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Collana: Tascabili Bompiani 22 страница



Ho sempre cercato di lavorare onestamente, non più onestamente degli altri, s'intende, perché, dopo tutto veniamo al mondo imperfetti e soltanto Dio è perfetto. Cominciai, subito dopo essermi sposato, col metter su, coi soldi di mia moglie, una bottega di ciabattino. Mi ero scelto il quartiere degli impiegati e feci bene: gli impiegati, poveretti, le scarpe se le tengono da conto e, siccome sono impiegati e debbono far bella figura in ufficio, non possono andare in giro, come noialtri del popolo, con le scarpe rotte. La mia bottega si trovava proprio nel cuore del quartiere degli impiegati, tra quei casoni che ne contengono ciascuno almeno un migliaio; nella stessa strada, proprio di fronte a me, c'era un altro ciabattino. Era un vecchio, avrа avuto settant'anni, e mezzo cieco che quasi non ci vedeva. Il giorno stesso che aprii bottega, venne a farmi una scenata: era proprio cattivo, con certi occhi da gufo, tanto che mia moglie mi disse di stare attento al malocchio. Io non le diedi retta e feci male. In principio tutto andò bene: ero bravo, giovane, simpatico, lavorando cantavo, e per quelle serve che venivano a portarmi le scarpe dei padroni, avevo sempre qualche scherzo o qualche buona parola. La mia bottega era diventata il salotto del quartiere, e ben presto, a quel vecchiaccio, gli portai via tutta la clientela. Lui si arrovellava, ma non c'era niente da fare, anche perché io, per abbattere la concorrenza, facevo pagare di meno. Naturalmente avevo il mio piano: appena mi sembrò di avere in mano la clientela, l'applicai. Cominciai ad alternare: a uno gli mettevo la suola di cuoio e ad un altro gli mettevo la suola di pasta, imitazione cuoio. Uno sì e uno no. Poi, vedendo che non se ne accorgevano, mi feci coraggio e misi le suole di cartone a tutti. Non era, veramente, proprio cartone, ma un prodotto sintetico fabbricato durante la guerra e giuro che era quasi meglio del cuoio. Così, lavorando con zelo, sempre allegro, sempre gentile, sempre di buon umore, cominciai a guadagnare discretamente. Tutti mi volevano bene, salvo quel vecchio ciabattino, s'intende; e in quel tempo mi nacque il primo figlio. Purtroppo, avvenne non so come, forse per la pioggia, che una di quelle scarpe che avevo risuolato si spaccasse. Il cliente venne a bottega a protestare; e per caso, proprio in quei giorni, tutte le mie scarpe cominciarono a scollarsi. Si sa come vanno queste cose: se lo dissero gli uni con gli altri, per tutto il quartiere, nessuno venne più da me, e tutti tornarono dal vecchio. Il quale adesso se la rideva, dietro il vetro della bottega, e non faceva che battere e tirare lo spago. Adesso io mi sgolavo a spiegare che il grossista mi aveva imbrogliato e che non era colpa mia, ma nessuno mi credeva. Finalmente trovai qualcuno che rilevò la bottega, presi quei pochi soldi e me ne andai.

