogna dire che a forza di vedersi applaudito, Milone si fosse montato la testa. Abitava presso una sarta, in una camera ammobiliata, buia e umida, in via Cimarra. Adesso, tutte le volte che andavo a prenderlo a casa, lo trovavo che provava davanti allo specchio qualche nuova sguaiataggine, qualche nuova volgaritа. Ci metteva uno scrupolo tetro, come di grande attore che si prepari per la recita; e io, seduto sul letto, guardandolo che faceva la danza del ventre davanti lo specchio del canterano, mi domandavo talvolta se, per caso, non fosse un poco matto. "Ma non sarebbe ora", gli domandai un giorno, "di inventare qualche cosa di grazioso, di commovente?" E lui: "Lo vedi che non capisci nulla... la gente mangiando vuol ridere, non commuoversi... e io", soggiunse torvo, "la faccio ridere." Qualche tempo dopo, sempre per quella smania di perfezionare, inventò di portare in una valigetta qualche indumento femminile, come dire un cappellino, una sciarpetta, una gonnella, da indossare lì per lì, per rendere ancor più comica la parodia. Questa di travestirsi da donna, in lui, era quasi una mania; e non so dire che pena fosse vederlo dimenarsi con il cappellino sugli occhi e la gonnella legata alla cintola, sopra i pantaloni. Finalmente, non sapendo più che escogitare, avrebbe voluto che facessi anch'io il buffone, pur pizzicando le corde alla chitarra. E questa volta mi rifiutai.

Giravamo più ristoranti che potevamo, tra le dodici e le tre e tra le otto e mezzanotte. Si andava a gruppi, secondo i giorni: una volta i ristoranti dalle parti di piazza di Spagna; una volta quelli intorno piazza Venezia; una volta quelli di Trastevere; una volta quelli della Stazione. Tra un ristorante e l'altro, pur correndo per le strade, non parlavamo: tra di noi non c'era confidenza. Finito il giro, andavamo in un'osteria e ci spartivamo i denari. Poi, in silenzio, io fumavo una sigaretta e Milone beveva un quartino. Il pomeriggio, Milone provava le parti davanti allo specchio; io, invece, o dormivo o me ne andavo al cinema.

Una sera di tramontana, dopo aver girato le trattorie di Trastevere, entrammo, più per scaldarci che per suonare, in un'osteria dietro piazza Mastai. Era un budello lungo, quasi un corridoio, con i tavoli allineati lungo la parete e, ai tavoli, povera gente per lo più, che beveva il vino dell'oste e mangiava roba incartata nei giornali. Non so perché, la vanitа, poiché non poteva essere l'interesse, spinse Milone ad esibirsi anche in quell'osteria. Scelse dunque una delle canzoni più belle e, coi soliti sistemi, la ridusse a forza di ghigni e di contorsioni, ad una porcheria. Finito che ebbe, ci fu un applauso freddo freddo, e poi, da uno di quei tavoli, si udì una voce: "Ora ve la canto io."

Mi voltai e vidi avanzarsi un ragazzo biondo, in tuta di meccanico, bello come un angelo, che guardava Milone con occhi furiosi, come se avesse voluto mangiarselo. "Tu attacca", mi disse con autoritа, "e ricomincia da principio." Milone, intimidito, finse di esser stanco e si lasciò cadere sopra una seggiola presso la porta. Il ragazzo mi fece cenno con la mano di attaccare e poi prese a cantare. Non dico che cantasse proprio da cantante vero, ma cantava con sentimento, con una bella voce calda e tranquilla, e, insomma, cantava come si deve cantare, e come la canzone domandava di essere cantata. Inoltre, come ho detto, era bello, con quei suoi riccioli, specie se paragonato a Milone, così massiccio e così squallido. Cantava rivolto all'osteria, guardando ad un tavolo dove stava seduta una ragazza sola, come se avesse cantato per lei. Quando ebbe finito, fece un gesto verso Milone, con la mano tesa, come per dire: "Ecco come si canta;" e se ne tornò al tavolino dove l'aspettava la ragazza che subito gli buttò le braccia al collo. Nell'osteria, a dire la veritа, lo applaudirono anche meno di Milone, tutta gente che non aveva capito perché si fosse scomodato a cantare. Ma io l'avevo capito; e questa volta anche Milone aveva capito.

Mentre suonavo, avevo spesso guardato a Milone; e l'avevo veduto passarsi più volte la mano sul viso e sotto i capelli che gli pendevano sulla fronte, come chi non ce la faccia a rimaner sveglio e caschi dal sonno. Ma non riusciva a nascondere un'espressione amara che non gli avevo mai visto; e ad ogni strofa che il ragazzo imbroccava, pareva che l'amarezza gli crescesse.

