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Il pendolo di Foucault 13 страница

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La lettera di Belbo grondava sollievo. La spiegazione di De Angelis appariva la più economica.

 

L'altra sera nel periscopio mi dicevo che invece i fatti erano forse andati ben diversamente: la sensitiva aveva, sì, citato qualcosa udito da Ardenti, ma qualcosa che le riviste non avevano detto mai, e che nessuno doveva conoscere. Nell'ambiente di Picatrix c'era qualcuno che aveva fatto scomparire il colonnello per farlo tacere, questo qualcuno si era accorto che Belbo intendeva interrogare la sensitiva, e l'aveva eliminata. Poi, per depistare le indagini, aveva eliminato anche il suo amante, e aveva istruito un confidente della polizia perché raccontasse la storia della fuga.

Così semplice, se ci fosse stato un Piano. Ma c'era, visto che lo avremmo inventato noi, e molto tempo dopo? È possibile che la realtà non solo superi la finzione, ma la preceda, ovvero corra in anticipo a riparare i danni che la finzione creerà?

 

Eppure allora, in Brasile, non furono quelli i pensieri che mi suscitò la lettera. Piuttosto, di nuovo, sentii che qualcosa assomigliava a qualcosa d'altro. Pensavo al viaggio a Bahia, e dedicai un pomeriggio a visitare negozi di libri e oggetti di culto, che sino ad allora avevo trascurato. Trovai bottegucce quasi segrete, ed empori sovraccarichi di statue e di idoli. Acquistai perfumadores di Yemanjà, zampironi mistici dal profumo pungente, bacchette di incenso, bombole di spray dolciastro intitolato al Sacro Cuore di Gesù, amuleti da pochi soldi. E trovai molti libri, alcuni per i devoti, altri per chi studiava i devoti, tutti insieme, formulari di esorcismi, Como adivinar o futuro na bola de cristal e manuali di antropologia. E una monografia sui Rosa-Croce.

Tutto si amalgamò di colpo. Riti satanici e moreschi nel Tempio di Gerusalemme, stregoni africani per i sottoproletari nordestini, il messaggio di Provins coi suoi centoventi anni, e i centoventi anni dei Rosa-Croce.

Ero diventato uno shaker ambulante, buono solo a mescolare intrugli di liquori diversi, o avevo provocato un cortocircuito inciampando in un intrico di fili multicolori che si stavano aggrovigliando da soli, e da lunghissimo tempo? Acquistai il libro sui Rosa-Croce. Poi mi dissi che se solo fossi restato qualche ora in quelle librerie, di colonnelli Ardenti e di sensitive ne avrei incontrato almeno dieci.

Tornai a casa e comunicai ufficialmente ad Amparo che il mondo era pieno di snaturati. Lei mi promise conforto e terminammo la giornata secondo natura.

 

Eravamo verso la fine del '75. Decisi di dimenticare le somiglianze e di dedicare tutte le mie energie al mio lavoro. In fin dei conti dovevo insegnare la cultura italiana, non i Rosa-Croce.

Mi dedicai alla filosofia dell'Umanesimo e scoprii che, non appena usciti dalle tenebre del Medioevo, gli uomini della modernità laica non avevano trovato di meglio che dedicarsi a Cabbala e magia.

Dopo due anni di frequentazione di umanisti che recitavano formule per convincere la natura a fare cose che non aveva intenzione di fare, ricevetti notizie dall'Italia. I miei antichi compagni, o almeno alcuni di loro, sparavano nella nuca a chi non era d'accordo con loro, per convincere la gente a fare cose che non aveva intenzione di fare.

Non capivo. Decisi che ormai ero parte del Terzo Mondo, e mi risolsi a visitare Bahia. Partii con una storia della cultura rinascimentale sottobraccio e il libro sui Rosa-Croce, che era rimasto intonso in uno scaffale.
26

Tutte le tradizioni della terra debbono essere viste come le tradizioni di una tradizione-madre e fondamentale che, sin dall'origine, era stata confidata all'uomo colpevole e ai suoi primi rampolli.