Capii che non era il caso di insistere con le scarpe e decisi di cambiar mestiere. Da ragazzo avevo lavorato presso un idraulico e pensai di metter su una bottega di stagnaro. Anche questa volta feci le cose con giudizio: scelsi un quartiere del centro, dove tutte le case sono antiche e hanno le tubature marce e gli impianti vecchi. Trovai un locale in una straduccia umida e senza sole, proprio un buco, tra la bottega di un carbonaio e quella di una stiratrice. Comprai i ferri, qualche tubo di piombo, qualche lavandino, qualche rubinetto e mi feci stampare un biglietto in cui c'era scritto: "Officina idraulicomeccanica. Lavori a domicilio. Preventivi a richiesta." Cominciò subito ad andar bene: quell'inverno ci fu un gran freddo e perfino nevicò e non si contano i tubi che scoppiarono in tutte quelle case vecchie e marce. D'altronde, di stagnari buoni ce ne sono sempre pochi, e quando c'è un guasto ad uno scaldabagno o ad una macchina da caffè, la gente si raccomanda allo stagnaro come a un dio. Non si ha idea della disperazione in cui cadono persone anche ricche allorché l'acqua non gli viene più o gli allaga il bagno: telefonano, supplicano, si raccomandano e, venuto il momento, pagano senza fiatare. Lo stagnaro è proprio indispensabile, e infatti tutti gli stagnari sono superbi, e guai a trattarli male. A me cominciò, come ho detto, ad andar subito bene. La bottega era buia e piccola e in vetrina non ci tenevo che una dozzina di rubinetti; ma molta gente mi chiamava e ben presto ebbi da fare tutto il giorno. E le cose sarebbero andate lisce, questa volta, se un altro stagnaro non fosse venuto ad aprir bottega proprio di fronte alla mia. Era un giovane biondo, piccolo, silenzioso, con una testa dura e incassata nel petto per via che quasi non aveva collo. Costui si mise in capo di portarmi via la clientela e siccome pareva deciso perfino a rimetterci, mi convinsi che se non provvedevo, ci sarebbe riuscito. Pensandoci, mi venne una buona idea per conservare i clienti e, magari, accrescere il lavoro. Mettiamo che avessi da applicare uno scaldabagno. Stringendo i dadi con la chiave inglese, davo una storta al tubo, ma appena, in modo che il tubo, vecchio e logoro com'era, si spaccasse dentro il muro. La notte la casa si allagava, il cliente mi chiamava, io rompevo il muro, cambiavo il tubo, ed era tutto un lavoro. Insomma provocavo qualche guasto, avendo cura di non farlo lа dove avevo eseguito prima la riparazione. Con questo sistema fronteggiai la concorrenza e persino migliorai la mia situazione. Intanto mi nacque il secondo figlio e respirai: questa volta ero davvero fuori dalla sfortuna. Ma non bisogna mai cantar vittoria. Uno di quei guasti provocati da me andò più in lа di quanto non avessi preveduto. Saltò uno scaldabagno, e appiccò il fuoco ad un armadio e poi all'appartamento. Disgrazia volle che qualcuno mi aveva osservato, un ragazzo, appassionato, a quando sembra, di meccanica. Non dico quello che passai, per poco non finivo in galera. Dovetti anche questa volta chiudere bottega e andarmene dal quartiere.