Finalmente, si levò in piedi stirandosi e fingendo di sbadigliare e disse: "Beh, è ora di andare a dormire... ci ho un sonno..."

Ci lasciammo all'angolo della strada, con il solito appuntamento per il giorno dopo. Quello, poi, che sia avvenuto durante la notte, l'ho ricostruito dopo; ma sono supposizioni. Ho detto che Milone si era montato, credendo di essere chissа che grande artista mentre in realtа era un poveraccio che faceva il buffone per divertire la gente mentre mangiava; così tanto più grande fu il capitombolo che quel ragazzo biondo in tuta gli fece fare con il suo gesto. Penso che mentre il ragazzo cantava, tutto ad un tratto, dovette vedersi com'era e non come aveva sinora creduto di essere: un omaccione sui cinquanta che si metteva la bavarola e recitava la Vispa Teresa. Ma penso pure che dovette capire d'essere incapace di cantare, anche se avesse fatto un patto col diavolo. Lui, insomma, non poteva che far ridere; e non sapeva far ridere che mettendo alla berlina certe cose. E queste cose, per combinazione, erano proprio le cose che in vita sua non era mai riuscito ad avere.

Ma, come ho detto, sono supposizioni. Certo che la sarta che lo teneva a pigione, il giorno dopo lo trovò impiccato tra la finestra e la tenda, nel luogo dove di solito stanno appese le gabbie dei canarini. Se ne accorsero alcuni passanti, in via Cimarra, vedendo, attraverso i vetri, le gambe e i piedi che penzolavano nel vuoto. Dispettoso come tutti i suicidi, aveva chiuso a chiave la porta e appoggiato alla porta il canterano con lo specchio: forse voleva vedersi, come quando provava la parte, in atto di infilare il collo nel nodo. Insomma, dovettero sfondare l'uscio, e lo specchio cascò e si ruppe. Lo portarono al Verano e io fui il solo ad accompagnarlo, senza chitarra questa volta. La sarta ci rimise lo specchio ma si consolò vendendo, a un tanto il pezzo, la corda.

 

IL BIGLIETTO FALSO

 

Passavo per piazza Risorgimento quando mi sentii chiamare: "Maschio, che fai?" Era Staiano, un amico d'altri tempi, di quando vendevamo insieme sigarette in borsa nera a via del Gambero. Era ripulito, questo lo vidi subito; e poiché gli dissi che non facevo nulla, sebbene non potessi dirmi veramente disoccupato perché non avevo mai avuto un mestiere, mi prese sottobraccio e mi disse che lui se la sentiva di farmi guadagnare senza fatica mille o duemila o anche tremila lire al giorno. Gli domandai in che modo, e lui, allora, la prese molto larga. Disse che erano tempi duri e che c'era fior di gente che, pur avendo un mestiere, non sapeva come campare. Disse che in tempi come questi gli uomini si dividevano in due categorie: quelli che ci avevano core e quelli che non ce l'avevano; e i primi finivano sempre per spuntarla, mentre i secondi facevano i minchioni. Disse che lui era sicuro che io appartenevo alla prima categoria, perché mi aveva conosciuto in altri tempi non meno duri e difficili. Disse che la proposta che doveva farmi mi avrebbe forse meravigliato, ma io non dovevo interromperlo, non dovevo dire nulla fuorché sì o no. Io l'avevo lasciato parlare e intanto pensavo che doveva essere una proposta molto strana perché tante precauzioni in lui erano veramente insolite. Finalmente tacque e io gli domandai di che si trattava. Lui rispose subito: "Si tratta di spendere quattrini."

"Spender quattrini?"

"Sì, io ti do per esempio un biglietto da cinquemila lire... tu vai, giri, studi la situazione e poi ci paghi, mettiamo, un caffè, o un pacchetto di sigarette... quindi il resto lo porti a me... io, sul resto, ti do un terzo."

"Un terzo di lire buone?" lo interruppi per mostrargli che avevo capito. "Si capisce, buone... per chi mi hai preso?"

"E se scoprono che il biglietto è falso?"

"Niente... tu dici subito che sai chi te lo ha dato e te lo riprendi fingendo indignazione." Io volevo rispondere: "Ma sei matto, non se ne parla neppure;" e invece, non so come, mi uscì di bocca: "Va bene... siamo intesi." Poi, quello che avvenne dopo non saprei neppure dirlo, tanto ero meravigliato di me stesso, di avere accettato e di continuare ad accettare. Insomma, lui mi diede un biglietto da diecimila lire, dicendo che per quel giorno voleva mettermi alla prova; e mi fissò l'appuntamento per la sera alle otto, nei giardini di piazza Risorgimento. Erano le due del pomeriggio.

