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Il pendolo di Foucault 24 страница

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"Ferma là," disse Belbo. "Non c'è nulla da vedere. Neppure io ci guardo più. E in ogni caso dopo morto verrò a bruciare tutto."

"Questo dev'essere un posto di fantasmi, spero," disse Lorenza.

"Ora sì. Ai tempi di zio Carlo no, era molto allegro. Era georgico. Ora ci vengo proprio perché è bucolico. E bello lavorare la sera mentre i cani abbaiano a valle."

Ci fece vedere le camere dove avremmo dormito: a me, a Diotallevi e a Lorenza. Lorenza guardò la stanza, toccò il vecchio letto con una gran coperta bianca, annusò le lenzuola, disse che sembrava di essere in un racconto della nonna perché odoravano di spigo, Belbo osservò che non era vero, era solo odor di umido, Lorenza disse che non importava e poi, appoggiandosi al muro, spingendo leggermente le anche e il pube in avanti, come se dovesse sconfiggere il flipper, chiese: "Ma io dormo qui da sola?"

Belbo guardò da un'altra parte, da quella parte c'eravamo noi, guardò da un'altra parte ancora, poi si avviò nel corridoio e disse: "Ne riparleremo. In ogni caso lì hai un rifugio tutto per te." Diotallevi e io ci allontanammo, e sentimmo Lorenza che gli chiedeva se si vergognava di lei. Lui osservava che se non le avesse dato la stanza sarebbe stata lei a chiedere dove lui credesse che lei avrebbe dormito. "Ho fatto io la prima mossa, così non hai scelta," diceva. "L'astuto afgano!" diceva lei, "e io allora dormo nella mia cameretta." "Va bene, va bene," diceva Belbo irritato, "ma quelli sono qui per lavorare, andiamo in terrazza."

 

E così lavorammo su una grande terrazza, su cui era sistemata una pergola, davanti a bibite fresche e molto caffè. Alcool bandito sino a sera.

Dalla terrazza si vedeva il Bricco, e sotto la collinetta del Bricco una grande costruzione disadorna, con un cortile e un campo di calcio. Il tutto abitato da figurine variopinte, bambini, mi parve. Belbo vi accennò una prima volta: "È l'oratorio salesiano. E lì che don Tico mi ha insegnato a suonare. In banda."

Mi ricordai della tromba che Belbo si era negato, quella volta dopo il sogno. Chiesi: "La tromba o il clarino?"

Ebbe un attimo di panico: "Come fa a... Ah, è vero, le avevo raccontato il sogno e la tromba. No, don Tico mi ha insegnato a suonare la tromba, ma in banda suonavo il genis."

"Cos'è il genis?"

"Vecchie storie di ragazzi. Adesso lavoriamo."

 

