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La divina commedia 26 страница

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china già l’ombra quasi al letto piano,

 

quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo,

comincia a farsi tal, ch’alcuna stella

perde il parere infino a questo fondo;

 

e come vien la chiarissima ancella

del sol più oltre, così ’l ciel si chiude

di vista in vista infino a la più bella.

 

Non altrimenti il trïunfo che lude

sempre dintorno al punto che mi vinse,

parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude,

 

a poco a poco al mio veder si stinse:

per che tornar con li occhi a Bëatrice

nulla vedere e amor mi costrinse.

 

Se quanto infino a qui di lei si dice

fosse conchiuso tutto in una loda,

poca sarebbe a fornir questa vice.

 

La bellezza ch’io vidi si trasmoda

non pur di là da noi, ma certo io credo

che solo il suo fattor tutta la goda.

 

Da questo passo vinto mi concedo

più che già mai da punto di suo tema

soprato fosse comico o tragedo:

 

ché, come sole in viso che più trema,

così lo rimembrar del dolce riso

la mente mia da me medesmo scema.

 

Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso

in questa vita, infino a questa vista,

non m’è il seguire al mio cantar preciso;

 

ma or convien che mio seguir desista

più dietro a sua bellezza, poetando,

come a l’ultimo suo ciascuno artista.

 

Cotal qual io lascio a maggior bando

che quel de la mia tuba, che deduce

l’ardüa sua matera terminando,

 

con atto e voce di spedito duce

ricominciò: «Noi siamo usciti fore

del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:

 

luce intellettüal, piena d’amore;

amor di vero ben, pien di letizia;

letizia che trascende ogne dolzore.

 

Qui vederai l’una e l’altra milizia

di paradiso, e l’una in quelli aspetti

che tu vedrai a l’ultima giustizia».

 

Come sùbito lampo che discetti

li spiriti visivi, sì che priva

da l’atto l’occhio di più forti obietti,

 

così mi circunfulse luce viva,

e lasciommi fasciato di tal velo

del suo fulgor, che nulla m’appariva.

 

«Sempre l’amor che queta questo cielo

accoglie in sé con sì fatta salute,

per far disposto a sua fiamma il candelo».

 

Non fur più tosto dentro a me venute

queste parole brievi, ch’io compresi

me sormontar di sopr’ a mia virtute;

 

e di novella vista mi raccesi

tale, che nulla luce è tanto mera,

che li occhi miei non si fosser difesi;

 

e vidi lume in forma di rivera

fulvido di fulgore, intra due rive

dipinte di mirabil primavera.

 

Di tal fiumana uscian faville vive,

e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,

quasi rubin che oro circunscrive;

 

poi, come inebrïate da li odori,

riprofondavan sé nel miro gurge,

e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.

 

«L’alto disio che mo t’infiamma e urge,

d’aver notizia di ciò che tu vei,

tanto mi piace più quanto più turge;

 

ma di quest’ acqua convien che tu bei

prima che tanta sete in te si sazi»:

così mi disse il sol de li occhi miei.

 

Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi

ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe

son di lor vero umbriferi prefazi.

 

Non che da sé sian queste cose acerbe;

ma è difetto da la parte tua,

che non hai viste ancor tanto superbe».

 

Non è fantin che sì sùbito rua

col volto verso il latte, se si svegli

molto tardato da l’usanza sua,

 

come fec’ io, per far migliori spegli

ancor de li occhi, chinandomi a l’onda

che si deriva perché vi s’immegli;

 

e sì come di lei bevve la gronda

de le palpebre mie, così mi parve

di sua lunghezza divenuta tonda.

 

Poi, come gente stata sotto larve,

che pare altro che prima, se si sveste

la sembianza non süa in che disparve,

 

così mi si cambiaro in maggior feste

li fiori e le faville, sì ch’io vidi

ambo le corti del ciel manifeste.

