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Il pendolo di Foucault 22 страница

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Entrò Lorenza Pellegrini. Belbo guardò il soffitto e chiese un ultimo martini. C'era tensione nell'aria e accennai ad alzarmi. Lorenza mi trattenne. "No, venite tutti con me, stasera si apre la nuova mostra di Riccardo, inaugura un nuovo stile! E grande, tu Jacopo lo conosci."

Sapevo chi era Riccardo, girava sempre da Pilade, ma allora non capii perché Belbo si concentrò con maggior impegno sul soffitto. Dopo aver letto i files so che Riccardo era l'uomo con la cicatrice, con cui Belbo non aveva avuto il coraggio di ingaggiar rissa.

Lorenza insisteva, la galleria non era lontano da Pilade, avevano organizzato una festa vera e propria, anzi un'orgia. Diotallevi ne fu sconvolto e disse subito che doveva rientrare, io ero incerto, ma era evidente che Lorenza voleva anche me, e anche questo faceva soffrire Belbo, che ve-deva allontanarsi il momento del dialogo a tu per tu. Ma non potei sottrarmi all'invito e ci avviammo.

Io non amavo molto quel Riccardo. All'inizio degli anni sessanta produceva quadri molto noiosi, tessiture minute di neri e di grigi, molto geometriche, un poco optical, che facevano ballare gli occhi. Erano intitolati Composizione 15, Parallasse 17, Euclide X. Appena iniziato il sessantotto esponeva nelle case occupate, aveva di poco cambiato la tavolozza, ora erano solo contrasti violenti di neri e bianchi, la maglia era più grande, e i titoli suonavano Ce n'est qu'un debut, Molotov, Cento fiori. Quando ero tornato a Milano lo avevo visto esporre in un circolo dove si adorava il dottor Wagner, aveva eliminato i neri, lavorava su strutture bianche, dove i contrasti erano dati solo dai rilievi del tracciato su una carta Fabriano porosa, in modo che i quadri, spiegava, rivelassero profili diversi a seconda dell'incidenza della luce. Si intitolavano Elogio dell'ambiguità, A/Traverso, Ça, Bergstrasse e Denegazione 15.

Quella sera, non appena entrati nella nuova galleria, capii che la poetica di Riccardo aveva subito una profonda evoluzione. L'esposizione si intitolava Megale Apophasis. Riccardo era passato al figurativo, con una tavolozza smagliante. Giocava di citazioni, e poiché non credo sapesse disegnare, immagino lavorasse proiettando sulla tela la diapositiva di un quadro celebre – le scelte si aggiravano tra pompiers fine secolo e simbolisti del primo Novecento. Sul tracciato originale lavorava con una tecnica puntinata, attraverso gradazioni infinitesimali di colore, percorrendo punto a punto tutto lo spettro, in modo da iniziare sempre da un nucleo molto luminoso e fiammeggiante e finire sul nero assoluto – o viceversa, a seconda del concetto mistico o cosmologico che voleva esprimere. C'erano montagne che emanavano raggi di luce, scomposti in un pulviscolo di sfere dai colori tenui, si intravedevano cieli concentrici con accenni di angeli dalle ali trasparenti, qualcosa di simile al Paradiso del Doré. I titoli erano Beatrix, Mystica Rosa, Dante Gabriele 33, Fedeli d'Amore, Atanòr, Homunculus 666 — ecco da dove viene la passione di Lorenza per gli omuncoli, mi dissi. Il quadro più grande si intitolava Sophia, e rappresentava una specie di colata di angeli neri che sfumava alla base generando una creatura bianca accarezzata da grandi mani livide, ricalcate su quella che si vede ritta contro il cielo in Guernica. La commistione era dubbia, e da vicino l'esecuzione risultava rozza, ma da due o tre metri l'effetto era molto lirico.

"Io sono un realista vecchio stampo," mi sussurrò Belbo, "capisco solo Mondrian. Che cosa rappresenta un quadro non geometrico?"

"Prima lui era geometrico," dissi.

"Quella non era geometria. Era piastrellatura per bagni."