(Louis-Claude de Saint Martin, De l'esprit des choses, Paris, Laran, 1800, II, "De 1'esprit des traditions en general")

 

E vidi Salvador, Salvador da Bahia de Todos os Santos, la "Roma negra", e le sue trecentosessantacinque chiese, che si stagliano sulla linea delle colline, o si adagiano lungo la baia, e dove si onorano gli dei del panteon africano.

Amparo conosceva un artista naïf, che dipingeva grandi tavole lignee affollate di visioni bibliche e apocalittiche, smaglianti come una miniatura medievale, con elementi copti e bizantini. Era naturalmente marxista, parlava della rivoluzione imminente, passava le giornate a sognare nelle sacrestie del santuario di Nosso Senhor do Bomfim, trionfo dell'horror vacui, squamose di ex voto che pendevano dal soffitto e incrostavano le pareti, un assemblage mistico di cuori d'argento, protesi di legno, gambe, braccia, immagini di fortunosi salvataggi nel pieno di rutilanti fortunali, trombe marine, maelstrom. Ci condusse nella sacrestia di un'altra chiesa, piena di grandi mobili odorosi di jacaranda. "Chi rappresenta quel quadro," chiese Amparo al sacrestano, "san Giorgio?"

Il sacrestano ci guardò con complicità: "Lo chiamano san Giorgio, ed è meglio chiamarlo così, altrimenti il parroco si arrabbia, ma è Oxossi."

 

Il pittore ci fece visitare per due giorni navate e chiostri, al riparo delle facciate decorate come piatti d'argento ormai anneriti e consunti. Eravamo accompagnati da famigli rugosi e zoppicanti, le sacrestie erano malate d'oro e di peltro, di pesanti cassettoni, di cornici preziose. In teche di cristallo troneggiavano lungo le pareti immagini di santi in grandezza naturale, grondanti sangue, con le piaghe aperte cosparse di gocce di rubino, Cristi contorti dalla sofferenza con gambe rosse di emorragia. In un baluginare di oro tardo barocco, vidi angeli dal viso etrusco, grifoni romanici e sirene orientali che facevano capolino dai capitelli.

Mi muovevo per strade antiche, incantato da nomi che parevan canzoni, Rua da Agonia, Avenida dos Amores, Travessa de Chico Diabo... Ero capitato a Salvador all'epoca in cui il governo, o chi per esso, stava risanando la città vecchia per espellerne le migliaia di bordelli, ma si era ancora a metà strada. Ai piedi di quelle chiese deserte e lebbrose, impacciate dal loro fasto, si stendevano ancora vicoli maleodoranti in cui brulicavano prostitute negre quindicenni, vecchie venditrici di dolciumi africani, accosciate lungo i marciapiedi con le loro pentole accese, torme di sfruttatori che ballavano tra i rigagnoli di scolo al suono del transistor del bar vicino. Gli antichi palazzi dei colonizzatori, sormontati da stemmi oramai illeggibili, erano diventati case di tolleranza.

Il terzo giorno accompagnammo la nostra guida nel bar di un albergo della città alta, nella parte già ristrutturata, in una via piena di antiquari di lusso. Doveva incontrare un signore italiano, ci aveva detto, che stava per acquistare, e senza discutere sul prezzo, un suo quadro di tre metri per due, dove pullulanti schiere angeliche stavano combattendo una battaglia finale contro le altre legioni.