 

O isplendor di Dio, per cu’ io vidi

l’alto trïunfo del regno verace,

dammi virtù a dir com’ ïo il vidi!

 

Lume è là sù che visibile face

lo creatore a quella creatura

che solo in lui vedere ha la sua pace.

 

E’ si distende in circular figura,

in tanto che la sua circunferenza

sarebbe al sol troppo larga cintura.

 

Fassi di raggio tutta sua parvenza

reflesso al sommo del mobile primo,

che prende quindi vivere e potenza.

 

E come clivo in acqua di suo imo

si specchia, quasi per vedersi addorno,

quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,

 

sì, soprastando al lume intorno intorno,

vidi specchiarsi in più di mille soglie

quanto di noi là sù fatto ha ritorno.

 

E se l’infimo grado in sé raccoglie

sì grande lume, quanta è la larghezza

di questa rosa ne l’estreme foglie!

 

La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza

non si smarriva, ma tutto prendeva

il quanto e ’l quale di quella allegrezza.

 

Presso e lontano, lì, né pon né leva:

ché dove Dio sanza mezzo governa,

la legge natural nulla rileva.

 

Nel giallo de la rosa sempiterna,

che si digrada e dilata e redole

odor di lode al sol che sempre verna,

 

qual è colui che tace e dicer vole,

mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira

quanto è ’l convento de le bianche stole!

 

Vedi nostra città quant’ ella gira;

vedi li nostri scanni sì ripieni,

che poca gente più ci si disira.

 

E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni

per la corona che già v’è sù posta,

prima che tu a queste nozze ceni,

 

sederà l’alma, che fia giù agosta,

de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia

verrà in prima ch’ella sia disposta.

 

La cieca cupidigia che v’ammalia

simili fatti v’ha al fantolino

che muor per fame e caccia via la balia.

 

E fia prefetto nel foro divino

allora tal, che palese e coverto

non anderà con lui per un cammino.

 

Ma poco poi sarà da Dio sofferto

nel santo officio; ch’el sarà detruso

là dove Simon mago è per suo merto,

 

e farà quel d’Alagna intrar più giuso».

 

 

Paradiso · Canto XXXI

 

In forma dunque di candida rosa

mi si mostrava la milizia santa

che nel suo sangue Cristo fece sposa;

 

ma l’altra, che volando vede e canta

la gloria di colui che la ’nnamora

e la bontà che la fece cotanta,

 

sì come schiera d’ape che s’infiora

una fïata e una si ritorna

là dove suo laboro s’insapora,

 

nel gran fior discendeva che s’addorna

di tante foglie, e quindi risaliva

là dove ’l süo amor sempre soggiorna.

 

Le facce tutte avean di fiamma viva

e l’ali d’oro, e l’altro tanto bianco,

che nulla neve a quel termine arriva.

 

Quando scendean nel fior, di banco in banco

porgevan de la pace e de l’ardore

ch’elli acquistavan ventilando il fianco.

 

Né l’interporsi tra ’l disopra e ’l fiore

di tanta moltitudine volante

impediva la vista e lo splendore:

 

ché la luce divina è penetrante

per l’universo secondo ch’è degno,

sì che nulla le puote essere ostante.

 

Questo sicuro e gaudïoso regno,

frequente in gente antica e in novella,

viso e amore avea tutto ad un segno.

 

O trina luce che ’n unica stella

scintillando a lor vista, sì li appaga!

guarda qua giuso a la nostra procella!

 

Se i barbari, venendo da tal plaga

che ciascun giorno d’Elice si cuopra,

rotante col suo figlio ond’ ella è vaga,

 

veggendo Roma e l’ardüa sua opra,

stupefaciensi, quando Laterano

a le cose mortali andò di sopra;

 

ïo, che al divino da l’umano,

a l’etterno dal tempo era venuto,

e di Fiorenza in popol giusto e sano,

 

di che stupor dovea esser compiuto!