Ostinato, volli aprir bottega una terza volta. Ormai di soldi ne rimanevano pochi e con due figli e un terzo per via, non c'era da sperar molto. Andai in un quartiere proprio popolare, alla periferia, dalle parti del mattatoio, e aprii un negozietto di materassaio. Questa volta l'idea era di mia moglie, perché mio suocero era, appunto, materassaio. Comperai una macchina da cucire, qualche rete metallica, qualche branda, qualche rotolo di stoffa da materassi, qualche po' di lana e di crine. Mia moglie, poveretta, con tutto che aspettasse un bambino, cuciva a macchina, e io facevo il lavoro più pesante, come, per esempio, cardare la lana. Il quartiere era poverissimo e le ordinazioni venivano raramente. Non si riusciva neppure a mangiare e, come dissi a mia moglie, questa volta la sfortuna sarebbe stato molto più difficile scarognarsela di dosso. Ma verso la primavera le cose cominciarono ad andar meglio. Anche i poveri vogliono essere puliti; e le famiglie povere fanno qualsiasi sacrificio pur di tenere in ordine la casa. A primavera, dunque, molte donne del quartiere vennero da me per farsi rifare i materassi. Si sa come vanno queste cose: un mese prima non veniva nessuno, un mese dopo non sapevo più dove metter le mani. Siccome da solo non ce la facevo, presi un garzone. Era un ragazzaccio di diciassette anni e lo chiamavano Negus per via che aveva la pelle scura e i capelli ricci, proprio come il Negus dell'Abissinia. Lui andava in giro a riportare o prendere i materassi, e io restavo a bottega a lavorare. Questo Negus era la disperazione di sua madre che faceva la lavandaia; e un giorno che l'avevo mandato a farsi pagare una fattura, non tornò a bottega. Andò alla partita di calcio e poi non so dove e, insomma, si mangiò i quattrini. Ma poi ebbe la fronte di venire a bottega e di dirmi che gli avevano rubato il portafogli. Io gli dissi che era un ladro, lui mi rispose male, e io gli diedi uno schiaffo e poi dovetti ricorrere alla forza per cacciarlo dalla bottega. Fu questa l'origine della mia nuova sfortuna. Quel mascalzone andò in giro per tutto il quartiere raccontando che io, tempo addietro, nel rifare cinque materassi, avevo trovato in uno le cimici, e allora non soltanto ce le avevo lasciate ma anche ne avevo aggiunto un paio per ciascuno degli altri quattro materassi. Questo per ottenere che, alla prossima buona stagione, me li mandassero a rifare. Era vero, ma, si sa, bisogna ingegnarsi e tutti si ingegnano. In breve: ci fu quasi una rivoluzione, le donne mi assediarono nella bottega, e volevano bastonarmi. Venne perfino la questura e fui diffidato. Questa volta fu l'ultima volta. Vendetti la macchina da cucire e quella poca roba, e me ne andai alla chetichella, di notte, come un ladro.

Ora dico: si può essere più sfortunati di me? Volevo lavorare onestamente, tranquillamente, tutt'al più aiutando il lavoro con un po' di destrezza, ma non più di quanto facciano tanti altri. Volevo, insomma, diventare un buon lavoratore; e, invece, eccomi disoccupato. Almeno avessi un po' di soldi, aprirei un'osteria e così, siccome è inteso che nel vino ci va l'acqua, forse potrei sfangarla. Ma non ho più soldi, e mi toccherа andare garzone. E, come tutti sanno, chi vive di stipendio, muore di fame. Sono proprio sfortunato, anzi iettato. Mia moglie mi ha cucito un santino nel portafogli, e io porto addosso non so quanti tra corni e portafortuna. Sull'uscio di casa, poi, ho appeso un ferro da cavallo con tutti i chiodi. Ma tant'è, sono sfortunato, ho vissuto da sfortunato, e morirò da sfortunato. La chiromante da cui sono andato per sapere chi mi vuol male, come ha veduto la mia mano, ha levato le braccia al cielo, e ha gridato: "Uh! che vedo! che vedo!" Io mi sono messo paura e le ho domandato che cosa vedeva. E lei ha risposto: "Figlio mio, una stella nera nera, tutti ti vogliono male."

"E allora?", le ho domandato. "Allora fatti coraggio e fida in Dio."

"Ma io", ho protestato "ho sempre fatto il mio dovere." E lei: "Figlio mio, troppa gente ti vuol male... che serve fare il proprio dovere quando la gente vuol male? Serve soltanto ad avere la coscienza tranquilla." Allora io ho risposto: "A me basta d'avere la coscienza tranquilla come ce l'ho. Tutto il resto non m'importa."

