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Il pendolo di Foucault 41 страница

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"E allora noi abbiamo voluto fare quello che non ci era consentito e che non eravamo preparati a fare. Manipolando le parole del Libro abbiamo voluto costruire il Golem."

"Non capisco..."

"Non puoi più capire. Sei prigioniero della tua creatura. Ma la tua storia si svolge ancora nel mondo esterno. Non so come, ma puoi uscirne. Per me è diverso, io sto esperimentando nel mio corpo quello che noi abbiamo fatto per gioco nel Piano."

"Non dire sciocchezze, è una faccenda di cellule..."

"E che sono le cellule? Per mesi come rabbini devoti abbiamo pronunciato con le nostre labbra una diversa combinazione delle lettere del Libro. GCC, CGC, GCG, CGG. Quello che le nostre labbra dicevano, le nostre cellule imparavano. Che cosa hanno fatto le mie cellule? Hanno inventato un Piano diverso, e ora vanno per conto proprio. Le mie cellule stanno inventando una storia che non è quella di tutti. Le mie cellule hanno ormai imparato che si può bestemmiare anagrammando il Libro e tutti i libri del mondo. E così hanno imparato a fare col mio corpo. Invertono, traspongono, alternano, permutano, creano cellule mai viste e senza senso, o con sensi contrari al senso giusto. Ci dev'essere un senso giusto, e dei sensi sbagliati, altrimenti si muore. Ma loro giocano, senza fede, alla cieca. Jacopo, sino a che potevo ancora leggere, in questi mesi ho letto molti dizionari. Studiavo storie di parole per capire che cosa avvenisse nel mio corpo. Noi rabbini facciamo così. Hai mai riflettuto che il termine retorico metatesi è simile al termine oncologico metastasi? Che cos'è la metatesi? Invece di 'palude' dici 'padule'. E invece di 'amori' puoi dire 'aromi'. E la Temurah. Il vocabolario dice che metathesis vuoi dire spostamento, mutazione. E metastasis vuol dire mutamento e spostamento. Che stupidi i dizionari. La radice è la stessa, o è il verbo metatithemi o il verbo methistemi. Ma metatithemi vuole dire metto in mezzo, trasloco, trasferisco, metto invece di, abrogo una legge, cambio il senso. E methistemi? Ma è la stessa cosa, trasloco, permuto, traspongo, cambio l'opinione comune, esco di senno. Noi, e chiunque cerca un senso segreto oltre la lettera, noi siamo usciti di senno. E così hanno fatto le mie cellule, obbedienti. Per questo io muoio, Jacopo, e tu lo sai."

"Adesso dici così perché stai male..."

"Adesso dico così perché finalmente ho capito tutto del mio corpo. Lo studio giorno per giorno, so quello che vi avviene, salvo che non posso intervenire, le cellule non obbediscono più. Muoio perché ho convinto le mie cellule che la regola non c'è, e di ogni testo si può fare ciò che si vuole. Ho speso la vita a convincermene, io, col mio cervello. E il mio cervello deve avergli trasmesso il messaggio, a loro. Perché debbo pretendere che loro siano più prudenti del mio cervello? Muoio perché siamo stati fantasiosi oltre ogni limite."

"Ascolta, quel che ti succede non ha nulla a che fare col nostro Piano..."

"No? E perché ti accade quello che ti accade? Il mondo sta comportandosi come le mie cellule."

Si era abbandonato esausto. Era entrato il dottore e aveva sibilato sottovoce che non si poteva sottomettere a quello stress uno che stava morendo.

Belbo era uscito, ed era stata l'ultima volta che aveva visto Diotallevi.

Va bene, scriveva, io sono ricercato dalla polizia per le stesse ragioni per cui Diotallevi ha il cancro. Povero amico, lui muore, ma io, io che non ho il cancro, che faccio? Io vado a Parigi a cercare la regola della neoplasia.

Non si era arreso subito. Era rimasto chiuso in casa per quattro giorni, aveva rimesso in ordine i suoi files, frase dopo frase, per trovare una spiegazione. Poi aveva steso il suo racconto, come un testamento, raccontando a se stesso, ad Abulafia, a me o a chiunque avesse potuto leggere. E infine martedì era partito.

