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Il pendolo di Foucault 45 страница

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Ritornavo con la memoria all'ultimo file di Belbo. Ma allora, se l'essere è così vuoto e fragile da sostenersi solo sull'illusione di coloro che cercano il suo segreto, davvero — come diceva Amparo la sera nella tenda, dopo la sua sconfitta — allora non c'è redenzione, siamo tutti degli schiavi, dateci un padrone, ce lo meritiamo...

Non è possibile. Non è possibile perché Lia mi ha insegnato che c'è altro, e ne ho la prova, si chiama Giulio e in questo momento sta giocando in una valle, e tira la coda a una capra. Non è possibile perché Belbo ha detto due volte no.

Il primo no l'ha detto ad Abulafia, e a chi avesse tentato di violarne il segreto. "Hai la parola d'ordine?" era la domanda. E la risposta, la chiave del sapere, era "no". C'è qualcosa di vero, ed è che non solo la parola magica non c'è, ma neppure la sappiamo. Ma chi sappia ammetterlo può sapere qualcosa, almeno quello che ho potuto sapere io.

Il secondo no lo ha detto sabato sera, rifiutando la salvezza che gli veniva offerta. Avrebbe potuto inventare una mappa qualsiasi, citare una di quelle che gli àvevo mostrato, tanto, col Pendolo appeso a quel modo, quella banda di forsennati l'Umbilicus Mundi non l'avrebbe mai identificato, e se pure l'avesse, avrebbero perso altri decenni a capire che non era quello. Invece no, non ha voluto piegarsi, ha preferito morire.

Non è che non abbia voluto piegarsi alla foia del potere, non ha voluto piegarsi al non senso. E questo vuoi dire che egli in qualche modo sapeva che, per fragile che l'essere sia, per infinita e senza scopo che sia la nostra interrogazione del mondo, c'è qualcosa che ha più senso del resto.

Che cosa aveva intuito Belbo, forse soltanto in quel momento, da permettergli di contraddire il suo ultimo file disperato, e non delegare il suo destino a chi gli garantiva un Piano qualsiasi? Che cosa aveva capito — finalmente — che gli permetteva di giocarsi la vita, come se tutto quello che doveva sapere l'avesse scoperto da gran tempo, senza che se ne fosse accorto sino ad allora, e come se di fronte a questo suo unico, vero, assoluto segreto, tutto quanto avveniva nel Conservatoire, fosse irrimediabilmente stupido — e stupido a quel punto fosse ostinarsi a vivere?

Mi mancava qualcosa, un anello della catena. Di Belbo mi pareva ormai di conoscere tutte le gesta, dalla vita alla morte, meno una.

 

All'arrivo, mentre cercavo il passaporto, mi sono ritrovato in tasca la chiave di questa casa. L'avevo presa giovedì scorso insieme a quella dell'appartamento di Belbo. Mi sono ricordato di quel giorno, quando Belbo aveva mostrato il vecchio armadio che avrebbe contenuto, diceva, la sua opera omnia, ovvero i suoi juvenilia. Forse Belbo aveva scritto qualcosa che non poteva trovarsi in Abulafia, e quel qualcosa era seppellito qui a ***.

Non vi era nulla di ragionevole nella mia congettura. Una buona ragione — mi sono detto — per prenderla per buona. Ormai.

Sono andato a recuperare la mia macchina, e sono venuto qui.

 

Non ho trovato neppure la vecchia parente dei Canepa, o custode che fosse, che avevamo visto allora. Forse è morta anche lei nel frattempo. Qui non c'è nessuno. Ho attraversato le varie stanze, c'è odore di umido, avevo persino pensato di accendere il prete in una delle stanze da letto. Ma non ha senso scaldare il letto in giugno, non appena si aprono le finestre entra l'aria tepida della sera.