Frattanto Lorenza era corsa ad abbracciare Riccardo, lui e Belbo si erano scambiati un cenno di saluto. C'era ressa, la galleria si presentava come un loft di New York, tutto bianco, e con i tubi del riscaldamento, o dell'acqua, a nudo sul soffitto. Chissà quanto avevano speso a retrodatarla così. In un angolo un sistema di amplificazione stordiva gli astanti con musiche orientali, cose col sitar, se ben ricordo, di quelle che non riconosci la melodia. Tutti passavano distratti davanti ai quadri per affollarsi ai tavoli sul fondo, e afferrare bicchieri di carta. Eravamo arrivati a serata inoltrata, l'atmosfera era densa di fumo, qualche ragazza ogni tanto accennava a movenze di danza al centro della sala, ma tutti erano ancora occupati a conversare, e a consumare il buffet, invero assai ricco. Mi sedetti su un divano ai cui piedi giaceva una grande coppa di vetro, ancora piena a metà di macedonia. Stavo per prenderne un poco, perché non avevo cenato, ma ebbi l'impressione di scorgervi come lo stampo di un piede, che aveva pressato al centro i cubetti di frutta, riducendoli a un pavé omogeneo. Non era impossibile, perché il pavimento era ormai bagnato da chiazze di vino bianco, e qualcuno degli invitati si muoveva già a fatica.

Belbo aveva catturato un bicchiere e si muoveva con indolenza, senza meta apparente, battendo ogni tanto la mano sulla spalla a qualcuno. Cercava di ritrovare Lorenza.

Ma pochi stavano fermi. La folla era intenta a una sorta di movimento circolare, come api che cercassero un fiore ancora ignoto. Io non cercavo nulla, eppure mi ero alzato, e mi spostavo seguendo gli impulsi che mi venivano inviati dal gruppo. Vedevo poco lontano da me Lorenza che vagava mimando agnizioni passionali con l'uno o con l'altro, la testa alta, lo sguardo volutamente miope, le spalle e il seno fermi e dritti, un passo svagato di giraffa.

A un certo punto, il flusso naturale mi immobilizzò in un angolo dietro un tavolo, con Lorenza e Belbo che mi davano le spalle, finalmente incrodatisi, forse per caso, e anche loro bloccati. Non so se si erano accorti della mia presenza, ma in quel gran rumore di fondo nessuno ormai sentiva quel che dicevano gli altri. Si considerarono isolati, e io fui obbligato ad ascoltare la loro conversazione.

"Allora," diceva Belbo, "dove hai conosciuto il tuo Agliè?"

"Mio? Anche tuo, da quel che ho visto oggi. Tu puoi conoscere Simone e io no. Bravo."

"Perché lo chiami Simone? Perché ti chiama Sophia?"

"Ma è un gioco! L'ho conosciuto da amici, va bene? E lo trovo affascinante. Mi bacia la mano come fossi una principessa. E potrebbe essere mio padre."

"Sta' attenta che non diventi il padre di tuo figlio."

Mi sembrava di essere io che parlavo, a Bahia, con Amparo. Lorenza aveva ragione. Agliè sapeva come si bacia la mano a una giovane signora che ignora questo rito.

"Perché Simone e Sophia?" insisteva Belbo. "Si chiama Simone, lui?"

"È una storia meravigliosa. Tu lo sapevi che il nostro universo è frutto di un errore e che un poco è colpa mia? Sophia era la parte femminile di Dio, perché allora Dio era più femmina che maschio, siete stati poi voi che gli avete messo la barba e lo avete chiamato Lui. Io ero la sua metà buona. Dice Simone che io ho voluto generare il mondo senza chiedere íl permesso, io la Sophia, che si chiama anche, aspetta, ecco, l’Ennoia. Credo che la mia parte maschile non volesse creare — forse non ne aveva il coraggio, forse era impotente — e io invece di congiungermi con lui ho voluto fare il mondo da sola, non resistevo, credo che fosse per eccesso di amore, è vero, adoro tutto questo universo incasinato. Per questo sono l'anima di questo mondo. Lo dice Simone."

"Che gentile. Dice a tutte così?"

"No stupido, solo a me. Perché mi ha capito meglio di te, non cerca di ridurmi alla sua immagine. Capisce che occorre lasciarmi vivere la vita a modo mio. E così ha fatto Sophia, si è buttata a fare il mondo. Si è scontrata con la materia primordiale, che era schifosa, credo che non usasse deodoranti, e non l'ha fatto apposta ma pare che sia lei che ha fatto il Demo... come si dice?"