Eccomi con un biglietto da diecimila lire falso in tasca e con la speranza di guadagnarne, così, per gioco, più di tremila vere. D'improvviso mi sentii ricco e pieno di ozio, come se avessi avuto davanti a me non un pomeriggio ma una settimana o un mese, e avessi potuto scapricciarmi quanto volevo prima di quel momento, che vedevo ancora molto lontano, in cui mi sarei deciso a spendere il biglietto falso. Oltre alle diecimila lire di Staiano, avevo in tasca circa millecinquecento lire buone, e pensai che ormai potevo anche lasciarmi andare, tanto avevo da due a tremila lire al giorno sicure per chissа quanto tempo. Così andai direttamente ad un'osteria lì accanto, a piazza dell'Unitа e, per la prima volta, dopo tante colazioni a base di supplì e di pagnottelle imbottite, mi ordinai un pasto completo: spaghetti, agnello al forno e un litro di vino. Sul punto di pagare, pensai un momento di spendere il biglietto falso, ma poi mi dissi che erano sempre trecento lire di meno che Staiano mi avrebbe dato e lo riserbai per qualche sciocchezza, caffè o sigarette, come lui mi aveva suggerito, e pagai con la moneta buona. Mi ficcai uno stecchino tra i denti, e uscii su via Cola di Rienzo, le mani in tasca.

Era primavera, col cielo pieno di nuvole bianche e un'aria dolce che ogni tanto si rigava di pioggia, roba da poco però, e subito dopo usciva di nuovo il sole. Guardando agli alberi di via Cola di Rienzo, che giа buttavano foglioline verdi, mi venne voglia della campagna: stendermi nell'erba, guardare il cielo, non pensare nulla. Ma in campagna mi piace andarci con qualche ragazza: solo mi annoio. Ora la ragazza non ce l'avevo e non vedevo il modo, lì per lì, di trovarne una. Pensando queste cose, passo passo, discesi tutta via Cola di Rienzo, passai piazza della Libertа, il ponte, giunsi a piazzale Flaminio. Qui, sotto la pensilina del tram, mi fermai e mi guardai intorno. Di solito sono timido con le donne, soprattutto perché non ho soldi, ma cosa vuol dire sentirsi ricco: vidi una ragazza che non pareva aspettare il tram, mi piacque, e subito le parlai, quasi senza pensarci. Era una bruna con una facciona rossa e solida e due occhi neri, vestita alla buona di una maglia rossa e una gonnellina marrone, con le gambe nude e i calzerotti rovesciati. Disse che era cameriera, che si chiamava Matilde e che era di un paese vicino a Roma, Capranica, mi pare. Cercava un posto e per il momento stava a pensione presso certe suore che avevano un convento anche al suo paese. Parlava un po' sostenuta; ma poiché le ebbi detto due o tre volte "signorina", diventò più cordiale. Dissi: "Lei, signorina, certo non conosce Roma... vuole che gliela mostro?" Lei, fingendo imbarazzo, rispose: "Veramente dovevo andare a presentarmi da una signora..." Insomma, le proposi di mostrarle il Foro Italico e lei, dopo qualche esitazione, accettò.

Nel tram non feci che scherzare; la ragazza mi ascoltava seria, e poi, tutto ad un tratto, scoppiava a ridere coprendosi la faccia con le due mani, da vera contadina. Scendemmo al piazzale di Ponte Milvio, prendemmo per il Lungotevere, verso l'obelisco. Conoscevo il luogo e sapevo che dietro il Foro c'è la collina, con tanti prati in cui si può stare tranquilli, senza timore d'essere osservati. Però, volli mostrarle lo stadio, che è una vera meraviglia, con tutte quelle statue, una per ogni sport, disposte in cerchio intorno le gradinate. Non c'era nessuno e lo stadio era proprio bello, in un silenzio da far paura, con le statue che si alzavano incontro al cielo pieno di nuvole. Ma lei restava fredda: anche quando le spiegai che quelle statue erano tutte di vero marmo, di un solo blocco, e pesavano ciascuna più di una tonnellata. Disse soltanto che le statue le parevano indecenti; e io le risposi che erano statue e non persone e che le statue hanno da essere nude, se no non sono statue. Per rabbonirla, presi una matita e scrissi sul polpaccio di una di quelle statue, un uomo che portava a spalla due guantoni da boxe: "Attilio vuole bene a Matilde", e la invitai a leggere. Ma lei rispose che non sapeva leggere e così appresi che era anche analfabeta. Adesso non era più tanto cordiale; e quando fummo all'imboccatura del sentiero che saliva verso la collina, si rifiutò di seguirmi, dicendo: "Tu mi hai preso per scema, ma io non sono scema... torniamo in cittа." Io volevo trascinarla, ma non ci fu verso; e presi anche uno spintone in petto che per poco non mi fece cascare a terra.