Subito dopo il tramonto non c'era luna. Come a Parigi sabato notte. È sorta molto tardi, ne vedo quel poco che c'è — meno che a Parigi — solo ora, che si leva lentamente al di sopra delle colline più basse, in un avvallamento tra il Bricco e un'altra gibbosità giallastra, forse già mietuta.

Credo di essere arrivato qui verso le sei di sera, era ancor chiaro. Non mi ero portato nulla da mangiare, poi, girando a caso, sono entrato in cucina e ho trovato un salame appeso a una trave. Ho cenato a salame e acqua fresca, credo verso le dieci. Ora ho sete, mi sono portato qui nello studio di zio Carlo una grande caraffa d'acqua, e ne ingollo ogni dieci minuti, poi scendo, riempio, e ricomincio. Dovrebbero essere le tre, ora. Ma ho la luce spenta e faccio fatica a leggere l'orologio. Rifletto, guardando alla finestra. Ci sono come delle lucciole, delle stelle cadenti sui fianchi delle colline. Rare macchine che passano, scendono a valle, salgono verso i paesini sui cocuzzoli. Quando Belbo era ragazzo non dovevano esserci queste visioni. Non c'erano le macchine, non c'erano quelle strade, di notte era coprifuoco.

Ho aperto l'armadio dei juvenilia, subito appena arrivato. Ripiani e ripiani di carte, dai compiti scolastici delle elementari a fascicoli e fascicoli di poesie e prose dell'adolescenza. Tutti nell'adolescenza hanno scritto poesie, poi i veri poeti le hanno distrutte e i cattivi poeti le hanno pubblicate. Belbo era troppo smagato per salvarle, troppo indifeso per distruggerle. Le ha seppellite nell'armadio di zio Carlo.

Ho letto per alcune ore. E per altre lunghe ore, sino a questo momento, ho meditato sull'ultimo testo che ho trovato, quando quasi stavo per cedere.

Non so quando Belbo lo abbia scritto. Sono fogli e fogli dove si intrecciano nelle interlinee calligrafie diverse, ovvero la stessa calligrafia in tempi diversi. Come se lo avesse scritto molto presto, a sedici o diciassette anni, poi lo avesse riposto, ci fosse tornato sopra a venti, e poi di nuovo a trenta, e forse dopo. Sino a che non deve aver rinunciato a scrivere — tranne ricominciare con Abulafia, ma senza osare di recuperare queste righe, e di sottometterle all'umiliazione elettronica.

A leggere, sembra di seguire una storia ben nota, le vicende della *** tra 1943 e 1945, zio Carlo, i partigiani, l'oratorio, Cecilia, la tromba. Conosco il prologo, erano i temi ossessivi del Belbo tenero, ubriaco deluso e dolente. La letteratura di memoria, lo sapeva anche lui che era l'ultimo rifugio delle canaglie.

Ma io non sono un critico letterario, sono ancora una volta Sam Spade, che cerca l'ultima traccia.

E così ho ritrovato il Testo Chiave. Rappresenta probabilmente l'ultimo capitolo della storia di Belbo a ***. Dopo, non può essere accaduto più nulla.
119

Fu dato fuoco alla corona della tromba, e allora vidi aprirsi l'apertura della cupola e uno splendido strale di fuoco saettare giù attraverso il tubo della tromba ed entrare nei corpi privi di vita. Dopo, l'apertura fu nuovamente chiusa e anche la tromba fu allontanata.

 

(Johann Valentin Andreae, Die Chymische Hochzeit des Christian Rosencreutz, Strassburg, Zetzner, 1616, 6, pp. 125-126)

 

Il testo ha dei vuoti, delle sovrapposizioni, delle falle, delle biffature — si vede che sono appena tornato da Parigi. Più che rileggerlo, lo rivivo.

Doveva essere verso la fine di aprile del '45. Le armate tedesche erano ormai in rotta, i fascisti si stavano disperdendo. In ogni caso *** era già, e definitivamente, sotto il controllo dei partigiani.