Certo tra esso e ’l gaudio mi facea

libito non udire e starmi muto.

 

E quasi peregrin che si ricrea

nel tempio del suo voto riguardando,

e spera già ridir com’ ello stea,

 

su per la viva luce passeggiando,

menava ïo li occhi per li gradi,

mo sù, mo giù e mo recirculando.

 

Vedëa visi a carità süadi,

d’altrui lume fregiati e di suo riso,

e atti ornati di tutte onestadi.

 

La forma general di paradiso

già tutta mïo sguardo avea compresa,

in nulla parte ancor fermato fiso;

 

e volgeami con voglia rïaccesa

per domandar la mia donna di cose

di che la mente mia era sospesa.

 

Uno intendëa, e altro mi rispuose:

credea veder Beatrice e vidi un sene

vestito con le genti glorïose.

 

Diffuso era per li occhi e per le gene

di benigna letizia, in atto pio

quale a tenero padre si convene.

 

E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io.

Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro

mosse Beatrice me del loco mio;

 

e se riguardi sù nel terzo giro

dal sommo grado, tu la rivedrai

nel trono che suoi merti le sortiro».

 

Sanza risponder, li occhi sù levai,

e vidi lei che si facea corona

reflettendo da sé li etterni rai.

 

Da quella regïon che più sù tona

occhio mortale alcun tanto non dista,

qualunque in mare più giù s’abbandona,

 

quanto lì da Beatrice la mia vista;

ma nulla mi facea, ché süa effige

non discendëa a me per mezzo mista.

 

«O donna in cui la mia speranza vige,

e che soffristi per la mia salute

in inferno lasciar le tue vestige,

 

di tante cose quant’ i’ ho vedute,

dal tuo podere e da la tua bontate

riconosco la grazia e la virtute.

 

Tu m’hai di servo tratto a libertate

per tutte quelle vie, per tutt’ i modi

che di ciò fare avei la potestate.

 

La tua magnificenza in me custodi,

sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana,

piacente a te dal corpo si disnodi».

 

Così orai; e quella, sì lontana

come parea, sorrise e riguardommi;

poi si tornò a l’etterna fontana.

 

E ’l santo sene: «Acciò che tu assommi

perfettamente», disse, «il tuo cammino,

a che priego e amor santo mandommi,

 

vola con li occhi per questo giardino;

ché veder lui t’acconcerà lo sguardo

più al montar per lo raggio divino.

 

E la regina del cielo, ond’ ïo ardo

tutto d’amor, ne farà ogne grazia,

però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo».

 

Qual è colui che forse di Croazia

viene a veder la Veronica nostra,

che per l’antica fame non sen sazia,

 

ma dice nel pensier, fin che si mostra:

‘Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,

or fu sì fatta la sembianza vostra?’;

 

tal era io mirando la vivace

carità di colui che ’n questo mondo,

contemplando, gustò di quella pace.

 

«Figliuol di grazia, quest’ esser giocondo»,

cominciò elli, «non ti sarà noto,

tenendo li occhi pur qua giù al fondo;

 

ma guarda i cerchi infino al più remoto,

tanto che veggi seder la regina

cui questo regno è suddito e devoto».

 

Io levai li occhi; e come da mattina

la parte orïental de l’orizzonte

soverchia quella dove ’l sol declina,

 

così, quasi di valle andando a monte

con li occhi, vidi parte ne lo stremo

vincer di lume tutta l’altra fronte.

 

E come quivi ove s’aspetta il temo

che mal guidò Fetonte, più s’infiamma,

e quinci e quindi il lume si fa scemo,

 

così quella pacifica oriafiamma

nel mezzo s’avvivava, e d’ogne parte

per igual modo allentava la fiamma;

 

e a quel mezzo, con le penne sparte,

vid’ io più di mille angeli festanti,

ciascun distinto di fulgore e d’arte.