Credo che Belbo fosse andato a Parigi per dir loro che non c'erano se-greti, che il vero segreto era lasciar andar le cellule secondo la loro saggezza istintiva, che a cercar segreti sotto la superficie si riduceva il mondo a un cancro immondo. E che più immondo e più stupido di tutti era lui, che non sapeva nulla e si era inventato tutto – e doveva costargli molto, ma ormai aveva accettato da troppo tempo l'idea di essere un vile, e De Angelis gli aveva dimostrato che di eroi ce ne sono pochi.

A Parigi doveva aver avuto il primo contatto e si era accorto che Essi non credevano alle sue parole. Erano troppo semplici. Ormai si attendevano una rivelazione, pena la morte. Belbo non aveva rivelazioni da fare e, ultima tra le sue viltà, aveva temuto di morire. E allora aveva cercato di far perdere le sue tracce, e mi aveva chiamato. Ma lo avevano preso.
111

C'est une 1egon par la suite. Quand votre ennemi se reproduira, car il n'est pas à son dernier masque, congédiez-le brusquement, et surtout n'allez pas le chercher dans les grottes.

 

(Jacques Cazotte, Le diable amoureux, 1772, pagina soppressa nelle edizioni seguenti)

 

Adesso, mi chiedevo nell'appartamento di Belbo, terminando di leggere le sue confessioni, che debbo fare io? Da Garamond non ha senso andare, De Angelis è partito, Diotallevi ha detto tutto quello che aveva da dire. Lia sta lontano in un posto senza telefono. Sono le sei di mattina di sabato 23 giugno, e se qualcosa deve accadere accadrà questa notte, al Conservatoire.

Dovevo prendere una decisione rapida. Perché, mi chiedevo l'altra sera nel periscopio, non hai scelto di far finta di nulla? Avevi davanti a te í testi di un pazzo, che raccontava dei suoi colloqui con altri pazzi e dell'ultimo colloquio con un moribondo sovreccitato, o sovradepresso. Non eri neppure sicuro che Belbo ti avesse telefonato da Parigi, forse parlava a pochi chilometri da Milano, forse dalla cabina all'angolo. Perché dovevi impegnarti su una storia forse immaginaria, che non ti tocca?

Ma questo me lo chiedevo nel periscopio, mentre i piedi mi si intorpidivano, e la luce scemava, e provavo la paura innaturale e naturalissima che ogni essere umano deve provare di notte da solo, in un museo deserto: Quella mattina invece non avevo paura. Solo curiosità. E forse senso del dovere, o dell'amicizia.

E mi ero detto che dovevo andare anch'io a Parigi, non sapevo bene a far cosa, ma non potevo lasciare Belbo da solo. Forse lui si aspettava questo da me, solo questo, che penetrassi nottetempo nella caverna dei thugs e, mentre Suyodhana stava per immergergli il coltello sacrificale nel cuore, io irrompessi sotto le volte del tempio con i miei cipays dal fucile caricato a ferraglia, e lo traessi in salvo.

 

Per fortuna avevo un po' di soldi con me. A Parigi avevo preso un tassì e mi ero fatto condurre in rue de la Manticore. Il tassista aveva bestemmiato a lungo, perché non la si trovava neppure su quelle guide che hanno loro, e in effetti era una straducola larga come il corridoio di un treno, dalle parti della vecchia Bièvre, dietro a Saint Julien le Pauvre. Il tassì non poteva neppure entrarci, e mi aveva lasciato sull'angolo.

Mi ero inoltrato dubbioso per quel vicolo su cui non si apriva alcuna porta, ma a un certo punto la strada si allargava di poco, e c'era la libreria. Non so perché avesse il numero civico 3, visto che non c'era alcun numero uno, né due, né altro. Era una botteguccia con una sola luce, e metà della porta faceva da vetrina. Ai lati poche decine di libri, abbastanza per indicare il genere. In basso una serie di pendoli radioestesici, di confezioni polverose di bacchette d'incenso, di piccoli amuleti orientali o sudamericani. Molti mazzi di tarocchi, in stili e confezioni diverse.

L'interno non era più confortevole, un ammasso di libri alle pareti e per terra, con un tavolino in fondo, ed un libraio che sembrava messo apposta per consentire a uno scrittore di scrivere che era più vecchio dei suoi libri. Compulsava un grande registro scritto a mano, disinteressandosi ai clienti. D'altra parte c'erano in quel momento solo due visitatori, che sollevavano nuvole di polvere traendo vecchi volumi, quasi tutti privi di copertina, da scaffali pericolanti, e si mettevano a leggerli, senza aver l'aria di voler comprare.