Dopo l'ultima battaglia, quella che Jacopo ci aveva raccontato proprio in questa casa (quasi due anni fa), varie brigate partigiane si erano date convegno a ***, per puntare poi sulla città. Attendevano un segnale da Radio Londra, si sarebbero mossi quando anche Milano fosse stata pronta per l'insurrezione.

Erano arrivati anche quelli delle formazioni garibaldine, comandati da Ras, un gigante con la barba nera, molto popolare in paese: erano abbigliati con uniformi di fantasia, una diversa dall'altra, salvo i fazzoletti e la stella sul petto, entrambi rossi, ed erano armati in modo casuale, chi con un vecchio moschetto, chi con un mitra sottratto al nemico. Facevano contrasto con le brigate badogliane, dal fazzoletto azzurro, le uniformi cachi simili a quelle degli inglesi, e gli sten nuovissimi. Gli alleati aiutavano i badogliani con generosi lanci di paracadute nella notte, dopo che era passato, come ormai faceva da due anni, tutte le sere alle undici, il misterioso Pippetto, il ricognitore inglese che nessuno capiva cosa riconoscesse, visto che di luci non se ne vedevano per chilometri e chilometri.

C'erano tensioni tra garibaldini e badogliani, si diceva che la sera della battaglia i badogliani si erano scagliati contro il nemico gridando "Avanti Savoia", ma alcuni di loro dicevano che era forza dell'abitudine, che cosa vuoi gridare andando all'assalto, questo non voleva dire che erano necessariamente monarchici e sapevano anche loro che il re aveva delle grandi colpe. I garibaldini sogghignavano, si può gridare Savoia se fai l'assalto alla baionetta in campo aperto, ma non buttandosi dietro un angolo con lo sten. E che si erano venduti agli inglesi.

Si era però raggiunto un modus vivendi, ci voleva un comando unificato per l'attacco alla città, e la scelta era caduta su Terzi, che comandava la brigata meglio attrezzata, era il più anziano, aveva fatto la grande guerra, era un eroe e godeva la fiducia del comando alleato.

Nei giorni seguenti, credo con qualche anticipo sull'insurrezione di Milano, erano partiti per espugnare la città. Erano arrivate buone notizie, l'operazione era riuscita, le brigate stavano tornando vittoriose a ***, ma c'erano stati dei morti, correva voce che Ras era caduto in combatti-mento, e Terzi era ferito.

Poi un pomeriggio si erano sentiti i rumori degli automezzi, dei canti di vittoria, la gente era corsa sulla piazza grande, dalla statale stavano arrivando i primi contingenti, pugni levati, bandiere, un agitare di armi dai finestrini delle macchine o dai predellini dei camion. Lungo la strada avevano già coperto i partigiani di fiori.

All'improvviso qualcuno aveva gridato Ras Ras, e Ras era lì, accovacciato sul parafango anteriore di un dodge, con la barba arruffata e ciuffi di peli neri sudati che gli uscivano dalla camicia aperta sul petto, e salutava la folla ridendo.

Accanto a Ras era sceso dal Dodge anche Rampini, un ragazzo miope che suonava in banda, poco più anziano degli altri, che era scomparso da tre mesi e si diceva avesse raggiunto i partigiani. E infatti eccolo lì, con il fazzoletto rosso al collo, la giubba cachi, un paio di pantaloni azzurri. Era l'uniforme della banda di don Tíco, ma lui aveva ora un cinturone con la fondina, e una pistola. Coi suoi occhiali spessi che gli erano valsi tante ironie da parte dei suoi vecchi compagni dell'oratorio, ora guardava le ragazze che gli si affollavano intorno come fosse Flash Gordon. Jacopo si chiedeva se Cecilia fosse per caso li tra la gente.

Nel giro di mezz'ora la piazza era colorata di partigiani, e la folla chiamava a gran voce Terzi, e voleva un discorso.