Ma mentre lavoravamo vidi che gettava l'occhio sovente verso l'oratorio. Ebbi l'impressione che, per poterlo guardare, ci parlasse d'altro. A tratti interrompeva la discussione: "Qui sotto c'è stata una delle più furibonde sparatorie di fine guerra. Qui a *** si era stabilito come un accordo tra fascisti e partigiani. D'estate, per due anni, i partigiani avevano occupato la città, e i fascisti non venivano a disturbare. I fascisti non erano di queste parti, i partigiani erano tutti ragazzi del luogo. In caso di scontro sapevano come muoversi tra i filari di granturco, i boschetti, le siepi. I fascisti si arroccavano in città, e partivano solo per i rastrellamenti. D'inverno era più difficile per i partigiani stare in pianura, non ti potevi nascondere, ti si scorgeva da lontano nella neve e con una mitragliatrice ti beccavano anche a un chilometro. Allora i partigiani salivano sulle colline più alte. E lì di nuovo erano loro a conoscere i passi, gli anfratti, i rifugi. E i fascisti venivano a controllare la pianura. Ma quella primavera eravamo alla vigilia della liberazione. Qui c'erano ancora i fascisti, ma non si fidavano, credo, a ritornare in città, perché subodoravano che il colpo finale sarebbe stato vibrato laggiù, come avvenne poi verso il venticinque aprile. Credo fossero intercorsi degli accordi, i partigiani aspettavano, non volevano lo scontro, ormai si sentivano sicuri che presto sarebbe avvenuto qualcosa, di notte Radio Londra dava notizie sempre più confortanti, si infittivano i messaggi speciali per la Franchi, domani pioverà ancora, zio Pietro ha portato il pane, o cose del genere, forse tu Diotallevi li hai sentiti... Insomma, dev'esserci stato un malinteso, i partigiani sono scesi quando i fascisti non si erano ancora mossi, fatto sta che un giorno mia sorella era qui in terrazza e venne dentro a dire che c'erano due che giocavano a rincorrersi con il mitra. Non ci siamo stupiti, erano ragazzi, gli uni e gli altri, che ingannavano la noia giocando con le armi; una volta per scherzo due hanno sparato davvero e la pallottola è andata a piantarsi nel tronco di un albero del viale dov'era appoggiata mia sorella. Lei non se n'era neppure accorta, ce lo han detto i vicini, e da allora le era stato insegnato che quando vedeva due giocare col mitra doveva andare via. Stanno giocando di nuovo, ha detto rientrando, per mostrare che ubbidiva. E a quel punto abbiamo udito la prima raffica. Solo che è stata seguita da una seconda, da una terza, poi le raffiche erano molte, si sentivano i colpi secchi dei moschetti, il ta-ta-ta dei mitra, qualche colpo più sordo, forse bombe a mano, e infine la mitragliatrice. Abbiamo capito che non giocavano più. Ma non abbiamo fatto in tempo a discuterne perché ormai non sentivamo più le nostre voci. Pim pum bang ratatatà. Ci siamo acquattati sotto il lavandino, io mia sorella e la mamma. Poi è arrivato zio Carlo, carponi lungo il corridoio, a dire che dalla nostra parte eravamo troppo esposti, di andare da loro. Ci siamo spostati nell'altra ala, dove zia Caterina piangeva perché la nonna era fuori..."

"E quando la nonna si è trovata a faccia in giù in un campo, in mezzo a due fuochi..."

"E questo come lo sa?"

"Me lo ha raccontato nel settantatré, quel giorno dopo il corteo."

"Dio che memoria. Con lei bisogna stare attenti a quel che si dice.... Sì. Ma era fuori anche mio padre. Come abbiamo saputo dopo, era in centro, si era riparato in un portone, e non poteva uscire perché facevano a tirassegno da un capo all'altro della strada, e dalla torre del municipio un manipolo di Brigate Nere stava spazzando la piazza con la mitragliatrice. C'era sotto il portone anche l'ex podestà fascista della città. A un certo punto ha detto che ce la faceva a correre a casa, non aveva che da svoltare l'angolo. Ha atteso un momento di silenzio, si è buttato fuori del portone, ha raggiunto l'angolo ed è stato falciato alla schiena dalla mitragliatrice del municipio. La reazione emotiva di mio padre, che si era già fatto anche la prima guerra mondiale, è stata: è meglio rimanere nel portone."

"È un luogo pieno di ricordi dolcissimi, questo," osservò Diotallevi. "Non ci crederai," disse Belbo, "ma sono dolcissimi. E sono l'unica cosa vera che ricordo."

Gli altri non capirono, io intuii — e ora so. Specie in quei mesi, in cui stava navigando nella menzogna dei diabolici, e dopo anni che aveva fasciato la sua disillusione di menzogne romanzesche, i giorni di *** gli apparivano alla memoria come un mondo in cui una pallottola è una pallottola, o ti scansi o la prendi, e le due parti si stagliavano una di fronte all'altra, contrassegnate dai loro colori, il rosso e il nero, o il cachi e il grigioverde, senza equivoci — o almeno allora gli pareva. Un morto era un morto era un morto era un morto. Non come il colonnello Ardenti, viscidamente scomparso. Pensai che forse dovevo raccontargli della sinarchia, che già strisciava in quegli anni. Non era stato forse sinarchico l'incontro tra zio Carlo e Terzi, entrambi mossi su opposti fronti dallo stesso ideale cavalleresco? Ma perché dovevo togliere a Belbo la sua Combray? I ricordi erano dolci perché gli parlavano dell'unica verità che aveva conosciuto, e solo dopo era iniziato il dubbio. Salvo che, me lo aveva lasciato capire, persino nei giorni della verità egli era rimasto a guardare. Guardava nel ricordo il tempo in cui guardava il nascere della memoria altrui, della Storia, e di tante storie che non sarebbe stato lui a scrivere.