 

TIRATO A SORTE

 

La domenica, spesso, ci davamo appuntamento Remo, Ettore, Luigi ed io, fuori porta San Paolo, davanti al cinema del quartiere che dа i film in terza visione; ma il più delle volte non entravamo perché non ci avevamo i soldi per il biglietto. Eravamo tutti e quattro sui diciott'anni; tutti e quattro disoccupati; e tutti e quattro senza un soldo. Cioè, un po' di soldi li avevamo ma questi dovevano servirci per le sigarette che, dopo tutto, sono più importanti del cinema. Anche le sigarette, del resto, ci pensavamo due volte prima di sprecarle: ne fumavamo una per volta, passandocela e prendendo una boccata ciascuno. La domenica, si sa, tutti si mettono i vestiti migliori; ma per noialtri, i nostri vestiti migliori erano i peggiori dei nostri fratelli e padri, quelli che non si mettevano più e che ci passavano quando erano proprio sfiniti. Io, per esempio, portavo il vestito di mio fratello: le maniche e i pantaloni, a casa, me li avevano accorciati, ma le spalle scendevano, larghe il doppio delle mie. Per fortuna, sotto la giacca ci avevo una maglia rossa accollata che mi stava bene perché sono biondo e ho gli occhi azzurri. Gli altri tre non se la passavano meglio di me: pantaloni sformati, giacche idem, maglie da ciclisti. Eravamo amici soprattutto per via della miseria che ci riuniva nelle voglie che non potevamo toglierci: insieme ci arrampicavamo sulle palizzate per goderci le partite di calcio senza pagare l'ingresso; insieme, da una finestra di Luigi, guardavamo al cinema all'aperto, d'estate; insieme giocavamo alle carte, in qualche luogo tranquillo, sotto le mura, ma senza soldi, con sassi e bottoni.

Una di quelle domeniche, ci riunimmo, al solito, davanti al cinema perché Remo conosceva il padrone, un giovanotto grasso che si chiamava Alfredo, e questi, qualche volta, quando la sala non era piena, ci aveva fatto entrare gratis. Ma quel giorno Alfredo ce lo disse subito: "Ragazzi, niente ingresso gratis, oggi." E indicò, sopra la cassa, un cartello in cui appunto c'era scritto: sono aboliti gli ingressi di favore.

Remo insistette: "Senti... due per volta... due adesso e due al prossimo spettacolo." Ma Alfredo, senza levare gli occhi dal blocchetto dei biglietti, fece di no con la testa, irremovibile.

Però, ci era rimasta la voglia e così indugiammo sotto la pensilina del cinema a guardare i cartelloni e la gente che entrava. Ecco che si accostano ai cartelloni due ragazze, timide timide, una bruna e l'altra bionda. La bruna aveva un corpetto di velluto nero, un po' spelacchiato e una gonna rossa, di tela leggera, che pareva una sottoveste tanto era ciancicata e macchiata. Però mi piacque subito: scura di pelle come una zingara, con due occhi di carbone, vivi, la bocca larga e rossa, la persona snodata e sottile. La bionda, invece, non mi piacque: grossa, col petto e i fianchi traboccanti, un vestito marrone che pareva una ragnatela, le calze rammendate sulle gambe grasse e bianche, la faccia larga, rosa e pelosa come una pesca. La bionda non ci aveva nemmeno la borsetta; la bruna ce l'aveva, di velluto nero, ma così piatta e magra che ci avrei giurato che dentro non ci aveva nemmeno il fazzoletto. Diedi col gomito a Remo, indicandole con gli occhi, e lui mi incoraggiò con uno sguardo. Allora mi avvicinai e dissi: "Signorine, possiamo offrirvi il cinema?"

La bruna si voltò subito rispondendo: "No, grazie, aspettiamo qualcuno."

Domandai un po' ironico: "Chi aspettate? I fidanzati?" Lei rimbeccò: "E perché? Non ci credete che ce li abbiamo i fidanzati?"

Dissi: "Chi ha detto niente... la prima gallina che canta ha fatto l'uovo."

E lei: "Allora noi saremmo le galline?"

"Eh, giа."

"E voialtri i galli?"

"Sicuro."

"Siete galletti spennacchiati", disse lei con la sua voce rauca, galletti senza penne."

"Insomma, che ci avete da ridire su di noi?"