Da un balcone del palazzo comunale era apparso Terzi, appoggiato alla sua stampella, pallido, e con la mano aveva cercato di calmare la folla. Jacopo attendeva il discorso, perché tutta la sua infanzia, come quella dei suoi coetanei, era stata segnata da grandi e storici discorsi del Duce, di cui si.mandavano a memoria le citazioni più significative a scuola, e cioè si mandava a memoria tutto perché ogni frase era una citazione significativa.

Sceso íl silenzio, Terzi aveva parlato, con la voce roca, che si udiva a fatica. Aveva detto: "Cittadini, amici. Dopo tanti penosi sacrifici... eccoci qui. Gloria ai caduti per la libertà."

E basta. Era rientrato.

E intanto la folla gridava, e i partigiani alzavano i mitra, gli sten, i moschetti, i novantuno, e sparavano raffiche di festa, coi bossoli che cadevano tutt'intorno e i ragazzi che si infilavano tra le gambe degli armati, e dei civili, perché una raccolta così non l'avrebbero più fatta, c'era il rischio che la guerra finisse entro un mese.

 

Però i morti c'erano stati. Per un caso atroce, erano tutti e due di San Davide, un villaggio a monte di ***, e le famiglie ne richiedevano sepoltura nel piccolo cimitero locale.

Il comando partigiano aveva deciso che doveva essere un funerale solenne, le compagnie in formazione, i carri funebri addobbati, la banda musicale del comune, il prevosto della cattedrale. E la banda dell'oratorio.

Don Tico aveva accettato subito. Anzitutto, diceva lui, perché era sempre stato di sentimenti antifascisti. Poi, come sussurravano i suonatori, perché era un anno che faceva studiare per esercizio due marce funebri, e doveva pur farle eseguire un giorno o l'altro. E infine, dicevano i maligni del paese, per far dimenticare Giovinezza.

La storia di Giovinezza era andata così.

Mesi prima, prima che arrivassero i partigiani, la banda di don Tico era uscita per non so quale festa patronale, ed erano stati fermati dalle Brigate Nere. "Suoni Giovinezza, reverendo," gli aveva comandato il capitano, tamburellando con le dita sulla canna del mitra. Che fare, come si sarebbe imparato a dire dopo? Don Tico aveva detto, ragazzi, proviamo, la pelle è la pelle. Aveva dato il tempo con la sua chiave, e l'immonda accozzaglia di cacofonici aveva attraversato *** suonando qualcosa che solo la più forsennata speranza di riscatto avrebbe permesso di scambiare per Giovinezza. Una vergogna per tutti. Per aver ceduto, diceva dopo don Tico, ma soprattutto per aver suonato da cani. Prete sì, e antifascista, ma anzitutto l'arte per l'arte.

Jacopo quel giorno non c'era. Aveva la tonsillite. C'erano solo Annibale Cantalamessa e Pio Bo, e la loro esclusiva presenza deve aver contribuito radicalmente al crollo del nazifascismo. Ma per Belbo íl problema era un altro, almeno nel momento in cui ne scriveva. Aveva mancato un'altra occasione per sapere se avrebbe saputo dire di no. Forse per questo era morto impiccato al Pendolo.

Insomma, si era fissato il funerale per 1a domenica mattina. Sulla piazza del duomo, c'erano tutti. Terzi con le sue schiere, zio Carlo e alcuni notabili comunali, con le decorazioni della grande guerra, e non importava chi era stato fascista e chi no, si trattava di onorare degli eroi. E c'era il clero, la banda del comune, in abiti scuri, e i carri coi cavalli ingualdrappati con montare bianco crema, argento e nero. L'automedonte era vestito come un maresciallo di Napoleone, feluca, mantellina e gran cappa, degli stessi colori delle bardature dei cavalli. E c'era la banda dell'oratorio, berretto a visiera, giubba cachi e pantaloni blu, lucida di ottoni, nera di legni e scintillante di piatti e grancasse.