"Non sarà il Demiurgo?"

"Ecco, lui. Non ricordo se questo Demiurgo lo ha fatto Sophia oppure c'era già e lei lo ha sobillato, dai scemo, fa' il mondo che poi ci divertiamo. Il Demiurgo doveva essere un casinista e non sapeva fare il mondo come si deve, anzi non avrebbe neppure dovuto farlo, perché la materia è cattiva e lui non era autorizzato a metterci le mani. Insomma ha combinato quello che ha combinato e Sophia ci è rimasta dentro. Prigioniera del mondo."

Lorenza parlava, e beveva molto. Ogni due minuti, mentre molti si erano messi a oscillare blandamente in mezzo alla sala, con gli occhi chiusi, Riccardo le passava davanti e le versava qualcosa nel bicchiere. Belbo cercava di interromperlo, dicendo che Lorenza aveva già bevuto troppo, ma Riccardo rideva scuotendo la testa, e lei si ribellava, dicendo che teneva l'alcool meglio di Jacopo perché lei era più giovane.

"Okay, okay," diceva Belbo. "Non dare ascolto al nonno. Da' ascolto a Simone. Cosa ti ha detto ancora?"

"Questo, che sono prigioniera del mondo, anzi degli angeli cattivi... perché in questa storia gli angeli sono cattivi e hanno aiutato il Demiurgo a fare tutto il casino... gli angeli cattivi, dicevo, mi tengono tra di loro, non mi vogliono lasciar scappare, e mi fanno soffrire. Ma ogni tanto tra gli uomini c'è chi mi riconosce. Come Simone. Dice che gli era già accaduto un'altra volta, mille anni fa – perché non te l'ho detto ma Simone è praticamente immortale, sapessi quante cose ha visto..."

"Certo, certo. Ma adesso non bere più."

"Ssst... Simone mi ha trovato una volta che ero una prostituta in un bordello di Tiro, e mi chiamavo Elena..."

"Questo ti dice quel signore? E tu sei tutta contenta. Permetta che le baci la mano, puttanella del mio universo di merda... Che gentiluomo."

"Caso mai la puttanella era quell'Elena. E poi quando a quei tempi si diceva prostituta si diceva una donna libera, senza vincoli, un'intellettuale, una che non voleva fare la casalinga, lo sai anche tu che una prostituta era una cortigiana, una che teneva salotto, oggi sarebbe una che fa le pubbliche relazioni, chiami puttana una che fa le pubbliche relazioni, come fosse una baldracca di quelle che accendono i falò per i camionisti?"

A quel punto Riccardo le passò di nuovo accanto e la prese per un braccio. "Vieni a ballare," disse.

Stavano in mezzo alla sala, accennando a lievi movimenti un poco trasognati, come se battessero su di un tamburo. Ma a tratti Riccardo la traeva a sé, e le poneva una mano sulla nuca, possessivamente, e lei lo seguiva a occhi chiusi, il volto acceso, il capo gettato all'indietro, coi capelli che le cadevano oltre le spalle, in verticale. Belbo si accendeva una sigaretta dietro l'altra.

Dopo un poco Lorenza afferrò Riccardo alla vita e lo fece muovere lentamente, sino a che non furono a un passo da Belbo. Continuando a ballare, Lorenza gli prese il bicchiere di mano. Teneva Riccardo con la sinistra, il bicchiere con la destra, volgeva lo sguardo un poco umido a Jacopo, e sembrava che piangesse, ma sorrideva... E gli parlava.

"E non è stata mica l'unica volta, sai?"

"L'unica che?" chiese Belbo.

"Che ha incontrato Sophia. Tanti secoli dopo Simone è stato anche Guglielmo Postel."

"Era uno che portava le lettere?"

"Idiota. Era un sapiente del Rinascimento, che leggeva l'ebreo..."

"L'ebraico."

"E cosa cambia? Lo leggeva come i ragazzini leggono Topolino. A prima vista. Ebbene, in un ospedale di Venezia incontra una serva vecchia e analfabeta, la sua Joanna, la guarda e dice, ecco, io ho capito, questa è la nuova incarnazione della Sophia, dell'Ennoia, è la Gran Madre del Mondo scesa tra noi per redimere il mondo intero che ha un'anima femminile. E così Postel si porta Joanna con sé, tutti gli danno del matto, ma lui niente, l'adora, vuole liberarla dalla prigionia degli angeli, e quando lei muore lui rimane a fissare il sole per un'ora e sta tanti giorni senza bere e senza mangiare, abitato da Joanna che non c'è più ma è come se ci fosse, perché è sempre lì, che abita il mondo, e ogni tanto riaffiora, come dire, si incarna... Non è una storia da piangere?"