"Niente", disse lei decidendosi ad un tratto, "anzi, se volete offrirci il cinema, accettiamo;" e fece una piccola riverenza, prendendosi con le due mani i lembi della gonna, come per dire "su, coraggio, fatevi avanti".

Restai male. Avevo parlato del cinema tanto per rompere il ghiaccio. Ma i soldi non ce li avevamo manco per noi, figuriamoci per loro. Risposi: "A dire la veritа, i soldi per il cinema non ce li abbiamo... avevo detto così per dire."

La bruna si mise a ridere, mostrando due file di denti bianchi e belli, da selvaggia: "L'avevamo capito da un pezzo." La bionda le disse qualche cosa, piano; ma lei che mi guardava, provocante, alzò le spalle. Quindi soggiunse: "Beh, non importa... ci siete simpatici lo stesso, anche se non avete soldi.., non ci teniamo al cinema... vogliamo fare quattro passi?"

"Facciamoli."

Ci allontanammo dal cinema avviandoci per una strada deserta che accompagna le mura, fuori porta San Paolo. La bruna camminava avanti e noi quattro le stavamo tutti e quattro intorno, perché, come mi accorsi subito, piaceva a tutti e quattro. La bionda, immusonita, veniva dietro, sola sola. La bruna faceva le civetterie ridendo e scherzando e aveva un suo modo di muover le gambe dentro la gonna rossa per cui ad ogni passo questa gonna sventolava come una bandiera; e noi quattro facevamo a gara per ingraziarcela; ma alla bionda neppure una parola. Come ho detto, la bruna mi piaceva proprio tanto; ma la corte degli altri tre mi impacciava e mi dava fastidio. Se la prendevo sotto braccio, subito un altro le acchiappava l'altro braccio; se la guardavo, subito un altro si sporgeva a guardarla anche lui; se le dicevo una frase gentile, subito un altro ci metteva il becco. Finalmente spazientito, dissi a Luigi, che era il più scorfano dei quattro: "E piantala... perché non tieni compagnia ad Elisa?"

Elisa era la bionda che camminava un po' in disparte, un filo d'erba tra i denti. La bruna confermò, ridendo: "Giа, nessuno tiene compagnia ad Elisa."

"Oh, per me, non ho bisogno di compagnia... sto bene sola", disse Elisa imbronciata.

"Perché non le tieni tu compagnia ad Elisa?", disse Luigi. "Giа" disse la bruna ridendo, "perché non tiene lei compagnia ad Elisa?"

Tutto ad un tratto mi venne la stizza e risposi: "Sapete che mi sembrate?... Tanti cani intorno un osso... Io terrò compagnia ad Elisa... sissignore.. divertitevi voialtri." E, senza esitare, mi avvicinai ad Elisa e la presi sotto braccio, dicendo: "Allora Elisa... facciamo pace?"

"Non ci siamo mai litigati", rispose lei un po' sostenuta.

Riprendemmo a camminare per quella strada polverosa, da una torre all'altra delle mura. Ben presto capii che la manovra era riuscita: adesso, infatti, la bruna non pareva più tanto contenta e, pur ridendo e civettando, ogni tanto si voltava a lanciarci, a me e ad Elisa che venivamo dietro, certi sguardi pieni di gelosia. Dissi ad Elisa: "Ma che ci ha la tua amica?... che vuole?" Lei rispose: "È civetta... gli uomini li vuole tutti lei."

Dissi: "E io invece sto con te... mi vuoi?"

Lei non rispose nulla, forse per timidezza; ma si fece rossa e mi premette il braccio.

Intanto eravamo arrivati in fondo alla strada e poi eravamo tornati indietro, sempre ridendo e scherzando; e adesso eravamo al punto di prima, davanti al cinema. La bruna, ad un tratto, si fermò e disse con decisione: "Sentite un po'... è un'ora che ci fate camminare nella polvere... insomma che ci offrite? Se non avete nulla da offrirci, tanto vale che ci separiamo."