L'unico spazio non ingombro di scaffali era preso da un manifesto. Colori squillanti, una serie di ritratti in tondo a doppio bordo, come nei manifesti del mago Houdini. "Le Petit Cirque de l'Incroyable. Madame 0lcott et ses liens avec l'Invísible." Una faccia olivastra e mascolina, due bande di capelli neri raccolti a crocchia sulla nuca, mi pareva di aver già visto quel volto. "Les Derviches Hurleurs et leur danse sacrée. Les Freaks Mignons, ou Les Petits-fils de Fortunio Liceti." Un'accolta di mostriciattoli pateticamente immondi. "Alex et Denys, les Géants d'Avalon. Theo, Leo et Geo Fox, Les Enlumineurs de 1'Ectoplasme..."

La libreria Sloane forniva davvero tutto, dalla culla alla tomba, anche il sano divertimento serale, da portarvi i bambini prima di pestarli nel mortaio. Avevo udito un telefono squillare, e avevo visto il libraio scostare una pila di fogli, sino a individuare la cornetta. "Oui monsieur," stava dicendo, "c'est bien ça." Aveva ascoltato per alcuni minuti in silenzio, prima annuendo, poi assumendo un'aria perplessa, ma – avrei detto – a uso degli astanti, come se tutti potessero ascoltare quello che lui udiva e non volesse assumersene la responsabilità. Poi aveva preso quell'aria scandalizzata del negoziante parigino quando gli chiedete qualcosa che non ha in negozio, o dei portieri d'albergo quando debbono dirvi che non ci sono camere libere. "Ah non, monsieur. Ah, ça... Non, non, monsieur, c'est pas notre boulot. Ici, vous savez, on vend des livres, on peut bien vous conseiller sur des catalogues, mais ça... Il s'agit de problèmes très personnels, et nous... Oh, alors, il-y-a – sais pas, moi – des curés, des... oui, si vous voulez, des exorcistes. D'accord, je le sais, on connais des confrères qui se prétent... Mais pas nous. Non, vraiment la description ne me suffit pas, et quand méme... Désolé monsieur. Comment? Oui... si vous voulez. C'est un endroit bien connu, mais ne demandez pas mon avis. C'est bien ça, vous savez, dans ces cas, la confiance c'est tout. A votre service, monsieur."

Gli altri due clienti erano usciti, mi sentivo a disagio. Mi ero deciso, avevo attirato l'attenzione del vecchio con un colpo di tosse, e gli avevo detto che cercavo un conoscente, un amico che di solito passava dà quelle parti, monsieur Agliè. Mi aveva guardato come se fossi l'uomo della telefonata. Forse, avevo detto, lui non lo conosceva come Agliè, ma come Rakosky, o Soltikoff, o... Mi aveva guardato ancora, stringendo gli occhi, senza alcuna espressione, e mi aveva fatto notare che avevo degli amici curiosi con molti nomi. Gli avevo detto che non importava, avevo chiesto tanto per chiedere. Aspetti, mi aveva detto, il mio socio sta arrivando e forse lui conosce la persona che lei cerca. Anzi, si accomodi, là in fondo c'è una sedia. Faccio una telefonata e controllo. Aveva sollevato la cornetta componendo un numero, e si era messo a parlare a bassa voce.

Casaubon, mi ero detto, sei più stupido di Belbo. Adesso che cosa aspetti? Che Essi arrivino e dicano oh che bella combinazione, anche l'amico di Jacopo Belbo, venga, venga anche lei...

Mi alzai di colpo, salutai e uscii. Percorsi in un minuto rue de la Manticore, girai per altre viuzze, mi ritrovai lungo la Senna. Imbecille, mi dicevo, che cosa pretendevi? Di arrivare là, trovare Agliè, prenderlo per la giacca, lui si scusava, era stato tutto un equivoco, ecco il suo amico, non gli abbiamo torto un capello. E adesso sanno che anche tu sei qui.

Era mezzogiorno passato, in serata sarebbe accaduto qualcosa al Conservatoire. Che dovevo fare? Avevo imboccato rue Saint Jacques e ogni tanto mi voltavo indietro. A un certo punto mi era parso che un arabo mi seguisse. Ma perché pensavo che fosse un arabo? La caratteristica degli arabi è che non sembrano arabi, almeno a Parigi, a Stoccolma sarebbe diverso.