 

Vidi a lor giochi quivi e a lor canti

ridere una bellezza, che letizia

era ne li occhi a tutti li altri santi;

 

e s’io avessi in dir tanta divizia

quanta ad imaginar, non ardirei

lo minimo tentar di sua delizia.

 

Bernardo, come vide li occhi miei

nel caldo suo caler fissi e attenti,

li suoi con tanto affetto volse a lei,

 

che ’ miei di rimirar fé più ardenti.

 

 

Paradiso · Canto XXXII

 

Affetto al suo piacer, quel contemplante

libero officio di dottore assunse,

e cominciò queste parole sante:

 

«La piaga che Maria richiuse e unse,

quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi

è colei che l’aperse e che la punse.

 

Ne l’ordine che fanno i terzi sedi,

siede Rachel di sotto da costei

con Bëatrice, sì come tu vedi.

 

Sarra e Rebecca, Iudìt e colei

che fu bisava al cantor che per doglia

del fallo disse ‘Miserere mei’,

 

puoi tu veder così di soglia in soglia

giù digradar, com’ io ch’a proprio nome

vo per la rosa giù di foglia in foglia.

 

E dal settimo grado in giù, sì come

infino ad esso, succedono Ebree,

dirimendo del fior tutte le chiome;

 

perché, secondo lo sguardo che fée

la fede in Cristo, queste sono il muro

a che si parton le sacre scalee.

 

Da questa parte onde ’l fiore è maturo

di tutte le sue foglie, sono assisi

quei che credettero in Cristo venturo;

 

da l’altra parte onde sono intercisi

di vòti i semicirculi, si stanno

quei ch’a Cristo venuto ebber li visi.

 

E come quinci il glorïoso scanno

de la donna del cielo e li altri scanni

di sotto lui cotanta cerna fanno,

 

così di contra quel del gran Giovanni,

che sempre santo ’l diserto e ’l martiro

sofferse, e poi l’inferno da due anni;

 

e sotto lui così cerner sortiro

Francesco, Benedetto e Augustino

e altri fin qua giù di giro in giro.

 

Or mira l’alto proveder divino:

ché l’uno e l’altro aspetto de la fede

igualmente empierà questo giardino.

 

E sappi che dal grado in giù che fiede

a mezzo il tratto le due discrezioni,

per nullo proprio merito si siede,

 

ma per l’altrui, con certe condizioni:

ché tutti questi son spiriti ascolti

prima ch’avesser vere elezïoni.

 

Ben te ne puoi accorger per li volti

e anche per le voci püerili,

se tu li guardi bene e se li ascolti.

 

Or dubbi tu e dubitando sili;

ma io discioglierò ’l forte legame

in che ti stringon li pensier sottili.

 

Dentro a l’ampiezza di questo reame

casüal punto non puote aver sito,

se non come tristizia o sete o fame:

 

ché per etterna legge è stabilito

quantunque vedi, sì che giustamente

ci si risponde da l’anello al dito;

 

e però questa festinata gente

a vera vita non è sine causa

intra sé qui più e meno eccellente.

 

Lo rege per cui questo regno pausa

in tanto amore e in tanto diletto,

che nulla volontà è di più ausa,

 

le menti tutte nel suo lieto aspetto

creando, a suo piacer di grazia dota

diversamente; e qui basti l’effetto.

 

E ciò espresso e chiaro vi si nota

ne la Scrittura santa in quei gemelli

che ne la madre ebber l’ira commota.

 

Però, secondo il color d’i capelli,

di cotal grazia l’altissimo lume

degnamente convien che s’incappelli.

 

Dunque, sanza mercé di lor costume,

locati son per gradi differenti,

sol differendo nel primiero acume.