Elisa, contenta che io la tenessi sotto braccio, arrischiò: "Ci offrono la loro compagnia." Ma la bruna non fece caso a queste parole e proseguì: "Sentite, ho un'idea... almeno i soldi per fare entrare al cinema due persone ce li avete fra tutti e quattro?"

Ci guardammo in viso. Dissi: "Credo di sì... no, Remo?"

"Sì", disse Remo.

"Bene... adesso io scrivo i vostri nomi su quattro bigliettini... poi li mettiamo in un berretto e tiriamo a sorte... chi vince si sceglie una di noi due e va al cinema con lei a spese degli altri tre... ci state?"

Ci guardammo di nuovo in faccia. Era tentante e non era tentante. Era tentante perché lei ci piaceva a tutti e quattro e sapevamo che chi fosse stato scelto, avrebbe scelto a sua volta lei; non era tentante perché a nessuno piaceva l'idea di pagare il cinema e la ragazza ad un altro. Alla fine dissi: "Io per me, ci sto;" e tutti gli altri, per non fare brutta figura, accettarono.

"Benissimo", disse lei "datemi prima di tutto i soldi e poi un berretto e un lapis." Un po' seccati rovesciammo le tasche: saltò fuori il denaro per i due biglietti e anche qualche cosa di più. Remo le diede il suo berretto e Luigi un pezzo di lapis. Lei prese il denaro, raccattò un vecchio giornale, ne strappò quattro striscioline e poi, appartandosi presso un mucchio di rovine, sotto le mura, ci gridò da lontano: "Ditemi un po' i vostri nomi."

Glieli dicemmo. Lei scrisse i nomi, mise i biglietti nel berretto e, agitandolo, venne incontro all'amica e le disse: "Prendine uno." Elisa ubbidì, lei svolse il biglietto e disse con voce trionfante: "Giulio."

Era il mio nome. Mi alzai dicendo: "Tocca a me;" e senza esitare indicai la bruna, soggiungendo: "Scelgo lei."

La bruna fece una risata, una piroletta, e venne ad appendersi al mio braccio. Tutto era avvenuto in un attimo: adesso la bruna mi stava accanto e il cinema era lа, sull'altro marciapiede, e la bionda era rimasta come attonita, il berretto in mano. Poi Remo gridò: "Non ci vedo chiaro... Lei voleva Giulio e Giulio è venuto."

Un altro disse: "Non vale."

Risposi: "Perché non vale?... abbiamo tirato a sorte."

Ma Remo aveva ripreso il suo berretto ed esaminava gli altri tre biglietti. Poi diede un urlo: "Non vale, non vale... c'è scritto Giulio in tutti e quattro i biglietti."

"Ma chi l'ha detto?"

"Guarda."

Era vero. La bruna si mise a ridere, sfacciata, e disse: "Beh, ormai è fatta... noi andiamo al cinema, arrivederci."

Remo deciso ci sbarrò il passo: "Tu intanto ridacci i soldi." Risposi: "Ve li ridò domani."

"Niente domani... ce li ridai subito."

La bruna intervenne dicendomi sottovoce: "Non farti metter sotto;" e io, incoraggiato, affrontai Remo dicendo: "Ve li ridò domani... e adesso sciò, levatevi dai piedi."

Avevo appena detto queste parole che lui mi era saltato addosso e gli altri due con lui e tutti e quattro stavamo in terra, avvinghiati, lottando e menandoci. Sono forte; ma loro erano tre e io ero uno solo, e loro avrebbero certamente finito per mettermi sotto, se, per combinazione, una guardia che gironzolava lì accanto, non si fosse avvicinata, gridando con voce autoritaria: "Ehi, ragazzacci... ma dove credete di essere... dico a voialtri... ehi."