Tra *** e San Davide c'erano cinque o sei chilometri di curve in salita. Di quelli che i pensionati, le domeniche pomeriggio, percorrevano giocando a bocce, una partita, un arresto, alcuni fiaschi di vino, una seconda partita, e così via, sino al santuario sulla cima.

Alcuni chilometri di salita sono niente per chi gioca a bocce, e forse è niente percorrerli in formazione, le armi sulla spalla, lo sguardo teso, in-spirando l'aria fresca della primavera. Ma bisogna provare a farli suonando, le gote gonfie, il sudore che cade a rivoli, il fiato che cede. La banda del comune non faceva altro da una vita, ma per i ragazzi dell'oratorio era stata una prova. Avevano retto da eroi, don Tico batteva la sua chiave nell'aria, i clarini guaivano esausti, i sassofoni belavano asfittici, il bombardino e le trombe lanciavano squilli di agonia, ma ce l'avevano fatta, sino al paese, sino ai piedi dell'erta che recava al cimitero. Datempo Annibale Cantalamessa e Pio Bo fingevano solo di suonare, ma Jacopo aveva sostenuto il suo ruolo di cane da pastore, sotto l'occhio benedicente di don Tico. A petto della banda comunale, non avevano sfigurato, e l'avevano detto anche Terzi e gli altri comandanti delle brigate: bravi ragazzi, è stata una cosa superba.

Un comandante col fazzoletto azzurro e un arcobaleno di nastrini di due guerre mondiali, aveva detto: "Reverendo, faccia riposare i ragazzi in paese, che non ne possono più. Salite dopo, alla fine. Ci sarà un camioncino che vi ricondurrà a ***."

Si erano precipitati nell'osteria, e quelli della banda comunale, vecchi arnesi fatti coriacei da infiniti funerali, senza alcun ritegno si erano buttati sui tavoli ordinando trippa e vino a volontà. Sarebbero rimasti a far bisboccia sino a sera. I ragazzi di don Tico invece si erano affollati al banco, dove il padrone stava servendo delle granite di menta, verdi come un esperimento chimico. Il ghiaccio colava di colpo in gola e faceva venir male al centro della fronte, come la sinusite.

Poi erano rimontati verso il cimitero, dove attendeva un furgoncino. Erano saliti vociando, ed erano ormai tutti assiepati, tutti in piedi, urtandosi con gli strumenti, quando era uscito dal cimitero il comandante di prima, e aveva detto: "Reverendo, per la cerimonia finale ci serve una tromba, sa, per gli squilli di rito. Cosa di cinque minuti."

"Tromba," aveva detto don Tico, professionale. E lo sciagurato titolare del privilegio, ormai sudato di granita verde e anelante al pasto familiare, infingardo campagnardo impermeabile a ogni fremito estetico e a ogni solidarietà d'idee, aveva cominciato a lamentarsi, che era tardi, che lui voleva tornare a casa, che non aveva più saliva, eccetera eccetera, mettendo nell'imbarazzo don Tíco, che si vergognava davanti al comandante.

E a quel punto Jacopo, intravedendo nella gloria del mezzogiorno l'immagine soave di Cecilia, aveva detto: "Se lui mi dà la tromba, vado io."

Luce di riconoscenza negli occhi di don Tico, sudato sollievo dello squallido trombettiere titolare. Scambio degli strumenti, come due sentinelle.

E Jacopo si era inoltrato nel cimitero, guidato dallo psicopompo coi nastrini di Addis Abeba. Tutto intorno era bianco, il muro battuto dal sole, le tombe, la fioritura degli alberi di cinta, la cotta del prevosto pronto a benedire, salvo il marrone fané delle foto sulle lapidi. E la gran macchia di colore data dai drappelli schierati davanti alle due fosse.