O c'era stato un momento di gloria e di scelta? Perché disse: "E poi quel giorno feci l'atto di eroismo della mia vita."

"Il mio John Wayne," disse Lorenza. "Dimmi."

"Oh nulla. Dopo aver strisciato dagli zii, io mi ostinavo a stare in piedi in corridoio. La finestra era in fondo, eravamo al primo piano, nessuno mi può colpire, dicevo. E mi sentivo come il capitano che sta ritto in mezzo al quadrato, mentre gli fischiano intorno le pallottole. Poi zio Carlo si è arrabbiato, mi ha tirato dentro in malo modo, io stavo per mettermi a piangere perché finiva il divertimento, e in quell'attimo abbiamo sentito tre colpi, vetri infranti e una specie di rimbalzo, come se qualcuno giocasse in corridoio con una palla da tennis. Una pallottola era entrata dalla finestra, aveva battuto contro un tubo dell'acqua ed era rimbalzata andando a conficcarsi in basso, proprio nel punto dove stavo io prima. Se ero ancora fuori in piedi, mi avrebbe azzoppato. Forse."

"Dio mio, non ti avrei voluto zoppo," disse Lorenza.

"Magari oggi ne sarei contento," disse Belbo. Infatti, anche in quel caso non aveva scelto. Si era fatto tirare dentro dallo zio.

 

Dopo un'oretta si distrasse di nuovo. "Poi a un certo punto è arrivato di sopra Adelino Canepa. Diceva che saremmo stati tutti più sicuri in cantina. Lui e lo zio non si parlavano da anni, ve l'ho raccontato. Ma nel momento della tragedia Adelino era ritornato un essere umano, e lo zio gli ha persino stretto la mano. Così abbiamo passato un'ora al buio fra i tini, dentro l'odore del mosto che dava un poco alla testa, fuori gli spari. Poi le raffiche sono scemate, i colpi ci arrivavano più attutiti. Abbiamo capito che qualcuno si ritirava e non sapevamo ancora chi. Sino a che da una finestrella sopra le nostre teste, che dava in un viottolo, abbiamo sentito una voce, in dialetto: ‘Monssu, i'è d'la repubblica bele si?’"

"Cosa significa?" chiese Lorenza.

"A un dipresso: gentleman, vorrebbe essere così cortese da informarmi se vi sono ancora nei paraggi adepti della Repubblica Sociale Italiana? A quei tempi repubblica era una brutta parola. Era un partigiano che interpellava un passante, o qualcuno alla finestra, e quindi il viottolo era ridivenuto praticabile, e i fascisti se n'erano andati. Si stava facendo buio. Dopo un poco sono arrivati sia il papà che la nonna, a raccontare ciascuno la sua avventura. La mamma e la zia hanno preparato qualcosa da mangiare, mentre lo zio e Adelino Canepa si stavano cerimoniosamente ritogliendo il saluto. Per tutto il resto della sera abbiamo udito raffiche lontane, verso le colline. I partigiani braccavano i fuggiaschi. Avevamo vinto."

Lorenza lo baciò sui capelli e Belbo fece un sogghigno col naso. Sapeva di aver vinto per interposta brigata. In realtà aveva assistito a un film. Ma per un momento, rischiando la pallottola di rimbalzo, era entrato nel film. Appena appena di corsa, come in Hellzapoppin', quando si confondono le pellicole e un indiano arriva a cavallo nel corso di una festa da ballo e chiede dove sono andati, qualcuno gli dice "di là", e quello scompare in un'altra storia.
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Prese a suonare la sua splendida tromba con tale forza che l'intera montagna ne risuonò.

(Johann Valentin Andreae, Die Chymische Hochzeit des Christian Rosencreutz, Strassburg, Zetzner, 1616, 1, p. 4)

 

Eravamo al capitolo sulle meraviglie dei condotti idraulici, e in un'incisione cinquecentesca dagli Spiritalia di Erone si vedeva una specie di altare con sopra un automa che — in virtù di un marchingegno a vapore — suonava una tromba.

Riportai Belbo ai suoi ricordi: "Ma allora com'era la storia di quel don Ticho Brahe o come si chiamava, che le ha insegnato la tromba?"