Ero passato davanti a un albergo, ero entrato e avevo chiesto una camera. Mentre salivo con la chiave, per una scala di legno che dava su un primo piano con ringhiera, da cui si scorgeva il banco, avevo visto entrare il presunto arabo. Poi avevo notato nel corridoio altre persone che avrebbero potuto essere arabe. Naturale, da quelle parti c'erano solo alberghetti per arabi. Che cosa pretendevo?

Ero entrato in camera. Era decente, c'era persino un telefono, peccato che non sapessi proprio a chi telefonare.

E lì mi ero appisolato, inquieto, sino alle tre. Poi mi ero lavato la faccia e mi ero avviato verso il Conservatoire. Ormai non mi restava altro da fare, entrare nel museo, restarvi oltre la chiusura, e attendere la mezzanotte.

 

Così avevo fatto. E a poche ore dalla mezzanotte mi trovavo nel periscopio, ad attendere qualcosa.

 

Nezah è per alcuni interpreti la sefirah della Resistenza, della Sopportazione, della Pazienza costante. Ci attendeva infatti una Prova. Ma per altri interpreti è la Vittoria. La vittoria di chi? Forse in quella storia di sconfitti, di diabolici beffati da Belbo, di Belbo beffato dai diabolici, di Díotallevi beffato dalle sue cellule, per il momento io ero l'unico vittorioso. Ero in agguato nel periscopio, io sapevo degli altri e gli altri non sapevano di me. La prima parte del mio progetto era andata secondo i piani.

E la seconda? Sarebbe andata secondo i miei piani, o secondo il Piano, che ormai non mi apparteneva più?

 


 

HOD

 


Per le nostre Cerimonie e Riti, abbiamo due lunghe e belle Gallerie, nel Tempio dei Rosa-Croce. In una di queste poniamo modelli ed esempi di tutte le invenzioni più rare ed eccellenti, nell'altra le Statue dei principali Inventori.

 

(John Heydon, The English Physitians Guide: Or A Holy Guide, London, Ferris, 1662, The Preface)

 

Stavo nel periscopio da troppo tempo. Saranno state le dieci, o le dieci e mezzo. Se qualcosa doveva accadere, sarebbe accaduto nella navata, da-vanti al Pendolo. E dunque dovevo apprestarmi a scendere, per trovar un rifugio, e un punto d'osservazione. Se fossi arrivato troppo tardi, dopo che erano entrati (da dove?), Essi mi avrebbero scorto.

Scendere. Muovermi... Non desideravo far altro da alcune ore, ma ora che potevo, ora che era saggio farlo, mi sentivo come paralizzato. Avrei dovuto attraversare le sale di notte, usando la pila con moderazione. Poca luce notturna filtrava dai finestroni, se mi ero immaginato un museo reso spettrale dal chiarore della luna, mi ero ingannato. Le vetrine ricevevano dalle finestre imprecisi riflessi. Se non mi fossi mosso con cautela, avrei potuto rovinare a terra urtando qualcosa con fragore di cristalli, o di ferraglia. Accendevo la pila ogni tanto. Mi sentivo come al Crazy Horse, a tratti una luce improvvisa mi rivelava una nudità, ma non di carne, bensì di viti, di morse, di bulloni.

E se di colpo avessi illuminato una presenza viva, la figura di qualcuno, un inviato dei Signori, che stava ripetendo specularmente il mio percorso? Chi avrebbe gridato per primo? Tendevo l'orecchio. A che pro? Io non facevo rumore, strisciavo. Dunque anche lui.

Nel pomeriggio mi ero studiato attentamente la sequenza delle sale, ero convinto che anche al buio avrei potuto trovare lo scalone. Invece stavo vagando quasi a tentoni, e avevo perso l'orientamento.

Forse in qualche sala stavo passando per la seconda volta, forse non sarei mai più uscito di lì, forse quello, quell'errare tra macchine senza senso, quello era il rito.

In verità non volevo discendere, in verità volevo ritardare l'appuntamento.