 

Fu così che conoscemmo il signor Agliè. Correttamente vestito di un doppiopetto gessato, malgrado il caldo, lenti con montatura d'oro sul viso roseo, capelli argentati. Baciò la mano ad Amparo, come chi non conoscesse altro modo di salutare una signora, e ordinò champagne. Il pittore doveva andare, Agliè gli consegnò un mazzo di travellers' cheques, disse di mandargli l'opera in albergo. Restammo a conversare, Agile parlava il portoghese con correttezza, ma come chi lo avesse appreso a Lisbona, il che gli dava ancor più il tono di un gentiluomo d'altri tempi. Si informò su di noi, fece alcune riflessioni sulla possibile origine ginevrina del"mio nome, si incuriosì sulla storia familiare di Amparo, ma chissà come aveva già arguito che il ceppo fosse di Recife. Quanto alla sua, di origine, rimase nel vago. "Sono come uno di quaggiù," disse, "mi si sono accumulate nei geni innumerevoli razze... Il nome è italiano, da un vecchio possedimento di un antenato. Sì, forse nobile, ma chi ci bada più ai giorni nostri. Sono in Brasile per curiosità. Mi appassionano tutte le forme della Tradizione."

Aveva una bella biblioteca di scienze religiose, mi disse, a Milano, dove viveva da alcuni anni. "Mi venga a trovare quando torna, ho molte cose interessanti, dai riti afro-brasiliani ai culti di Iside nel basso Impero."

"Adoro i culti di Iside," disse Amparo, che spesso per orgoglio amava fingersi fatua. "Lei sa tutto sui culti di Iside, immagino."

Agliè rispose con modestia. "Solo quel poco che ne ho visto." Amparo cercò di riguadagnar terreno: "Non era duemila anni fa?" "Non sono giovane come lei," sorrise Agliè.

"Come Cagliostro," scherzai. "Non è lui che una volta passando davanti a un crocifisso si fece udire mentre mormorava al suo famiglio: `Gliel'avevo detto io a quel giudeo di stare attento, quella sera, ma non ha voluto darmi ascolto'?"

Agliè si irrigidì, temetti che la celia fosse greve. Accennai a scusarmi, ma il nostro ospite mi interruppe con un sorriso conciliante. "Cagliostro era un mestatore, perché si sa benissimo quando e dove era nato, e non ce l'ha fatta neppure a vivere a lungo. Millantava."

"Lo credo bene."

"Cagliostro era un mestatore," ripeté Agliè, "ma questo non vuoi dire che non siano esistiti e non esistano personaggi privilegiati che hanno potuto attraversare molte vite. La scienza moderna sa così poco sui processi di senescenza, che non è impensabile che la mortalità sia un semplice effetto di cattiva educazione. Cagliostro era un mestatore, ma il conte di San Germano no, e quando diceva di aver appreso alcuni dei suoi segreti chimici dagli antichi egizi, forse non millantava. Ma siccome quando citava questi episodi nessuno gli credeva, per cortesia verso i suoi interlocutori fingeva di scherzare."

"Ma lei finge di scherzare per provarci che dice la verità," disse Amparo.

"Non solo lei è bella, è straordinariamente percettiva," disse Agliè. "Ma la scongiuro di non credermi. Se le apparissi nel fulgore polveroso dei miei secoli, la sua bellezza ne appassirebbe di colpo, e non potrei perdonarmelo."

Amparo era conquistata, e io provai una punta di gelosia. Portai il discorso sulle chiese, e sul san Giorgio-Oxossi che avevamo visto. Agliè disse che dovevamo assolutamente assistere a un candomblé. "Non andate dove vi chiedono dei soldi. I posti veri sono quelli dove vi accolgono senza domandarvi nulla, neppure di credere. Di assistere con rispetto, questo sì, con la stessa tolleranza di tutte le fedi con cui essi ammettono anche la vostra miscredenza. Alcuni pai o māe-de-santo, a vederli sembrano appena usciti dalla capanna dello zio Tom, ma hanno la cultura di un teologo della Gregoriana."

Amparo posò una mano sulla sua. "Ci porti!" disse, "io sono stata una volta, tanti anni fa, in una tenda de umbanda, ma ho ricordi confusi, mi rammento solo di un gran turbamento..."