"Don Tico. Non ho mai saputo se fosse un soprannome o il suo cognome. Non sono più tornato all'oratorio. Ci ero capitato per caso: la messa, il catechismo, tanti giochi, e si vinceva un'immaginetta del Beato Domenico Savio, quell'adolescente con i pantaloni spiegazzati di panno ruvido, che nelle statue sta sempre attaccato alla sottana di don Bosco, con gli occhi al cielo, per non sentire i compagni che raccontano le barzellette oscene. Scoprii che don Tico aveva messo insieme una banda musicale, tutta di ragazzi tra i dieci e i quattordici anni. I più piccoli suona-vano clarini, ottavini, sassofoni soprani, i più grandi sopportavano il bombardino e la grancassa. Erano in divisa, giubbotto cachi e pantaloni blu, con berretto a visiera. Un sogno, e volli essere dei loro. Don Tico disse che gli serviva un genis."

Ci squadrò con superiorità e recitò: "Genis nel gergo bandistico è una specie di tromboncino piccolo che in realtà si chiama flicorno contralto in mi bemolle. È lo strumento più stupido di tutta la banda. Fa umpaumpa-umpa-umpap quando la marcia è in levare, e dopo il parapapà-papa-pa-paaa passa in battere e fa pa-pa-pa-pa-pa... Però s'impara facilmente, appartiene alla famiglia degli ottoni come la tromba e la sua meccanica non è diversa da quella della tromba. La tromba richiede più fiato e una buona imboccatura — sapete, quella specie di callo circolare che si forma sulle labbra, come Armstrong. Con una buona imboccatura risparmi il fiato e il suono esce limpido e pulito, senza che si senta il soffio — d'altra parte non si debbono gonfiare le gote, guai, accade solo nella finzione e nelle caricature."

"Ma la tromba?"

"La tromba la imparavo da solo, in quei pomeriggi d'estate in cui in oratorio non c'era nessuno, e io mi nascondevo nella platea del teatrino... Ma studiavo la tromba per ragioni erotiche. Vedete quella villetta laggiù, a un chilometro dall'oratorio? Lì abitava Cecilia, figlia della benefattrice dei salesiani. Così ogni volta che la banda si esibiva, nelle feste comandate, dopo la processione, nel cortile dell'oratorio e soprattutto in teatro, prima delle recite della filodrammatica, Cecilia con la mamma era sempre in prima fila al posto d'onore, vicino al prevosto della cattedrale. E in quei casi la banda iniziava con una marcia che si chiamava Buon Principio, e la marcia era aperta dalle trombe, le trombe in si bemolle, d'oro e d'argento, ben lucidate per l'occasione. Le trombe si alzavano in piedi e face-vano un assolo. Poi si sedevano e la banda attaccava. Suonare la tromba era l'unico modo per farmi notare da Cecilia."

"Altrimenti?" chiese Lorenza intenerita.

"Non c'era altrimenti. Primo, io avevo tredici anni e lei tredici e mezzo, e una ragazza a tredici e mezzo è una donna, e un ragazzo unmoccioso. E poi amava unsassofono contralto, un tal Papi, orrido e spelacchiato, a me pareva, e aveva sguardi solo per lui, che belava lascivo, perché il sassofono, quando non è quello di Ornette Coleman e suona in banda — ed è suonato dall'orrido Papi — è (o pareva a me allora) uno strumento caprino e vulvare, ha la voce, come dire, di un'indossatrice che si è messa a bere e a far marchette..."

"Come fanno le indossatrici che fan marchette? Cosa ne sai tu?"

"Insomma, Cecilia non sapeva neppure che io esistessi. Certo, mentre scarpinavo la sera in collina per andare a prendere il latte in una cascina a monte, mi inventavo storie splendide, con lei rapita dalle Brigate Nere e io che correvo a salvarla, mentre le pallottole mi fischiavano intorno alla testa e facevano ciacc ciacc cadendo nelle stoppie, le rivelavo quello che lei non poteva sapere, che sotto mentite spoglie dirigevo la resistenza in tutto il Monferrato, e lei mi confessava che l'aveva sempre sperato, e a quel punto mi vergognavo, perché sentivo come una colata di miele nelle vene — vi giuro, non mi si inumidiva neppure il prepuzio, era un'altra cosa, ben più terribile e grandiosa — e tornato a casa andavo a confessarmi... Credo che il peccato, l'amore e la gloria siano quello, quando tu ti cali con le lenzuola intrecciate dalla finestra di Villa Triste, lei che ti stringe al collo, sospesa nel vuoto, e ti sussurra che aveva sempre sognato di te. Il resto è solo sesso, copula, perpetuazione della semenza infame. Ma insomma, se fossi passato alla tromba Cecilia non avrebbe potuto ignorarmi, io in piedi, sfavillante, e il miserabile sassofono seduto. La tromba è guerresca, angelica, apocalittica, vittoriosa, suona la carica, il sassofono fa ballare bulletti di periferia coi capelli unti di brillantina, guancia a guancia con ragazze sudate. E io studiavo la tromba, come un pazzo, sino a che non mi sono presentato a don Tico e gli ho detto mi ascolti, ed ero come Oscar Levant quando fa il primo provino a Broadway con Gene Kelly. E don Tico disse: tu sei una tromba. Ma..."