Ero uscito dal periscopio dopo un lungo, spietato esame di coscienza, nel corso di molte ore avevo rivisto il nostro errore degli ultimi anni e avevo cercato di rendermi conto del perché, senza alcuna ragione ragionevole, io adesso fossi li alla ricerca di Belbo, caduto in quel luogo per ragioni ancor meno ragionevoli. Ma non appena avevo posto piede fuori, tutto era cambiato. Mentre avanzavo io stavo pensando con la testa di un altro. Ero diventato Belbo. E come Belbo ormai al termine del suo lungo viaggio verso l'illuminazione, sapevo che ogni oggetto terreno, anche il più squallido, va letto come il geroglifico di qualcosa d'altro, e non vi è Altro altrettanto reale del Piano. Oh, ero astuto, mi bastava un lampo, uno sguardo in uno sprazzo di luce, per capire. Non mi lasciavo ingannare.

 

... Motore di Froment: una struttura verticale a base romboidale, che rinserrava, come una cera anatomica che esibisse le proprie costole artificiali, una serie di bobine, che so, pile, ruttori, come diavolo li chiamano i libri scolastici, azionati da una cinghia di trasmissione che si innervava a un pignone attraverso una ruota dentata... A che cosa poteva esser servito? Risposta, per misurare le correnti telluriche, ovvio.

Accumulatori. Che cosa accumulano? Non c'era altro che immaginare í Trentasei Invisibili come tanti ostinati segretari (i custodi del segreto) che battessero di notte sul loro cembalo scrivano per farne venir fuori un suono, una scintilla, un richiamo, tesi in un dialogo tra costa e costa, tra abisso e superficie, dal Machu Picchu ad Avalon, zip zip zip, pronto pronto pronto, Pamersiel Pamersiel, ho captato il fremito, la corrente Mu 36, quella che i brahmani adoravano come pallido respiro di Dio, ora inserisco lo spinotto, circuito micro-macrocosmico in azione, fremono sotto la crosta del globo tutte le radici di mandragora, odi il canto della Simpatia Universale, passo e chiudo.

Dio mio, gli eserciti si insanguinavano per le pianure d'Europa, i papi lanciavano anatemi, gli imperatori si incontravano emofilitici e incestuosi nel casino di caccia degli Orti Palatini, per fornire una copertura, una facciata sontuosa al lavoro di costoro, che nella Casa di Salomone auscultavano i pallidi richiami dell'Umbilicus Mundi.

Essi erano qui, ad azionare questi elettrocapillatori pseudotermici esatetragrammatíci — così avrebbe detto Garamond, no? — e ogni tanto, che so, qualcuno avrebbe inventato un vaccino, o una lampadina, per giustificare la meravigliosa avventura dei metalli, ma il compito era ben altro, eccoli tutti qui adunati a mezzanotte a far girare questa macchina statica di Ducretet, una ruota trasparente che sembra una bandoliera, e dietro due palline vibratili sostenute da due bacchette ad arco, forse allora si toccavano, ne scaturivano scintille, Frankenstein sperava che così avrebbe potuto dar vita al suo golem e invece no, il segnale da attendere era un altro: congettura, lavora, scava scava vecchia talpa....

... Una macchina da cucire (che altro era, di quelle pubblicizzate con l'incisione, insieme alla pillola per sviluppare il seno, e alla grande aquila che vola tra le montagne recando negli artigli l'amaro rigeneratore, Robur le Conquerant, R—C), ma se la si aziona fa girare una ruota, la ruota un anello, l'anello... che cosa fa, chi ascolta l'anello? Il cartellino diceva "le correnti indotte dal campo terrestre". Con impudicizia, lo possono leggere anche i bambini durante le loro visite pomeridiane, tanto l'umanità credeva di andare in un'altra direzione, si poteva tentare tutto, l'e-sperimento supremo, dicendo che serviva per la meccanica. I Signori del Mondo ci hanno ingannato per secoli. Eravamo avvolti, fasciati, sedotti dal Complotto, e scrivevamo poemi in lode della locomotiva.

Andavo e venivo. Avrei potuto immaginarmi più piccolo, microscopico, ed ecco che sarei stato viaggiatore attonito per le vie di una città meccanica, turrita di grattacieli metallici. Cilindri, batterie, bottiglie di Leida una sull'altra, piccola giostra alta venti centimetri, tourniquet électrique à attraction et repulsion. Talismano per stimolare le correnti di simpatia. Colonnade étincelante formée de neuf tubes, électroaímant, una ghigliottina, al centro — e sembrava un torchio da stampa — pendevano dei ganci sostenuti da catene da stalla. Un torchio in cui si può infilare una mano, una testa da schiacciare. Campana di vetro mossa da una pompa pneumatica a due cilindri, una specie di alambicco e poi sotto c'è una coppa e a destra una sfera di rame. San Germano vi concuoceva le sue tinture per il landgravio di Hesse.