"Mi sciolgo in lacrime. E a te piace tanto essere Sophia?"

"Ma lo sono anche per te, amore. Sai che prima di conoscermi avevi delle orribili cravatte e la forfora sulle spalle?"

Riccardo le aveva ripreso la nuca. "Posso partecipare alla conversazione?" aveva detto.

"Tu stai buono e balla. Sei lo strumento della mia lussuria."

"Mi va bene."

Belbo continuava come se l'altro non esistesse: "Allora tu sei la sua prostituta, la sua femminista che fa le PR, e lui è il tuo Simone."

"Io non mi chiamo Simone," disse Riccardo, con la bocca già impastata.

"Non stiamo parlando di te," disse Belbo. Da un poco stavo a disagio per lui. Lui, di solito così geloso dei propri sentimenti, stava mettendo in scena il suo diverbio amoroso di fronte a un testimone, anzi, a un rivale. Ma da quell'ultima battuta mi accorsi che, mettendosi a nudo di fronte all'altro – nel momento in cui l'avversario vero era un altro ancora – egli riaffermava nell'unico modo che gli era concesso il suo possesso di Lorenza.

Intanto Lorenza stava rispondendo, dopo aver sollecitato un altro bicchiere da qualcuno: "Ma per gioco. Ma io amo te."

"Meno male che non mi odi. Senti, io vorrei andare a casa, ho un attacco di gastrite. Io sono ancora prigioniero della materia bassa. A me Simone non ha promesso niente. Vieni via con me?"

"Ma stiamo ancora un poco. È così bello. Non ti diverti? E poi non ho ancora guardato i quadri. Hai visto che Riccardo ne ha fatto uno su di me?"

"Quante cose vorrei fare su di te," disse Riccardo.

"Sei volgare. Stai lontano. Sto parlando con Jacopo. Jacopo, Cristo, solo tu puoi fare i giochi intellettuali coi tuoi amici, io no? Chi è che mi tratta come una prostituta di Tiro? Tu."

"L'avrei giurato. Io. Sono io che ti spingo nelle braccia dei vecchi signori."

"Lui non ha mai tentato di prendermi tra le braccia. Non è un satiro. Ti dà noia che non voglia portarmi a letto ma mi consideri un partner intellettuale."

"Allumeuse."

"Questo proprio non lo dovevi dire. Riccardo, portami a cercare qualcosa da bere."

"No, aspetta," disse Belbo. "Adesso mi dici se lo prendi sul serio, voglio capire se sei matta o no. E smetti di bere. Dimmi se lo prendi sul serio, perdio!"

"Ma amore, è il nostro gioco, tra me e lui. E poi il bello della storia è che quando Sophia capisce chi è, e si libera dalla tirannia degli angeli, può muoversi libera dal peccato..."

"Hai smesso di peccare?»

"Ti prego, ripensaci," disse Riccardo baciandola pudicamente sulla fronte.

"Al contrario," rispose lei a Belbo, senza guardare il pittore, "tutte quelle cose là non sono più peccato, si può fare tutto quel che si vuole per liberarsi dalla carne, si è al di là del bene e del male."

Diede una spinta a Riccardo e lo allontanò da sé. Proclamò ad alta voce: "Io sono la Sophia e per liberarmi dagli angeli debbo perpetare... prerpretare... per-pe-trare tutti i peccati, anche i più deliziosi!"

Andò, barcollando lievemente, in un angolo dove sedeva una ragazza vestita di nero, con gli occhi molto bistrati, la carnagione pallida. L'attrasse al centro della sala e iniziò a ondeggiare con lei. Stavano quasi ventre contro ventre, le braccia rilassate lungo i fianchi. "Io posso amare anche te," disse. E la baciò sulla bocca.