 

Bastavasi ne’ secoli recenti

con l’innocenza, per aver salute,

solamente la fede d’i parenti;

 

poi che le prime etadi fuor compiute,

convenne ai maschi a l’innocenti penne

per circuncidere acquistar virtute;

 

ma poi che ’l tempo de la grazia venne,

sanza battesmo perfetto di Cristo

tale innocenza là giù si ritenne.

 

Riguarda omai ne la faccia che a Cristo

più si somiglia, ché la sua chiarezza

sola ti può disporre a veder Cristo».

 

Io vidi sopra lei tanta allegrezza

piover, portata ne le menti sante

create a trasvolar per quella altezza,

 

che quantunque io avea visto davante,

di tanta ammirazion non mi sospese,

né mi mostrò di Dio tanto sembiante;

 

e quello amor che primo lì discese,

cantando ‘Ave, Maria, gratïa plena’,

dinanzi a lei le sue ali distese.

 

Rispuose a la divina cantilena

da tutte parti la beata corte,

sì ch’ogne vista sen fé più serena.

 

«O santo padre, che per me comporte

l’esser qua giù, lasciando il dolce loco

nel qual tu siedi per etterna sorte,

 

qual è quell’ angel che con tanto gioco

guarda ne li occhi la nostra regina,

innamorato sì che par di foco?».

 

Così ricorsi ancora a la dottrina

di colui ch’abbelliva di Maria,

come del sole stella mattutina.

 

Ed elli a me: «Baldezza e leggiadria

quant’ esser puote in angelo e in alma,

tutta è in lui; e sì volem che sia,

 

perch’ elli è quelli che portò la palma

giuso a Maria, quando ’l Figliuol di Dio

carcar si volse de la nostra salma.

 

Ma vieni omai con li occhi sì com’ io

andrò parlando, e nota i gran patrici

di questo imperio giustissimo e pio.

 

Quei due che seggon là sù più felici

per esser propinquissimi ad Agusta,

son d’esta rosa quasi due radici:

 

colui che da sinistra le s’aggiusta

è il padre per lo cui ardito gusto

l’umana specie tanto amaro gusta;

 

dal destro vedi quel padre vetusto

di Santa Chiesa a cui Cristo le chiavi

raccomandò di questo fior venusto.

 

E quei che vide tutti i tempi gravi,

pria che morisse, de la bella sposa

che s’acquistò con la lancia e coi clavi,

 

siede lungh’ esso, e lungo l’altro posa

quel duca sotto cui visse di manna

la gente ingrata, mobile e retrosa.

 

Di contr’ a Pietro vedi sedere Anna,

tanto contenta di mirar sua figlia,

che non move occhio per cantare osanna;

 

e contro al maggior padre di famiglia

siede Lucia, che mosse la tua donna

quando chinavi, a rovinar, le ciglia.

 

Ma perché ’l tempo fugge che t’assonna,

qui farem punto, come buon sartore

che com’ elli ha del panno fa la gonna;

 

e drizzeremo li occhi al primo amore,

sì che, guardando verso lui, penètri

quant’ è possibil per lo suo fulgore.

 

Veramente, ne forse tu t’arretri

movendo l’ali tue, credendo oltrarti,

orando grazia conven che s’impetri

 

grazia da quella che puote aiutarti;

e tu mi seguirai con l’affezione,

sì che dal dicer mio lo cor non parti».

 

E cominciò questa santa orazione:

 

 

Paradiso · Canto XXXIII

 

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

termine fisso d’etterno consiglio,

 

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti sì, che ’l suo fattore

non disdegnò di farsi sua fattura.

 

Nel ventre tuo si raccese l’amore,

per lo cui caldo ne l’etterna pace

così è germinato questo fiore.

 

Qui se’ a noi meridïana face

di caritate, e giuso, intra ’ mortali,

se’ di speranza fontana vivace.

 

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre,

sua disïanza vuol volar sanz’ ali.

 

La tua benignità non pur soccorre

a chi domanda, ma molte fïate

liberamente al dimandar precorre.