Così tornammo, con lo stesso tram col quale eravamo venuti, a piazzale Flaminio; e qui per rifar pace, le offrii in un bar un cappuccino e due paste. Erano le cinque e proposi di andare in un cinema lì accanto dove, oltre un film a colori, davano il documentario della partita Italia-Austria. Anche questa volta lei si fece un po' pregare, dicendo che doveva presentarsi da quella solita signora; ma erano maniere da contadina, come al mercato quando vendono o comprano; e, infatti, accettò subito appena vide che io, spazientito, facevo per salutarla.

Anche al cinema pagai con la moneta buona; e, una volta al buio, le presi la mano e lei mi lasciò fare. Purtroppo il film a colori era appena cominciato e la partita veniva per ultima; e siccome il film mi annoiava, mi feci più ardito e provai a baciarla sul collo. Subito mi respinse, con una manata, dicendo ad alta voce: "Auffa, le mani a posto"; tutti, intorno, zittirono; e io mi vergognai e cominciai a odiarla. Per ingannare la noia di quel film che trattava di Cristoforo Colombo, presi allora a fare mentalmente i conti delle spese della giornata: trecento la colazione, centoventi le sigarette, duecento il caffè e le paste, quattrocento il cinema. Avevo speso, dunque, più di mille lire e non mi ero divertito.

Finì la prima parte del film, si fece luce, e io dissi improvvisamente a Matilde: "Donne come te dovrebbero restare al paese a zappare la terra."

"Perché?"

"Perché sei un'ignorante e una disgraziata e non sei fatta per vivere in cittа." Lo credereste? Quella burina dalle guance gonfie mi guardò e rispose, con superbia: "Chi disprezza, compera."

Dalla rabbia, l'avrei strangolata. Non dissi nulla, mi alzai e andai a sedermi cinque file più in lа, piantandola in asso, come si meritava. Erano le sette.

La seconda parte del film non finiva mai e io pensavo sempre più al biglietto da diecimila lire che dovevo spendere e a Staiano che alle otto mi aspettava a piazza Risorgimento. Ma mi premeva il documentario e quando, finalmente, alle otto meno un quarto, Cristoforo Colombo si decise a morire e si rifece la luce, sperai di sbrigarmi in una diecina di minuti e poi correre a spacciare il biglietto. Mi sbagliavo, non avevo fatto i conti col programma: prima ci fu l'intervallo, poi la réclame di una calzoleria, poi quella di una fabbrica di mobili, poi un altro intervallo. Erano le otto quando, come Dio volle, cominciò il documentario. Sono tifoso e così, al primo apparire di quelle care facce dei nostri calciatori, dimenticai il biglietto, Staiano, la fretta e ogni cosa, e concentrai tutta la mia attenzione sulla partita. Dico la veritа, fu questo il solo momento felice di quella giornata che in principio mi era sembrata così bella.

Uscii dal cinema abbagliato, intontito, stracco: erano le otto e venti. Allora, pensando a Staiano che mi aspettava, al biglietto falso che dovevo spendere e alla moneta buona che avevo giа speso, quasi perdetti la testa. Non sapevo dove andare, non sapevo che fare, mi sentivo smarrito. Non so come, mi ritrovai in fondo a via Cola di Rienzo, non lontano da piazza Risorgimento; e, ad una voce che gridava: "Ecco la fortuna... chi vuol tentare la fortuna?", mi voltai pieno di speranza. Era un giovanotto bruno, con una faccia da impunito, appoggiato a un muro, una tavoletta al collo e, sulla tavoletta, il gioco delle tre carte. Accanto gli stava il compare, falso e affamato anche lui, fingendo di interessarsi al gioco. Allora mi venne un'illuminazione e decisi di tentare quella finta fortuna con le diecimila lire di Staiano: mi sarei fatto cambiare il biglietto dal compare, avrei puntato cento lire e poi me ne sarei andato. Il gioco era proibito e così non c'era neppure il pericolo che quei due farabutti andassero a denunziarmi.