"Ragazzo," aveva detto il capo, "tu ti metti qui, di fianco a me, e al comando suoni l'attenti. Poi, al comando, il riposo. È facile, no?"

Facilissimo. Salvo che Jacopo non aveva mai suonato né l'attenti né il riposo.

Teneva la tromba col braccio destro piegato, contro le costole, la punta leggermente in basso, come si fa con una carabina, e aveva atteso, testa alta pancia in dentro e petto in fuori.

Terzi stava pronunciando un discorso asciutto, con frasi molto corte. Jacopo pensava che per emettere lo squillo avrebbe dovuto alzare gli occhi al cielo, e il sole lo avrebbe accecato. Ma così muore un trombettiere e visto che si muore una volta sola tanto valeva farlo bene.

Poi il comandante gli aveva sussurrato: "Ora." E aveva cominciato a gridare: "Aaa..." E Jacopo non sapeva come si suona un attenti.

La struttura melodica doveva essere ben più complessa, ma in quel momento era stato capace solo di suonare do-mi-sol-do, e a quei rudi uomini di guerra pareva bastare. Il do finale era stato intonato dopo aver ripreso fiato, in modo da tenerlo a lungo, per dargli il tempo — scriveva Belbo — di raggiungere il sole.

 

I partigiani erano rigidi sull'attenti. I vivi immobili come i morti.

 

Si stavano muovendo solo i becchini, si udiva il rumore delle bare che calavano nelle fosse, e lo srotolio delle corde ritirate su, mentre sfregavano contro il legno. Ma era un moto fievole, come il guizzare di un riflesso su di una sfera, dove quella lieve variazione di luce serve solo a dire che nello Sfero nulla scorre.

Quindi il rumore astratto di un presentat-arm. Il prevosto aveva mormorato le formule dell'aspersione, i comandanti si erano avvicinati alle fosse e avevano tirato ciascuno un pugno di terra. E a quel punto un ordine improvviso aveva scatenato una scarica verso il cielo, ta-ta-ta, tapum, con gli uccellini che si levavano schiamazzanti dagli alberi in fiore. Ma anche quello non era moto, era come se sempre lo stesso istante si presentasse sotto prospettive diverse, e guardare un istante per sempre non vuoi dire guardarlo mentre il tempo passa.

Per questo Jacopo era rimasto fermo, insensibile alla stessa caduta dei bossoli che gli rotolavano ai piedi, né aveva rimesso la tromba al fianco, ma la teneva ancora alla bocca, le dita sui tasti, rigido sull'attenti, lo strumento che puntava diagonale verso l'alto. Egli stava ancora suonando.

La sua lunghissima nota finale non si era mai interrotta: impercettibile agli astanti, usciva ancora dalla campana della tromba come un soffio leggero, un refolo d'aria che egli continuava a immettere nell'imboccatura tenendo la lingua tra le labbra appena appena aperte, senza premerle sulla ventosa d'ottone. Lo strumento si manteneva proteso senza appoggiarsi al viso, per pura tensione dei gomiti e delle spalle.

Jacopo continuava a emettere quella illusione di nota perché sentiva che in quel momento egli stava sgomitolando un filo che teneva il sole a freno. L'astro si era bloccato nel suo corso, si era fissato in un mezzogiorno che avrebbe potuto durare una eternità. E tutto dipendeva da Jacopo, bastava che egli avesse interrotto quel contatto, mollato il filo, e il sole sarebbe balzato via, come un palloncino, e con lui il giorno, e l'evento di quel giorno, quella azione senza fasi, quella sequenza senza prima e dopo, che si svolgeva immobile solo perché così era in suo potere di volere e di fare.

Se avesse smesso per soffiare l'attacco di una nuova nota, si sarebbe udito come uno strappo, ben più fragoroso delle raffiche che lo stavano assordando, e gli orologi si sarebbero rimessi a palpitare tachicardici.