Agliè parve imbarazzato dal contatto, ma non vi si sottrasse. Solo, come lo vidi fare in seguito nei momenti di riflessione, con l'altra mano trasse dal panciotto una piccola scatola d'oro e d'argento, forse una tabacchiera o un portapillole, col coperchio adorno di un'agata. Sul tavolo del bar ardeva un piccolo lume di cera, e Agliè, come per caso, vi avvicinò la scatoletta. Vidi che al calore l'agata non si scorgeva più, e al suo posto appariva una miniatura, finissima, in verde blu e oro, che rappresentava una pastorella con un cestino di fiori. La rigirò tra le dita con devozione di-stratta, come se sgranasse un rosario. Si accorse del mio interesse, sorrise, e ripose l'oggetto.

"Turbamento? Non vorrei, mia dolce signora, che oltre che percettiva lei fosse esageratamente sensibile. Squisita qualità, quando si associa alla grazia e all'intelligenza, ma pericolosa, per chi vada in certi luoghi senza sapere cosa cercare e cosa troverà... E d'altra parte non mi confonda l'umbanda con il candomblé. Questo è del tutto autoctono, afro-brasiliano, come si suoi dire, mentre quello è un fiore assai tardo, nato dagli innesti dei riti indigeni con la cultura esoterica europea, con una mistica che direi templare..."

I Templari mi avevano di nuovo ritrovato. Dissi ad Agliè che avevo lavorato su di loro. Mi guardò con interesse. "Curiosa congiuntura, mio giovane amico. Qui sotto la Croce del Sud, trovare un giovane Templare..."

"Non vorrei mi considerasse un adepto..."

"Per carità, signor Casaubon. Sapesse quanta cialtroneria c'è in questo campo."

"Lo so, lo so."

"E dunque. Ma dobbiamo rivederci, prima che ripartiate." Ci demmo appuntamento per il giorno dopo: volevamo tutti e tre esplorare il mercatino coperto lungo il porto.

 

Laggiù infatti ci ritrovammo la mattina seguente, ed era un mercato dei pesce, un suk arabo, una fiera patronale che avesse proliferato con virulenza cancerosa, una Lourdes invasa dalle forze del male, dove i maghi della pioggia potevano convivere con cappuccini estatici e stigmatizzati, tra sacchettini propiziatori con preghiere cucite nell'imbottitura, manine in pietra dura che mostravano le fiche, corni di corallo, crocifissi, stelle di Davide, simboli sessuali di religioni pregiudaiche, amache, tappeti, borse, sfingi, sacri cuori, turcassi bororo, collane di conchiglie. La mistica degenerata dei conquistatori europei si fondeva con la scienza qualitativa degli schiavi, così come la pelle di ogni astante raccontava una storia di genealogie perdute.

"Ecco," disse Agliè, "un'immagine di quello che i manuali etnologici chiamano il sincretismo brasiliano. Brutta parola, secondo la scienza ufficiale. Ma nel suo senso più alto il sincretismo è il riconoscimento di un'unica Tradizione, che attraversa e nutre tutte le religioni, tutti i saperi, tutte le filosofie. Il saggio non è colui che discrimina, è colui che mette insieme i brandelli di luce da dovunque provengano... E dunque sono più saggi questi schiavi, o discendenti di schiavi, che non gli etnologi della Sorbona. Mi capisce, almeno lei, mia bella signora?"

"Non con la mente," disse Amparo. "Con l'utero. Mi scusi, immagino che il conte di San Germano non si esprimesse così. Voglio dire che sono nata in questo paese, e anche quello che non so mi parla da qualche parte, qui, credo..." Si toccò il seno.

"Come disse quella sera il cardinal Lambertini alla signora con una splendida croce di diamanti sul decolleté? Che gioia morire su questo calvario. E così amerei io ascoltare quelle voci. Ora mi debbo scusare io, e con entrambi. Vengo da un'epoca in cui ci si sarebbe dannati pur direndere omaggio all'avvenenza. Vorrete restar soli. Ci terremo in contatto."

 

"Potrebbe essere tuo padre," dissi ad Amparo mentre la trascinavo tra le mercanzie.