 

In te misericordia, in te pietate,

in te magnificenza, in te s’aduna

quantunque in creatura è di bontate.

 

Or questi, che da l’infima lacuna

de l’universo infin qui ha vedute

le vite spiritali ad una ad una,

 

supplica a te, per grazia, di virtute

tanto, che possa con li occhi levarsi

più alto verso l’ultima salute.

 

E io, che mai per mio veder non arsi

più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi

ti porgo, e priego che non sieno scarsi,

 

perché tu ogne nube li disleghi

di sua mortalità co’ prieghi tuoi,

sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.

 

Ancor ti priego, regina, che puoi

ciò che tu vuoli, che conservi sani,

dopo tanto veder, li affetti suoi.

 

Vinca tua guardia i movimenti umani:

vedi Beatrice con quanti beati

per li miei prieghi ti chiudon le mani!».

 

Li occhi da Dio diletti e venerati,

fissi ne l’orator, ne dimostraro

quanto i devoti prieghi le son grati;

 

indi a l’etterno lume s’addrizzaro,

nel qual non si dee creder che s’invii

per creatura l’occhio tanto chiaro.

 

E io ch’al fine di tutt’ i disii

appropinquava, sì com’ io dovea,

l’ardor del desiderio in me finii.

 

Bernardo m’accennava, e sorridea,

perch’ io guardassi suso; ma io era

già per me stesso tal qual ei volea:

 

ché la mia vista, venendo sincera,

e più e più intrava per lo raggio

de l’alta luce che da sé è vera.

 

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio

che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,

e cede la memoria a tanto oltraggio.

 

Qual è colüi che sognando vede,

che dopo ’l sogno la passione impressa

rimane, e l’altro a la mente non riede,

 

cotal son io, ché quasi tutta cessa

mia visïone, e ancor mi distilla

nel core il dolce che nacque da essa.

 

Così la neve al sol si disigilla;

così al vento ne le foglie levi

si perdea la sentenza di Sibilla.

 

O somma luce che tanto ti levi

da’ concetti mortali, a la mia mente

ripresta un poco di quel che parevi,

 

e fa la lingua mia tanto possente,

ch’una favilla sol de la tua gloria

possa lasciare a la futura gente;

 

ché, per tornare alquanto a mia memoria

e per sonare un poco in questi versi,

più si conceperà di tua vittoria.

 

Io credo, per l’acume ch’io soffersi

del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,

se li occhi miei da lui fossero aversi.

 

E’ mi ricorda ch’io fui più ardito

per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi

l’aspetto mio col valore infinito.

 

Oh abbondante grazia ond’ io presunsi

ficcar lo viso per la luce etterna,

tanto che la veduta vi consunsi!

 

Nel suo profondo vidi che s’interna,

legato con amore in un volume,

ciò che per l’universo si squaderna:

 

sustanze e accidenti e lor costume

quasi conflati insieme, per tal modo

che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.

 

La forma universal di questo nodo

credo ch’i’ vidi, perché più di largo,

dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

 

Un punto solo m’è maggior letargo

che venticinque secoli a la ’mpresa

che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

 

Così la mente mia, tutta sospesa,

mirava fissa, immobile e attenta,

e sempre di mirar faceasi accesa.

 

A quella luce cotal si diventa,

che volgersi da lei per altro aspetto

è impossibil che mai si consenta;

 

però che ’l ben, ch’è del volere obietto,

tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella

è defettivo ciò ch’è lì perfetto.

 

Omai sarà più corta mia favella,

pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante

che bagni ancor la lingua a la mammella.

 

Non perché più ch’un semplice sembiante

fosse nel vivo lume ch’io mirava,

che tal è sempre qual s’era davante;

 

ma per la vista che s’avvalorava

in me guardando, una sola parvenza,

mutandom’ io, a me si travagliava.

 

Ne la profonda e chiara sussistenza


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 44 | Нарушение авторских прав



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