Jacopo desiderava con tutta l'anima che quell'uomo accanto non comandasse il riposo — potrei rifiutarmi, si diceva, e rimarrebbe così per sempre, fai durare il fiato sin che puoi.

Credo fosse entrato in quello stato di stordimento e vertigine che coglie il tuffatore quando tenta di non riemergere e vuole prolungare l'inerzia che lo fa scivolare sul fondo. Tanto che, a cercar di esprimere quello che lui allora sentiva, le frasi del quaderno che leggevo ora si rompevano asintattiche, mutilate da puntini di sospensione, rachitiche di ellissi. Ma era chiaro che in quel momento — no, non diceva così, ma era chiaro: in quel momento egli stava possedendo Cecilia.

 

È che Jacopo Belbo allora non poteva aver capito — né capiva ancora mentre scriveva di se stesso inconsapevole — che egli stava celebrando una volta per tutte le sue nozze chimiche, con Cecilia, con Lorenza, con Sophia, con la terra e con il cielo. Unico forse tra i mortali egli stava portando finalmente a termine la Grande Opera.

Nessuno gli aveva detto ancora che il Graal è una coppa ma è anche una lancia, e la sua tromba levata a calice era al tempo stesso un'arma, uno strumento di dolcissimo dominio, che saettava verso il cielo e collegava la terra con il Polo Mistico. Con l'unico Punto Fermo che l'universo avesse mai avuto: con quello che egli faceva essere, per quell'istante solo, col suo soffio.

Diotallevi non gli aveva ancora detto che si può essere in Jesod, la sefirah del Fondamento, il segno dell'alleanza dell'arco superiore che si tende per inviare frecce alla misura di Malkut, che è il suo bersaglio. Jesod è la goccia che scaturisce dalla freccia per produrre l'albero e il frutto, è anima mundi perché è il momento in cui la forza virile, procreando, lega tra loro tutti gli stati dell'essere.

Saper filare questo Cingulum Veneris, significa riparare all'errore del Demiurgo.

 

Come si può passare una vita cercando l'Occasione, senza accorgersi che il momento decisivo, quello che giustifica la nascita e la morte, è già passato? Non ritorna, ma è stato, irreversibilmente, pieno, sfolgorante, generoso come ogni rivelazione.

Quel giorno Jacopo Belbo aveva fissato negli occhi la Verità. L'unica che gli sarebbe stata concessa, perché la verità che stava apprendendo è che la verità è brevissima (dopo, è solo commento). Per questo stava tentando di domare l'impazienza del tempo.

Non l'aveva capito allora, certamente. E neppure quando ne scriveva, o quando decideva di non scriverne più.

L'ho capito io questa sera: occorre che l'autore muoia perché il lettore si accorga della sua verità.

L'ossessione del Pendolo, che aveva accompagnato Jacopo Belbo per tutta la sua vita adulta, era stata – come gli indirizzi perduti del sogno – l'immagine di questo altro momento, registrato e poi rimosso, in cui egli aveva davvero toccato la volta del mondo. E questo, il momento in cui aveva gelato lo spazio e il tempo scoccando la sua freccia di Zenone, non era stato un segno, un sintomo, un'allusione, una figura, una segnatura, un enigma: era ciò che era e che non stava per niente altro, il momento in cui non c'è più rinvio, e i conti sono pari.

Jacopo Belbo non aveva capito che aveva avuto il suo momento e avrebbe dovuto bastargli per tutta la vita. Non l'aveva riconosciuto, aveva passato il resto dei suoi giorni a cercare altro, sino a dannarsi. O forse lo sospettava, altrimenti non sarebbe tornato così sovente sul ricordo della tromba. Ma la ricordava come perduta, e invece l'aveva avuta.

Credo, spero, prego che nell'istante in cui moriva oscillando col Pendolo, Jacopo Belbo questo abbia capito, e abbia trovato la pace.