"Anche il mio bisavolo. Ci ha fatto capire di avere almeno mille anni. Sei geloso della mummia del faraone?"

"Sono geloso di chi ti fa accendere una lampadina in testa."

"Che bello, questo è amore."
27

Raccontando un giorno che aveva conosciuto Ponzio Pilato a Gerusalemme, descriveva minuziosamente la casa del governatore, e citava i piatti serviti a cena. Il cardinale di Rohan, credendo di ascoltare delle fantasie, si rivolse al cameriere del conte di San Germano, un vecchio dai capelli bianchi e dall'aria onesta: "Amico mio, gli disse, faccio fatica a credere quel che dice il vostro padrone. Che sia ventriloquo, passi; che faccia dell'oro, d'accordo; ma che abbia duemila anni e abbia veduto Ponzio Pilato è troppo. Voi eravate li?" "Oh no, monsignore, rispose ingenuamente il cameriere, sono al servizio del signor conte solo da quattrocento anni."

(Coffin de Plancy, Dictionnaire infernal, Paris, Mellier, 1844, p. 434)

 

Nei giorni che seguirono fui preso da Salvador. Passai poco tempo in albergo. Sfogliando l'indice del libro sui Rosa-Croce trovai un riferì.-mento al conte di San Germano. Guarda guarda, mi dissi, tout se tient.

Di lui Voltaire scriveva "c’est un homme qui ne meurt jamais et qui san tout", ma Federico di Prussia gli rispondeva che "c'est un comte pour rire". Horace Walpole ne parlava come di un italiano, o spagnole, o polacco, che aveva fatto una grande fortuna in Messico e che poi era fuggito a Costantinopoli, coi gioielli di sua moglie. Le cose più sicure su di lui si apprendono dalle memorie di madame de Hausset, dame de chambre della Pompadour (bella referenza, diceva Amparo, intollerante). Si era fatto passare sotto vari nomi, Surmont a Bruxelles, Welldone a Lipsia, marchese di Aymar, di Bedmar, o di Belmar, conte Soltikoff. Arrestato a Londra nel 1745, dove brillava come musicista suonando violino e clavicembalo nei salotti; tre anni dopo a Parigi offre i suoi servigi al Luigi XV come esperto in tinture, in cambio di una residenza nel castello di Chambord. Il re lo impiega per missioni diplomatiche in Olanda, dove combina qualche guaio e fugge di nuovo a Londra. Nel 1762 lo troviamo in Russia, poi di nuovo in Belgio. Lì lo incontra Casanova, che racconta come avesse trasformato una moneta in oro. Nel '76 è alla corte di Federico II a cui presenta vari progetti chimici, otto anni dopo muore nello Schleswig, presso il landgravio di Hesse, dove stava mettendo a punto una fabbrica di colori.

Nulla di eccezionale, la tipica carriera dell'avventuriero settecentesco, con meno amori di Casanova e truffe meno teatrali di quelle di Cagliostro. In fondo, con qualche incidente, gode di un certo credito presso i potenti, a cui promette le meraviglie dell'alchimia, ma con piglio industriale. Salvo che intorno a lui, e certo animata da lui, prende forma la diceria della sua immortalità. Si fa udire nei salotti a citare con disinvoltura avvenimenti remoti come se ne fosse stato testimone oculare, e coltiva la sua leggenda con grazia, quasi in sordina.

Il mio libro citava anche un brano da Gog, diGiovanni Papini, dove è descritto un incontro notturno, sulla tolda di un transatlantico, con il conte di San Germano: oppresso dal suo passato millenario, dalle memorie che affollano la sua mente, con degli accenti di disperazione che ricordano Funes, "el memorioso" di Borges, salvo che il testo di Papini era del 1930. "Non v'immaginate che la nostra sorte sia degna d'invidia," dice il conte a Gog. "Dopo un paio di secoli un tedio incurabile prende possesso degli sciagurati immortali. Il mondo è monotono, gli uomini non imparan nulla e ricascano a ogni generazione negli stessi errori ed orrori, gli avvenimenti non si ripetono ma si somigliano... finiscono le novità, le sorprese, le rivelazioni. Posso confessarlo a voi, ora che soltanto il mar Rosso ci ascolta: la mia immortalità m'è venuta a noia. La terra non ha più segreti per me e non ho più speranza nei miei simili."