Ci levammo tutti e quattro, ansanti e coperti di polvere. Remo gridò inferocito: "Ridacci i soldi;" ma la bruna, franca e pronta, subito si avanzò e disse:. "Noi due, io e lui, siamo fidanzati... e andavamo a spasso per i fatti nostri... quei tre ci seguivano e ci davano fastidio... signora guardia, gli dica un po' di andarsene a quegli impuniti... Chi li conosce? che vogliono? chi sono?... noi vogliamo passeggiare in pace."

Dico la veritа, tanta faccia tosta non meravigliò soltanto loro ma anche me. La guardia disse, severa: "Andatevene, circolate... o se no...;" e loro, attoniti, cominciarono ad indietreggiare, pur guardandoci. Il cinema era lì, sul marciapiede di fronte: presi la bruna sotto braccio e attraversai la strada. Remo mi gridò: "Domani facciamo i conti;" ma tanto lui che gli altri non avevano il coraggio di muoversi perché la guardia era rimasta ferma, lа dove si trovava. Entrai nel cinema e dissi ad Alfredo: "Due poltrone di platea;" e la bruna gettò i soldi sul banco della cassa. Come entrammo nella sala, lei mi disse: "Ce l'abbiamo fatta."

Domandai: "Come ti chiami?"

Lei rispose: "Mi chiamo Assunta."

 

PIGLIATI UN BRODO

 

Il tappezziere è un mestiere difficile. Non parlo dell'occhio che ci vuole per inchiodare e stendere senza grinze né difetti le stoffe sui mobili; né della pazienza per cucire a mano, mettiamo, quattro o cinque teli di chinz; né della pulizia, trattandosi di roba delicata. Parlo dello spazio. Mettiamo che il tappezziere abbia da ricoprire un paio di divani e cinque o sei tra poltrone, seggiole e seggioloni che è un lavoro normale, ed ecco tutto il posto occupato, anche ad avere una bottega grande assai. Per questo le botteghe per tappezzieri si trovano difficilmente e io, con tutto che sono tappezziere da più di quarant'anni (cominciai a sedici anni a lavorare con mio padre ch'era tappezziere anche lui), io dico, ho sempre lavorato a casa. Abito alla Lungara, non tanto lontano da Regina Coeli, in uno stanzone lungo, largo e alto che guarda al Tevere con quattro finestre. In questo stanzone, finché è vissuta la mia prima moglie, non soltanto ci ho lavorato ma anche ci ho dormito insieme con tutta la famiglia: in un angolo c'era un lettino per mio figlio Ferdinando; nell'angolo opposto, dietro un paravento, un lettone per mia moglie e per me. Sistemazione obbligatoria, visto che, oltre allo stanzone, nell'appartamento non c'erano che due ripostigli per la cucina e per il cesso. Poi mia moglie morì, a soli cinquant'anni e io, che ne avevo quasi sessanta, dopo aver provato a star senza moglie, mi accorsi che non ce la facevo e mi risposai, e tutto cambiò. Giuditta, la mia seconda moglie, aveva trent'anni meno di me e poteva anche dirsi bella sebbene molti uomini affermassero che c'era in lei qualche cosa che respingeva: pallida come una morta, con gli occhi neri sporgenti come quelli degli agnelli sgozzati che si vedono dai beccai, i capelli neri, le carni bianche e toste ma fredde. Prima di sposarsi, Giuditta era stata una povera operaia, dopo sposata volle fare la signora.

Prima di sposarsi era stata un angelo, dopo sposata diventò un diavolo. Prima di sposarsi, le ero andato bene io, la casa, tutto quanto; dopo sposata non le piaceva più nulla: né io, né la casa, né tutto il resto. Eh giа, sono le sorprese del matrimonio. Cominciò col dire che non poteva stare che dormissimo nella stessa stanza con Ferdinando e mi fece tirar su un tramezzo di mattoni in modo da formare un'altra stanzuccia da metterci il letto. Poi volle che rifacessi la cucina, con un fornello nuovo. Poi che mettessi la vasca nel cesso. Finalmente, trovò modo di litigare coi nostri vicini dai quali, per vent'anni, ero andato a telefonare e ricevere telefonate. Così mi toccò mettere anche il telefono.