 

Poi era stato comandato il riposo. Avrebbe ceduto in ogni caso, perché gli stava mancando il respiro. Aveva interrotto il contatto, poi aveva squillato una sola nota, alta e a intensità decrescente, teneramente, per abituare il mondo alla melanconia che lo stava attendendo.

Il comandante aveva detto: "Bravo giovinotto. Vai pure. Bella tromba."

Il prevosto era sgusciato via, i partigiani si erano avviati verso un cancello posteriore dove li attendevano i loro automezzi, i becchini se n'erano andati dopo aver colmato le fosse. Jacopo era uscito per ultimo. Non riusciva a lasciare quel luogo di felicità.

 

Sul piazzale il furgoncino dell'oratorio non c'era più.

Jacopo si era chiesto come mai, don Tico non lo avrebbe mai abbandonato così. A distanza di tempo, la risposta più probabile è che vi fosse stato un equivoco, che qualcuno avesse detto a don Tico che il ragazzo lo riconducevano a valle i partigiani. Ma Jacopo in quel momento aveva pensato – e non senza ragione – che tra l'attenti e il riposo fossero passati troppi secoli, i ragazzi avessero atteso sino alla canizie, alla morte, e le loro polveri si fossero disperse a formar quella lieve foschia che ormai stava azzurrando la distesa delle colline davanti ai suoi occhi.

Jacopo era solo. Alle spalle un cimitero ormai vuoto, tra le mani la tromba, davanti le colline che sfumavano sempre più turchine l'una dietro l'altra verso la cotognata dell'infinito e, vendicativo sul suo capo, il sole in libertà.

Aveva deciso di piangere.

 

Ma di colpo era apparso il carro funebre col suo automedonte addobbato come un generale dell'imperatore, tutto crema nero e argento, i cavalli bardati da maschere barbariche che lasciavano scoperti solo gli occhi, ingualdrappati come feretri, le colonnine tortili che sostenevano il timpano assiro-greco-egizio, tutto bianco e oro. L'uomo dalla feluca aveva sostato un attimo davanti a quel trombettiere solitario e Jacopo gli aveva chiesto: "Che mi riporta a casa?"

L'uomo era benigno. Jacopo era salito a cassetta accanto a lui, e sul carro dei morti era iniziato il ritorno verso il mondo dei vivi. Quel Caronte fuori servizio spronava taciturno i suoi corsieri funebri lungo le balze, Jacopo ritto e ieratico, con la tromba stretta sotto il braccio, la visiera lucida, compreso del suo nuovo ruolo, insperato.

Avevano disceso le colline, a ogni tornante si apriva una nuova distesa di viti azzurre di verderame, sempre in una luce che abbacinava, e dopo un tempo incalcolabile erano approdati a ***. Avevano attraversato la gran piazza tutta portici, deserta come solo possono esser deserte le piazze monferrine alle due di un pomeriggio domenicale. Un compagno di scuola all'angolo della piazza grande aveva scorto Jacopo sul carro, la tromba sotto il braccio, l'occhio fisso nell'infinito, e gli aveva fatto un cenno di ammirazione.

Jacopo era rientrato, non aveva voluto mangiare, né raccontare nulla. Si era accucciato in terrazzo, e si era messo a suonare la tromba come se avesse la sordina, soffiando piano per non turbare il silenzio di quella siesta.

Suo padre lo aveva raggiunto e senza cattiveria, con la serenità di chi conosce le leggi della vita, gli aveva detto: "Tra un mese, se tutto va come deve andare, si torna a casa. Non puoi pensare di suonare la tromba in città. Il padrone di casa ci caccerebbe via. Quindi incomincia a scordar-tela. Se proprio hai tendenza alla musica, ti faremo dare lezioni di piano." E poi, vedendolo con gli occhi lucidi: "Su scrocchino. Ti rendi conto che sono finiti i giorni brutti?"


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 41 | Нарушение авторских прав



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