Gli altri si erano fatti intorno a semicerchio, un poco eccitati, e qualcuno gridò qualcosa. Belbo si era seduto, con un'espressione impenetrabile, e guardava la scena come un impresario che assista a un provino. Era sudato e aveva un tic all'occhio sinistro, che non gli avevo mai notato. A un tratto, quando Lorenza ballava da almeno cinque minuti, accennando sempre più a movimenti di profferta, ebbe uno scatto: "Adesso vieni qui."

Lorenza si arrestò, allargò le gambe, protese le braccia avanti e gridò: "Io sono la prostituta e la santa!"

"Tu sei la stronza," disse Belbo alzandosi. Andò dritto verso di lei, la prese con violenza per un polso, e la trascinò verso la porta.

"Fermo," gridò lei, "non ti permettere..." Poi scoppiò in lacrime e gli buttò le braccia al collo. "Amore, ma io sono la Sophia di te, ti sarai mica arrabbiato per questo..."

Belbo le passò teneramente il braccio intorno alle spalle, la baciò su una tempia, le ravviò i capelli, poi disse verso la sala: "Scusatela, non è abituata a bere così."

Udii qualche risatina fra gli astanti. Credo le avesse udite anche Belbo. Mi scorse sulla soglia, e fece qualcosa che non ho mai saputo se fosse per me, per gli altri, per lui. Lo fece in sordina, a mezza voce, quando ormai gli altri si erano disinteressati di loro.

Sempre tenendo Lorenza per le spalle, si rigirò di tre quarti verso la sala e disse piano, col tono di chi dice un'ovvietà: "Chicchiricchì."

 


Quando adunque vn Ceruellone Cabalista ti vuoi dir qualche cosa, non pensar che ti dica cosa friuola, cosa volgare, cosa commune: ma vn mistero, vn oracolo....

(Thomaso Garzoni, Il Theatro de vari e diversi cervelli mondani, Venezia, Zanfretti, 1583, discorso XXXVI)

 

Il materiale iconografico trovato a Milano e a Parigi non bastava. Il signor Garamond mi autorizzò a spendere qualche giorno a Monaco, al Deutsches Museum.

Passai alcune sere per i baratti dello Schwabing — o in quelle cripte immense dove suonano signori anziani coi baffi, in pantaloni corti di cuoio, e gli amanti si sorridono tra un fumo denso di vapori suini al di sopra di boccali di birra da un litro, una coppia accanto all'altra — e i pomeriggi a sfogliare lo schedario delle riproduzioni. A tratti lasciavo l'archivio, e passeggiavo per il museo, dove hanno ricostruito tutto quello che un essere umano può avere inventato, manovri un pulsante e diorami petroliferi si animano di trivelle in azione, entri in un vero sottomarino, fai girare i pianeti; giochi a produrre acidi e reazioni a catena — un Conservatoire meno gotico e del tutto futuribile, abitato da scolaresche invasate che imparano ad amare gli ingegneri.

Al Deutsches Museum si apprende anche tutto sulle miniere: si scende una scala e si entra in una miniera, completa di cunicoli, ascensori per uomini e cavalli, budelli in cui strisciano fanciulli (spero in cera) macilenti e sfruttati. Si percorrono corridoi tenebrosi e interminabili, ci si arresta sull'orlo di pozzi senza fondo, si sente freddo nelle ossa, e quasi si percepisce l'odore del grisou. Scala uno a uno.

Vagavo in una galleria secondaria, disperando di rivedere la luce del giorno, e scorsi, affacciato sull'orlo di un abisso, qualcuno che mi parve di riconoscere. La faccia non mi era nuova, rugosa e grigia, i capelli bianchi, lo sguardo da civetta, ma sentivo che l'abito avrebbe dovuto essere diverso, come se quel volto lo avessi visto su una qualche divisa, come se ritrovassi dopo tanto tempo un prete in borghese, o un cappuccino senza barba. Anche lui mi guardò, anche lui esitando. Come avviene in quei casi, dopo una schermaglia di sguardi furtivi, egli prese l'iniziativa e mi salutò in italiano. Di colpo mi riuscì di immaginarlo nei suoi panni: avrebbe dovuto portare una lunga palandrana giallastra, e sarebbe stato il signor Salon. A. Salon, taxidermista. Aveva il laboratorio poche porte dopo il mio ufficio, nel corridoio del fabbricone in disarmo in cui facevo il Marlowe della cultura. Talora lo avevo incrociato per le scale e ci si era scambiati un accenno di saluto.