"Com'è drammatico," disse Lorenza, "racconta, non farci stare col fiato in sospeso."

"Ma dovevo trovare qualcuno che mi sostituisse al genis. Arrangiati, aveva detto don Tico. E io mi sono arrangiato. Dovete dunque sapere, o bambini miei, che in quei tempi vivevano a *** due miserabili, miei compagni di classe benché avessero due anni più di me, e questo molto vi dice sulla loro attitudine all'apprendimento. Questi due bruti si chiamavano Annibale Cantalamessa e Pio Bo. Uno: storico."

"Cosa cosa?" chiese Lorenza.

Spiegai, complice: "Quando Salgari riferisce un fatto vero (o che lui credeva vero) — diciamo che Toro Seduto dopo Little Big Horn mangia il cuore del generale Custer — alla fine del racconto mette una nota a piè di pagina che dice: 1. Storico."

"Ecco. Ed è storico che Annibale Cantalamessa e Pio Bo si chiamassero così, né era il loro lato peggiore. Erano infingardi, ladri di fumetti al chiosco dei giornali, rubavano i bossoli a chi ne aveva una bella collezione e appoggiavano il panino col salame sul libro d'avventure di terra e di mare che gli avevi appena prestato dopo che te l'avevano regalato per Natale. Il Cantalamessa si diceva comunista, il Bo fascista, erano entrambi disposti a vendersi all'avversario per una fionda, raccontavano storie di argomento sessuale, con imprecise cognizioni anatomiche, e facevano a gara a chi si era masturbato più a lungo la sera prima. Erano individui pronti a tutto, perché non al genis? Così ho deciso di sedurli. Gli magnificavo la divisa dei suonatori, li portavo alle pubbliche esecuzioni, gli facevo intravedere successi amatori con le Figlie di Maria... Caddero nella pania. Passavo le giornate nel teatrino, con una lunga canna, come avevo visto nelle illustrazioni degli opuscoli sui missionari, gli davo bacchettate sulle dita quando sbagliavano nota — il genis ha solo tre tasti, si muovono l'indice, il medio e l'anulare, ma per il resto è questione di imboccatura, l'ho detto. Non vi attedierò più oltre, miei piccoli ascoltatori: venne il giorno che potei presentare a don Tico due genis, non dirò perfetti ma, almeno alla prima prova, preparata lungo pomeriggi insonni, accettabili. Don Tico si era convinto, li aveva rivestiti della divisa, e mi aveva passato alla tromba. E nel giro di una settimana, alla festa di Maria Ausiliatrice, all'apertura della stagione teatrale con Il piccolo parigino, asipario chiuso, davanti alle autorità, io ero in piedi, a suonare l'inizio di Buon Principio."

"Oh splendore," disse Lorenza, con il viso ostentatamente soffuso di tenera gelosia. " E Cecilia?"

"Non c'era. Forse era malata. Che so? Non c'era."