Mi avvicinai, guardai con ingordigia alla tavoletta poi dissi mogio: "Mi piacerebbe puntare... ma come si fa? Non ho spiccioli", e mostrai il biglietto. Quello della tavoletta badava a cambiare il posto alle carte, ripetendo come un pappagallo: "Ecco la fortuna... chi vuol tentare la fortuna?"; ma il compare, pronto, mi venne sotto con il portafogli, dicendo: "Che diamine, un giovanotto che vuol tentare la fortuna, bisogna aiutarlo, eccomi qui, datemi il vostro biglietto." Glielo diedi e lui mi contò uno sull'altro nove biglietti da mille e dieci da cento. Puntai cento lire, come avevo deciso; quello della tavoletta disse: "Il signore punta cento lire... prego signore;" e poi scoprì la carta e vidi che avevo vinto. Allora, sebbene sapessi di certo che era una truffa e sapessi pure come si faceva, forse per la stanchezza, mi illusi di rifarmi delle spese della giornata e puntai le altre novecento lire. Questa volta perdetti, come era giusto. Mi allontanai pensando che avevo speso duemila lire e che non mi restavano più che mille lire di guadagno.

Ma la vera sorpresa me la diede Staiano che ritrovai poco dopo, nel giardinetto di piazza Risorgimento. Come ci ritirammo in un angolo e io cominciai a contargli i biglietti, lui senza esitare prese a ripetere: "È falso, falso, anche questo è falso, falso, falso" finché non ebbi finito. "Questi biglietti sono tutti falsi", concluse, poi, intascandoli e guardandomi, "e non sono dei nostri... i nostri sono perfetti... più falsi di questi ci sono soltanto quelli réclame con sopra scritto: banca dell'amore, mille baci... non c'è che dire, sei proprio bravo." Io rimasi a bocca aperta, stordito. Staiano soggiunse: "Ti avevo dato un biglietto da diecimila che era come se fosse stato buono e tu me ne hai portati nove che neppure un cieco li accetterebbe." Dissi allora: "Almeno ripagami le spese."

"Quali spese?"

"Beh, pensando che stavo per guadagnare tremila lire ne ho spese, tra una cosa e l'altra, più di duemila."

"Peggio per te... e che credi? Che quel biglietto non mi costava? L'avevo pagato trecento lire... sei tu che dovresti ripagarmi del danno." Insomma discutemmo un pezzo, ma lui non volle darmi niente. Anzi, alla fine, siccome io l'accusavo di truffarmi, tirò fuori i biglietti da mille, li stracciò in tanti pezzetti e andò a gettarli nel buco della fogna, sotto il marciapiede. Ma quello che mi bruciò di più fu che, prima di andarsene, mi disse: "Tu non sei fatto per un lavoro onesto, serio, di responsabilitа! lascia che te lo dica io, che ho vent'anni più di te... sei troppo leggero, troppo svagato... sei fatto per vendere le sigarette in borsa nera... ti saluto, maschio."

 

IL CAMIONISTA

 

Sono magro, nervoso, con le braccia sottili, le gambe lunghe e il ventre così piatto che i pantaloni mi cascano di dosso: insomma sono proprio il contrario di quello che ci vuole per essere un buon camionista. Guardate i camionisti: sono tutti pezzi d'uomini con le spalle larghe, le braccia da facchini, il dorso e il ventre forti. Perché il camionista si basa soprattutto sulle braccia, sulla schiena e sul ventre: le braccia per girare la ruota del volante che nei camion ha un diametro poco meno di un braccio, e certe volte, nelle svolte di montagna, deve farle fare il giro completo; la schiena per resistere alla fatica di star seduto ore e ore, sempre nella stessa posizione, senza indolenzirsi né irrigidirsi; finalmente il ventre per star bene fermo, calato nel seggiolino, incastrato come un masso. Questo per il fisico. Per il morale sono ancora meno adatto. Il camionista non deve aver nervi, né grilli per la testa, né nostalgie, né altri sentimenti delicati: la strada è esasperante e ammazzerebbe un bue. E quanto alle donne, il camionista poco deve pensarci, come il marinaio; altrimenti con quel continuo partire e ripartire, diventerebbe matto. Ma io sono pieno di pensieri e di preoccupazioni; sono di temperamento malinconico; e mi piacciono le donne.


Дата добавления: 2015-10-21; просмотров: 33 | Нарушение авторских прав







mybiblioteka.su - 2015-2024 год. (0.016 сек.)







<== предыдущая лекция | следующая лекция ==>