"Curioso," disse tendendomi la mano, "siamo coinquilini da tanto tempo e ci presentiamo nelle viscere della terra, a mille miglia di distanza."

Dicemmo alcune frasi di circostanza. Ebbi l'impressione che sapesse benissimo quello che facevo, e non era poco, dato che non lo sapevo con esattezza neppure io. "Come mai in un museo della tecnica? Alla vostra casa editrice vi occupate di cose più spirituali, mi pare."

"Come fa a saperlo?"

"Oh," fece un gesto vago, "la gente parla, io ricevo molte visite..."

"Che gente viene da un impagliatore, mi scusi, da un taxidermista?"

"Tanta. Lei dirà come tutti che non è un mestiere comune. Ma i clienti non mancano, e sono di tutti i tipi. Musei, collezionisti privati."

"Non mi capita sovente di vedere animali impagliati, nelle case," dissi.

"No? Dipende dalle case che frequenta... O dalle cantine."

"Si tengono animali impagliati in cantina?"

"Alcuni lo fanno. Non tutti i presepi sono alla luce del sole, o della luna. Diffido di questi clienti, ma sa, il lavoro... Diffido dei sotterranei."

"Per questo passeggia nei sotterranei?"

"Controllo. Diffido dei sotterranei ma voglio capirli. Non è che ci siano molte possibilità. Le catacombe a Roma, mi dirà. Non c'è mistero, sono piene di turisti, e sotto il controllo della chiesa. Ci sono le fogne a Parigi... Ci è stato? Si possono visitare il lunedì, il mercoledì e l'ultimo sabato di ogni mese, entrando dal Pont de l'Alma. Anche quello è un percorso per turisti. Naturalmente a Parigi ci sono anche le catacombe, e le cave sotterranee. Per non dire del metró. È mai stato al numero 145 di me Lafayette?"

"Confesso di no."

"Un poco fuori mano, tra la Gare de l'Est e la Gare du Nord. Un edificio a prima vista impercettibile. Solo se lo guarda meglio si accorge che le porte sembrano di legno ma sono di ferro dipinto, e le finestre danno su stanze disabitate da secoli. Mai una luce. Ma la gente passa e non sa."

"Non sa cosa?"

"Che la casa è finta. È una facciata, un involucro senza tetti, senza interni. Vuoto. È solo la bocca di un camino. Serve per l'aerazione e lo scarico dei vapori del metró regionale. E quando lo capisce, lei prova l'impressione di essere davanti alla bocca degli inferi, se solo potesse penetrare entro quelle mura avrebbe accesso alla Parigi sotterranea. Mi è capitato di passare ore e ore davanti a quelle porte che mascherano la porta delle porte, la stazione di partenza per il viaggio al centro della terra. Perché crede che l'abbiano fatto?"

"Per dare aria al metró, ha detto."

"Bastavano dei boccaporti. No, è di fronte a questi sotterranei che io inizio a sospettare. Mi capisce?"

Parlando dell'oscurità pareva illuminarsi. Gli chiesi perché sospettasse dei sotterranei.

"Ma perché se ci sono i Signori del Mondo, non possono che stare nel sottosuolo, è una verità che tutti indovinano ma che pochi osano esprimere. Forse l'unico che ha ardito dirlo a chiare lettere è stato Saint-Yves d'Alveydre. Conosce?"

Forse l'avevo sentito nominare da qualcuno dei diabolici, ma avevo ricordi imprecisi.

"È colui che ci ha parlato di Agarttha, la sede sotterranea del Re del Mondo, il centro occulto della Sinarchia," disse Salon. "Non ha avuto paura, si sentiva sicuro di sé. Ma tutti quelli che lo hanno seguito pubblicamente sono stati eliminati, perché sapevano troppo."

Prendemmo a muoverci per le gallerie, e il signor Salon mi parlava gettando sguardi distratti lungo il cammino, all'imboccatura di nuove vie, all'aprirsi di altri pozzi, come se cercasse nella penombra la conferma dei suoi sospetti.

"Si è mai chiesto perché tutte le grandi metropoli moderne, nel secolo scorso, si sono affrettate a costruire le metropolitane?"

"Per risolvere problemi di circolazione. O no?"

"Quando non c'era il traffico automobilistico ma giravano solo le carrozze? Da un uomo del suo ingegno mi attenderei una spiegazione più sottile!"