 

"Curioso personaggio," commentai. "È chiaro che il nostro Agliè gioca ad impersonarlo. Gentiluomo maturo, un po' frollato, con denaro da spendere, tempo libero per viaggiare, e una propensione per il sovrannaturale."

"Un reazionario coerente, che ha il coraggio di essere decadente. In fondo lo preferisco ai borghesi democratici," disse Amparo.

"Women power, women power, e poi cadi in estasi per un baciamano." "Ci avete educate così, per secoli. Lasciate che ci liberiamo a poco a poco. Non ho detto che vorrei sposarlo."

"Meno male."

 

La settimana seguente fu Aglie a telefonarmi. Quella sera saremmo stati accolti in un terreiro de candomblé. Non saremmo stati ammessi al rito, perché la Ialorixà diffidava dei turisti, ma lei stessa ci avrebbe ricevuti prima dell'inizio, e ci avrebbe mostrato l'ambiente.

Ci venne a prendere in macchina, e guidò attraverso le favelas, oltre la collina. L'edificio davanti a cui ci fermammo aveva un aspetto dimesso, come un casermone industriale, ma sulla soglia un vecchio negro ci accolse purificandoci con suffumigi. Più avanti, in un giardinetto disadorno, trovammo una sorta di corbeille immensa, fatta di grandi foglie di palma, su cui apparivano alcune ghiottonerie tribali, le comidas de santo.

All'interno trovammo una grande sala, dalle pareti ricoperte di quadri, specie di ex voto, maschere africane. Aglie ci spiegò la disposizione degli arredi: in fondo le panche per i non iniziati, presso il fondo il palchetto per gli strumenti, e le sedie per gli Oga. "Sono persone di buona condizione, non necessariamente credenti, ma rispettosi del culto. Qui a Bahia il grande Jorge Amado è Ogã in un terreiro. E stato eletto da Iansà, signora della guerra e dei venti..."

"Ma da dove vengono queste divinità?" chiesi.

“È una storia complessa. Anzitutto c'è un ramo sudanese, che s'impone nel nord sin dagli inizi dello schiavismo, e da questo ceppo proviene il candomblé degli orixàs, e cioè delle divinità africane. Negli stati del sud si ha l'influenza dei gruppi bantu e a questo punto iniziano commistioni a catena. Mentre i culti del nord rimangono fedeli alle religioni africane originarie, nel sud la macumba primitiva si evolve verso l'umbanda, che viene influenzata da cattolicesimo, kardecismo e occultismo europeo..."

"Quindi stasera non c'entrano i Templari."

"I Templari erano una metafora. In ogni caso questa sera non c'entrano.Ma il sincretismo ha una meccanica molto sottile. Ha notato fuori della porta, vicino alle comidas de santo, una statuetta in ferro, una sped e di diavoletto col forcone, con alcune offerte votive ai piedi? E l'Exu, potentissimo nell'umbanda, ma non nel candomblé. E tuttavia anche il candomblé l'onora, lo considera uno spirito messaggero, una sorta di Mercurio degenerato. Nell'umbanda si e posseduti dall'Exu, qui no. Però lo si tratta con benevolenza, non si sa mai. Veda laggiù sulla parete...» Mi indicò la statua policroma di un indio nudo e quella di un vecchio schiavo negro vestito di bianco, seduto a fumare la pipa: "Sono un caboclo e un preto velho, spiriti di trapassati, che nei riti umbanda contano moltissimo. Cosa fanno qui? Ricevono omaggio, non vengono utilizzati perché il candomblé stabilisce rapporti solo con gli orixàs africani, ma non vengono per questo rinnegati."