Un portapipe con tante piccole clessidre dalla strozzatura allungata come una donna di Modigliani, con un materiale impreciso dentro, su due file di dieci ciascuna, in ciascuna il rigonfiamento superiore si espandeva a un'altezza diversa, come piccole mongolfiere che stessero per prendere il volo, trattenute a terra da un peso a palla. Apparato per la produzione del Rebis, sotto gli occhi di tutti.

Sezione della verrerie. Ero tornato sui miei passi. Bottigliette verdi, un ospite sadico stava offrendomi veleni in quintessenza. Macchine di ferro per fare le bottiglie, si aprivano e si chiudevano con due manopole, e se qualcuno invece che la bottiglia ci metteva dentro il polso? Zac, come doveva accadere con quei tenaglioni, quelle forbiciattole, quei bisturi a becco ricurvo che potevano essere infilati nello sfintere, nelle orecchie, nell'utero, per trarne il feto ancora fresco da pestare col miele e col pepe per soddisfare la sete di Astarte... La sala che attraversavo ora aveva vetrine ampie, intravedevo dei bottoni per mettere in moto punte elicoidali che sarebbero avanzate inesorabili verso l'occhio della vittima, il Pozzo e il Pendolo, eravamo quasi alla caricatura, alle macchine inutili di Goldberg, ai torchi di tortura dove Gambadilegno legava Topolino, l'engrenage extérieur à trois pignons, trionfo della meccanica rinascimentale, Branca, Ramelli, Zonca, conoscevo questi ingranaggi, li avevo impaginati per la meravigliosa avventura dei metalli, ma qui erano stati posti dopo, nel secolo scorso, erano già pronti per contenere i riottosi dopo la conquista del mondo, i Templari avevano appreso dagli Assassini come far tacere Noffo Dei, il giorno che lo avessero catturato, la svastica di von Sebottendorff avrebbe torto in direzione del sole le membra spasimanti dei nemici dei Signori del Mondo, tutto pronto, aspettavano un cenno, tutto sotto gli occhi di tutti, íl Piano era pubblico, ma nessuno avrebbe potuto indovinarlo, fauci scricchiolanti avrebbero cantato il loro inno di conquista, grande orgia di bocche ridotte a puro dente che si inchiavardano l'una contro l'altra, in uno spasimo fatto di tic tac come se tutti i denti fossero caduti per terra nello stesso momento.

E infine ero capitato di fronte all'émetteur à étincelles soufflées progettato per la Tour Eiffel, per l'emissione di segnali orari tra Francia Tunisia e Russia (Templari di Provins, Pauliciani e Assassini di Fez — Fez non è in Tunisia e gli Assassini erano in Persia, e che vuoi dire, non si può sottilizzare quando si vive nelle spire del Tempo Sottile), io avevo già visto quella macchina immensa, più alta di me, con le pareti traforate da una serie di boccaporti, di prese d'aria, chi voleva convincermi che fosse un apparecchio radio? Ma sì, lo conoscevo, vi ero passato accanto ancora nel pomeriggio. Il Beaubourg!

Sotto i nostri occhi. E infatti a che cosa sarebbe dovuto servire quell'immenso scatolone al centro di Lutezia (Lutezia, il boccaporto del mare di fango sotterraneo), là dove un tempo era il Ventre di Parigi, con quelle proboscidi prensili di correnti aeree, quella insania di tubi, di condotti, quell'orecchio di Dioniso spalancato sul vuoto esterno per immettere suoni, messaggi, segnali, sino al centro del globo e restituirli vomitando informazioni dall'inferno? Prima il Conservatoire, come laboratorio, poi la Tour come sonda, infine il Beaubourg, come macchina ricetrasmittente globale. Forse che avevano messo in piedi quell'immensa ventosa per intrattenere quattro studenti capelluti e puzzolenti che andavano ad ascoltare l'ultimo disco con un auricolare giapponese? Sotto i nostri occhi. Il Beaubourg come porta sul regno sotterraneo di Agarttha, il monumento degli Equites Synarchici Resurgentes. E gli altri, due, tre, quattro miliardi di Altri, lo ignoravano, osi sforzavano di ignorarlo. Stupidi ed Ilici. E gli Pneumatici, dritti al loro scopo, per sei secoli.