Levò lo sguardo circolarmente sulla platea, perché a quel punto si sentiva bardo — o giullare. Calcolò la pausa. "Due giorni dopo don Tico mi mandava a chiamare e mi spiegava che Annibale Cantalamessa e Pio Bo avevano rovinato la serata. Non tenevano il tempo, si distraevano nelle pause lanciandosi frizzi e lazzi, non attaccavano al momento giusto. ‘Il genis,’ mi disse don Tico, ‘è l'ossatura della banda, ne è la coscienza ritmica, l'anima. La banda è come un gregge, gli strumenti sono le pecore, il maestro è il pastore, ma il genis è il cane fedele e ringhioso che tiene al passo le pecorelle. Il maestro guarda anzitutto al genis, e se il genis lo segue, le pecorelle lo seguiranno. Jacopo mio ti debbo chiedere un grande sacrificio, ma tu devi tornare al genis, insieme a quei due. Tu hai senso del ritmo, tu me li devi tenere al passo. Ti giuro, appena diventeranno autonomi ti rimetto alla tromba.’ Dovevo tutto a don Tico. Ho detto di sì. E alla festa seguente le trombe si sono ancora alzate in piedi e hanno suonato l'attacco di Buon Principio davanti a Cecilia, di nuovo in prima fila. Io stavo nel buio, genis tra i genis. Quanto ai due miserabili, non sono mai divenuti autonomi. Io non sono più tornato alla tromba. La guerra è finita, sono rientrato in città, ho abbandonato gli ottoni, e di Cecilia non ho mai saputo neppure il cognome."

"Povera stella," disse Lorenza abbracciandolo alle spalle. "Ma ti rimango io."

"Credevo ti piacessero i sassofoni," disse Belbo. Poi le baciò la mano, girando appena il capo. Ridivenne serio. "Al lavoro," disse. "Dobbiamo fare una storia del futuro, non una cronaca del tempo perduto."

 

A sera molto si celebrò la caduta del bando antialcolico. Jacopo sembrava aver dimenticato i suoi umori elegiaci, e si misurò con Diotallevi. Immaginarono macchine assurde, per scoprire a ogni passo che erano già state inventate. A mezzanotte, dopo una giornata piena, tutti decisero che occorreva sperimentare cosa si prova a dormire sulle colline.

Mi misi a letto nella vecchia stanza, con le lenzuola più umide di quanto non fossero nel pomeriggio. Jacopo aveva insistito perché vi mettessimo di buonora il prete, quella sorta di intelaiatura ovale che tiene le coperte sollevate, e su cui si posa uno scaldino con la brace — ed era probabilmente per farci assaporare tutti i piaceri della vita in villa. Ma quando l'umidità è latente, il prete la porta allo scoperto, si sente un tepore delizioso ma la tela sembra bagnata. Pazienza. Accesi un abat-jour di quelli con le frange, dove le effimere battono le ali prima di morire, come vuole il poeta. E cercai di prender sonno leggendo il giornale.

Ma per circa un'ora o due udii dei passi nel corridoio, un aprirsi e chiudersi di usci, l'ultima volta (l'ultima che udii) una porta sbatté con violenza. Lorenza Pellegrini stava mettendo i nervi di Belbo alla prova.

Stavo già prendendo sonno quando udii grattare alla mia, di porta. Non si capiva se fosse un animale (ma non avevo visto né cani né gatti), ed ebbi l'impressione che fosse un invito, una richiesta, un'esca. Forse Lorenza lo stava facendo perché sapeva che Belbo la osservava. Forse no. Avevo sino ad allora considerato Lorenza come proprietà di Belbo — almeno nei miei confronti — e poi da quando ero con Lia ero diventato insensibile ad altri fascini. Gli sguardi maliziosi, spesso di intesa, che Lorenza mi lanciava talora in ufficio o al bar, quando prendeva in giro Belbo, come per cercare un alleato o un testimonio, facevano parte — avevo sempre pensato — di un gioco di società — e poi Lorenza Pellegrini aveva la virtù di guardare chiunque con l'aria di voler sfidare le sue capacità amatorie — ma in un modo curioso, come se suggerisse "ti voglio, ma per mostrarti che hai paura"... Quella sera, sentendo quel raspio, quello strisciare di unghie contro la vernice del battente, provai una sensazione diversa: mi resi conto che desideravo Lorenza.

Misi il capo sotto il cuscino e pensai a Lia. Voglio fare un figlio con Lia, mi dissi. E a lui (o a lei) farò suonare subito la tromba, appena saprà soffiare.
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Su ogni terzo albero, da entrambi i lati, era stata appesa una lanterna, e una splendida vergine, anch'ella vestita di blu, le accese con una torcia meravigliosa e io mi attardai, più del necessario, per ammirare lo spettacolo che era di una bellezza indicibile.