Vennero a mettermi il telefono, poniamo, lunedì; il pomeriggio di mercoledì, mentre stavo inchiodando il raso su una poltroncina impero e sospiravo tra me e me pensando ai casi miei, il telefono squillò. Ci andai, staccai il ricevitore e dissi: "Parla Pericoli, ed io?" All'altro capo del filo, un vocione grosso, sguaiato, proprio romanesco, domandò: "Pericoli il tappezziere?"

"Sissignore, per servirla", risposi, pensando che fosse un cliente.

"Beh" fece il vocione "si può sapere perché ti sei sposato, Pericoli...? Non lo sapevi che alla tua etа non si prende moglie? E poi che ti credi? Che tua moglie ti vuole bene? Povero scemo..." Mi montò subito il sangue alla testa, anche perché quel vocione, pur nella sua maniera sguaiata, esprimeva il dubbio che in quel momento mi tormentava. Risposi, con forza: "Ma tu chi sei?"

E lui, in tono strascicato: "Chi sono io, non te l'immagini manco se torni a nascere... senti, piuttosto, voglio darti un consiglio..."

"Ma che vuoi? Chi sei?"

"Un consiglio proprio da amico: pigliati un brodo."

Questa telefonata la considerai lo scherzo di qualche sfaccendato che ci conosceva. Però mi riempì di veleno lo stesso perché, come ho detto, anch'io da qualche tempo cominciavo a pensare che il mio matrimonio fosse stato un errore. Naturalmente non dissi nulla a Giuditta la quale, sia detto tra parentesi, da qualche giorno era diventata proprio impossibile e mi trattava peggio che se fossi stato mondezza. Passò forse una settimana e poi, su per giù alla stessa ora della prima volta, il telefono squillò e il vocione mi domandò: "Buon giorno, Pericoli, che stai facendo?"

Risposi: "Quello che mi pare e piace."

"Te lo dico io quello che stai facendo: stai imbullettando le seggioline che ti hanno portato ieri sera... bravo, lavora... ma posso anche dirti quello che sta facendo tua moglie."

"Ma chi sei, si può sapere chi sei?"

"Tua moglie sta facendo la civetta con il barista di Porta Settimiana... ecco quello che sta facendo."

"Ma chi te l'ha detto?"

"Te lo dico io... del resto vacci e vedrai... da' retta, Pericoli: sei vecchierello, le donne coi bocci non ci vogliono stare."

"Ma chi sei, canaglia?"

"Invece di arrabbiarti, da' retta: pigliati un brodo."

Questa volta non seppi trattenermi, e come Giuditta tornò a casa, ad una delle sue solite rispostacce da pescivendola, glielo dissi: "Io lavoro e tu intanto fai la civetta col barista di Porta Settimiana." Non l'avessi mai fatto: prima mi coprì di male parole, poi volle sapere chi me l'aveva detto; e come glielo dissi, ricominciò ad ingiuriarmi: "Ah tu dai retta a qualsiasi mascalzone che ti telefona... credi a lui piuttosto che a me... ma lo sai chi sei? un vecchio rimbambito... meriteresti davvero che te le mettessi le corna... e grandi così da non passare sotto le porte." Eccetera, eccetera. Andò a finire che mi fece piangere e che io mi trascinai in ginocchio ai suoi piedi, domandandole perdono, con tutti i miei capelli bianchi e la pancia. E che, per rabbonirla, dovetti darle il denaro per comprarsi le calze di seta; e Dio sa se avevo quattrini, ormai, con tutte le spese che mi aveva fatto fare.


Дата добавления: 2015-10-21; просмотров: 29 | Нарушение авторских прав







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