 

A un tratto avevo trovato lo scalone. Ero disceso, sempre più accorto. La mezzanotte era vicina. Dovevo nascondermi nel mio osservatorio prima che Essi arrivassero.

Credo fossero le undici, forse meno. Avevo attraversato la sala di Lavoisier, senza accendere la pila, memore delle allucinazioni del pomeriggio, avevo percorso il corridoio dei modelli ferroviari.

Nella navata c'era già qualcuno. Vedevo delle luci, mobili e fioche. Udivo scalpiccii, rumori di oggetti spostati o trascinati.

Spensi la pila. Avrei fatto ancora in tempo ad arrivare alla garitta? Strisciavo lungo le vetrine dei treni, e fui presto vicino alla statua di Gramme, nel transetto. Su di un basamento di legno, di forma cubica (la pietra cubica di Esod!), si ergeva come a guardare l'ingresso del coro. Ricordavo che più o meno la mia statua della Libertà era immediatamente alle sue spalle.

La faccia anteriore del basamento si era ribaltata in avanti, formando come una passerella che permetteva l'uscita da un condotto. E di lì uscì infatti un individuo con una lanterna – forse a gas, dai vetri colorati, che gli illuminava il volto di vampe rossastre. Mi schiacciai in un angolo e non mi vide. Qualcuno dal coro lo raggiunse. "Vite," gli disse, "presto, tra un'ora arrivano."

Quella era dunque l'avanguardia, che stava predisponendo qualcosa per il rito. Se non erano molti, potevo ancora eluderli e raggiungere la Libertà. Prima che Essi arrivassero, chissà da dove, e in quanti, lungo la stessa via. Stetti acquattato a lungo, seguendo i riflessi delle lanterne nella chiesa, l'alternarsi periodico delle luci, i momenti di maggiore e minore intensità. Calcolavo di quanto si allontanassero dalla Libertà e quanto essa potesse rimanere in ombra. A un certo momento giocai d'azzardo, scivolai sul lato sinistro di Gramme – schiacciandomi a fatica contro il muro e contraendo i muscoli addominali. Fortuna che ero magro come un chiodo. Lia... Mi buttai, scivolando nella garitta.

Per rendermi meno percepibile, mi lasciai cadere a terra, obbligato a rattrappirmi in posizione quasi fetale. Accelerai i battiti del cuore, e dei denti.

Dovevo distendermi. Respirai ritmicamente col naso, aumentando via via l'intensità delle aspirazioni. Credo che sia così che, sotto tortura, si può decidere di perdere i sensi per sottrarsi al dolore. Infatti mi sentii sprofondare lentamente nell'abbraccio del Mondo Sotterraneo.
113

La nostra causa è un segreto dentro un segreto, il segreto di qualcosa che rimane velato, un segreto che solo un altro se-greto può spiegare, è un segreto su un segreto che si appaga di un segreto.

 

(Jafar al-Said, sesto Imam)

 

Emersi lentamente alla coscienza. Udivo suoni, ero disturbato da una luce ora più forte. Mi sentivo i piedi intorpiditi. Cercai di alzarmi lentamente senza far rumore e mi pareva di reggermi su di una distesa di ricci di mare. La Sirenetta. Feci alcuni movimenti silenziosi, flettendomi sulle punte, e la sofferenza diminuì. Solo allora, sporgendo cautamente il capo, a destra e a sinistra, e rendendomi conto che la garitta era rimasta abbastanza in ombra, riuscii a dominare la situazione.

La navata era illuminata ovunque. Erano le lanterne, ma ora erano decine e decine, portate dai convenuti che stavano giungendo alle mie spalle. Uscendo certamente dal condotto, sfilavano alla mia sinistra entrando nel coro e si disponevano nella navata. Mio Dio, mi dissi, la Notte sul Monte Calvo versione Walt Disney.

Non vociavano, sussurravano, ma tutti insieme producevano un brusio accentuato, come le comparse dell'opera: rabarbaro rabarbaro.

Alla mia sinistra le lanterne erano poste per terra a semicerchio, completando con una circonferenza schiacciata la curva orientale del coro, toccando al punto estremo di quello pseudo semicerchio, verso sud, la statua di Pascal. Laggiù era stato posto un braciere ardente, su cui qualcuno gettava delle erbe, delle essenze. Il fumo mi raggiungeva nella garitta, seccandomi la gola, e procurandomi un senso di sovreccitato stordimento.


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 32 | Нарушение авторских прав



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