(Johann Valentin Andreae, Die Chymische Hochzeit des Christian Rosencreutz, Strassburg, Zetzner, 1616, 2, p. 21)

 

Verso mezzogiorno Lorenza ci raggiunse sul terrazzo, sorridente, e annunciò che aveva trovato uno splendido treno che passava da *** alle dodici e mezzo e con una sola coincidenza l'avrebbe riportata a Milano nel pomeriggio. Chiese se l'accompagnavamo alla stazione.

Belbo continuò a sfogliare degli appunti e disse: "Mi pareva che Agliè stesse aspettando anche te, mi pareva anzi che avesse organizzato l'intera spedizione solo per te."

"Peggio per lui," disse Lorenza. "Chi mi accompagna?"

Belbo si alzò e ci disse: "Faccio in un attimo e torno. Poi possiamo restare qui ancora due orette. Lorenza, avevi una borsa?"

Non so se si dissero altro nel tragitto verso la stazione. Belbo tornò in una ventina di minuti e riprese a lavorare senza accennare all'incidente.

 

Alle due trovammo un confortevole ristorante sulla piazza del mercato, e la scelta dei cibi e dei vini permise a Belbo di rievocare altri eventi della sua infanzia. Ma parlava come se citasse da una biografia altrui. Aveva perduto la felicità narrativa del giorno prima. A metà pomeriggio ci avviammo per ricongiungerci con Aglíè e Garamond.

 

Belbo guidava verso sudovest, mentre il paesaggio mutava a poco a poco di chilometro in chilometro. I colli di ***, anche ad autunno avanzato, erano minuti e dolci; ora invece, man mano che procedevamo, l'orizzonte si faceva più vasto, benché a ogni curva aumentassero i picchi, su cui si arroccava qualche villaggio. Ma tra picco e picco si aprivano orizzonti interminati — al di là della siepe, come osservava Diotallevi, verbalizzando giudiziosamente le nostre scoperte. Così mentre salivamo in terza si scorgevano a ogni tornante vaste distese dal profilo ondulato e continuo, che al limite del pianoro già sfumava in una foschia quasi invernale. Pareva una pianura modulata da dune, ed era mezza montagna. Come se la mano di un demiurgo inabile avesse pressato cime che gli erano parse eccessive, trasformandole in una cotognata gibbosa senza soste, sino al mare, chissà, o sino ai pendii di catene più aspre e decise.

Arrivammo al villaggio dove, al bar della piazza centrale, avevamo appuntamento con Agliè e Garamond. Alla notizia che Lorenza non era con noi Agliè, se pure ne fu contrariato, non lo dette a vedere. "La nostra squisita amica non vuole partecipare con altri i misteri che la definiscono. Singolare pudore, che apprezzo," disse. E fu tutto.

Procedemmo, in testa la Mercedes di Garamond e in coda la Renault di Belbo, per valli e colline, sino a che, mentre la luce del sole stava scemando, arrivammo in vista di una strana costruzione inerpicata su un colle, una sorta di castello settecentesco, giallo, da cui si dipartivano, così mi parve da lontano, delle terrazze fiorite e alberate, rigogliose nonostante la stagione.

Come arrivammo ai piedi dell'erta, ci trovammo su uno spiazzo dove erano parcheggiate molte macchine. "Qui ci si ferma," disse Agliè, "e si prosegue a piedi."

Il crepuscolo stava ormai diventando notte. La salita ci appariva nella luce di una moltitudine di fiaccole, accese lungo le pendici.

 

È curioso, ma di tutto quel che avvenne, da quel momento sino a notte tarda, ho ricordi insieme limpidi e confusi. Rievocavo l'altra sera nel periscopio e avvertivo un'aria di famiglia tra le due esperienze. Ecco, mi dicevo, ora sei qui, in una situazione innaturale, stordito da un impercettibile tanfo di legni vecchi, sospettando di essere in una tomba, o nel ventre di un vaso ove si stia compiendo una trasformazione. Se solo sporgessi la testa oltre la cabina vedresti nella penombra oggetti, che oggi ti apparivano immobili, agitarsi come ombre eleusine tra i vapori di un incantamento. E così era stata la sera al castello: le luci, le sorprese del percorso, le parole che udivo, e più tardi certamente gli incensi, tutto cospirava a farmi credere di sognare un sogno, ma in forma anomala, così come si è prossimi al risveglio quando si sogna di sognare.


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 38 | Нарушение авторских прав



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