"Lei ce l'ha?"

"Forse," disse il signor Salon, e sembrò dirlo con aria assorta e assente. Ma era un modo per bloccare il discorso. E infatti si accorse che doveva andare. Poi, dopo avermi stretto la mano, si trattenne ancora un secondo, come colto dà un pensiero casuale: "A proposito, quel colonnello... come si chiamava, quello che era venuto anni fa alla Garamond a parlarvi di un tesoro dei Templari? Non ne avete saputo più nulla?"

Rimasi come frustato da quella brutale e indiscreta ostentazione di conoscenze che ritenevo riservate e sepolte. Volevo chiedergli come faceva a sapere, ma ne ebbi paura. Mi limitai a dirgli, con aria indifferente: "Oh, una storia vecchia, me l'ero dimenticata. Ma a proposito: perché ha detto ‘a proposito’?"

"Ho detto a proposito? Ah sì, certo, mi pareva che avesse trovato qualcosa in un sotterraneo..."

"Come lo sa?"

"Non so. Non ricordo chi me ne abbia parlato. Forse un cliente. Ma io mi incuriosisco quando entra in scena un sotterraneo. Manie dell'età. Buona sera."

Se ne andò, e io rimasi a riflettere sul significato di quell'incontro.
52

In certe regioni dell'Himalaya, tra i ventidue templi che rappresentano i ventidue Arcani di Hermes e le ventidue lettere di alcuni alfabeti sacri, l'Agarttha forma lo Zero mistico, l'introvabile... Una scacchiera colossale che si estende sotto la terra, attraverso quasi tutte le regioni del Globo.

(Saint-Yves d'Alveydre, Mission de l'Inde en Europe, Paris, Calmann Lévy, 1886, p. 54 e 65)

 

Quando tornai, ne raccontai a Belbo e a Diotallevi e facemmo varie ipotesi. Salon, eccentrico e pettegolo, che in qualche modo si dilettava di misteri, aveva conosciuto Ardenti, e tutto finiva lì. Oppure: Salon sapeva qualcosa sulla scomparsa di Ardenti e lavorava per coloro che lo avevano fatto scomparire. Altra ipotesi: Salon era un informatore della polizia...

Poi vedemmo altri diabolici, e Salon si confuse tra i suoi simili.

Qualche giorno dopo avemmo Agliè in ufficio, a riferire su alcuni manoscritti che Belbo gli aveva mandato. Li giudicava con precisione, severità, indulgenza. Agliè era astuto, non gli era occorso molto per comprendere il doppio gioco Garamond-Manuzio, e non gli avevamo più taciuto la verità. Sembrava capire e giustificare. Distruggeva un testo con poche osservazioni taglienti, e poi osservava con educato cinismo che per la Manuzio poteva andare benissimo.

Gli chiesi cosa poteva dirmi di Agarttha e di Saint-Yves d'Alveydre.

"Saint-Yves d'Alveydre..." disse. "Un uomo bizzarro, senza dubbio, sin da giovane frequentava i seguaci di Fabre d'Olivet. Era solo un impiegato al ministero degli interni, ma era ambizioso... Non lo giudicammo certo bene quando sposò Marie-Victoire..."

Agliè non aveva resistito. Era passato alla prima persona. Evocava ricordi. "Chi era Marie-Victoire? Adoro i pettegolezzi," disse Belbo.

"Marie-Victoire de Risnitch, bellissima quando era intima dell'imperatrice Eugenia. Ma quando incontrò Saint-Yves aveva passato i cinquanta. E lui era sulla trentina. Misalliance per lei, è naturale. Non solo, ma per dargli un titolo lei aveva comperato non ricordo quale terra, appartenuta a certi marchesi d'Alveydre. E così il nostro disinvolto personaggio poté fregiarsi di quel titolo, e a Parigi si cantavano dei couplet sul ‘gigolò’. Potendo vivere di rendita, si era dedicato al suo sogno. Si era messo in testa di trovare una formula politica capace di portare a una società più armonica. Sinarchia come il contrario di anarchia. Una società europea, governata da tre consigli che rappresentassero il potere economico, i magistrati e il potere spirituale, e cioè le chiese e gli scienziati. Un'oligarchia illuminata che eliminasse le lotte di classe. Ne abbiamo sentite di peggio."


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 43 | Нарушение авторских прав



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