"Ma cosa rimane in comune, di tutte queste chiese?"

"Diciamo che tutti i culti afro-brasiliani sono comunque caratterizzati dal fatto che durante il rito gli iniziati sono posseduti, come in trance, da un essere superiore. Nel candomblé sono gli orixàs, nell'umbanda sono spiriti di trapassati..."

"Avevo dimenticato il mio paese e la mia razza," disse Amparo. "Mio dio, un po' d'Europa e un po' di materialismo storico mi avevano fatto scordare tutto, eppure queste storie le ascoltavo da mia nonna..."

"Un po' di materialismo storico?" sorrise Agliè. "Mi pare di averne sentito parlare. Un culto apocalittico praticato in quel di Treviri, vero?"

Strinsi il braccio ad Amparo. "No pasaràn, amore." "Cristo," mormorò lei.

Agliè aveva seguito senza interferire il nostro breve dialogo a mezza voce. "Le potenze del sincretismo sono infinite, mia cara. Se vuole, le posso offrire la versione politica di tutta questa storia. Le leggi dell'Ottocento restituiscono la libertà agli schiavi, ma nel tentativo di abolire le stimmate della schiavitù si bruciano tutti gli archivi del mercato schiavistico. Gli schiavi diventano formalmente liberi ma senza passato. E allora cercano di ricostruire un'identità collettiva, in difetto di quella familiare. Tornano alle radici. E il loro modo di opporsi, come dite voi giovani, alle forze dominanti."

"Ma se mi ha appena detto che ci si mettono in mezzo quelle sette europee..." disse Amparo.

"Mia cara, la purezza è un lusso, e gli schiavi prendono quello che c'è. Ma si vendicano. Oggi hanno catturato più bianchi di quanto lei non pensi. I culti africani originari avevano la debolezza di tutte le religioni, erano locali, etnici, miopi. A contatto con i miti dei conquistatori hanno riprodotto un antico miracolo: hanno ridato vita ai culti misterici del secondo e del terzo secolo della nostra era, nel Mediterraneo, tra Roma che si sfaceva a poco a poco e i fermenti che venivano dalla Persia, dall'Egitto, dalla Palestina pregiudaica... Nei secoli del basso impero l'Africa riceve gli influssi di tutta la religiosità mediterranea, e se ne fa scrigno, condensatore. L'Europa viene corrotta dal cristianesimo della ragion di stato, l'Africa conserva tesori di sapere, come già li aveva conservati e diffusi al tempo degli egizi, donandoli ai greci, che ne han fatto scempio."
28

C'è un corpo che avvolge tutto l'insieme del mondo, e rap-presentatelo di forma circolare perché questa è la forma del Tutto... Immagina ora che sotto il cerchio di questo corpo stiano i 36 decani, al centro tra il cerchio totale e il cerchio dello zodiaco, separando questi due cerchi e per così dire de-limitando lo zodiaco, trasportati lungo lo zodiaco coi pianeti... Il cambiamento dei re, il sollevamento delle città, la carestia, la peste, il riflusso del mare, i terremoti, nulla di tutto ciò ha luogo senza influsso dei decani...

(Corpus Hermeticum, Stobaeus, excerptum VI)

 

"Ma quale sapere?"

"Si rende conto di come sia stata grande l'epoca tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo? Non per i fasti dell'impero, al tramonto, ma per quello che fioriva intanto nel bacino mediterraneo. A Roma i pretoriani scannavano i loro imperatori, e nel Mediterraneo fioriva l'epoca di Apuleio, dei misteri di Iside, di quel grande ritorno di spiritualità che furono il neoplatonismo, la gnosi... Tempi beati, quando i cristiani non avevano ancora preso il potere e mandato a morte gli eretici. Epoca splendida, abitata dal Nous, folgorata,di estasi, popolata di presenze, emanazioni, dèmoni e coorti angeliche. E un sapere diffuso, sconnesso, antico come il mondo, che risale oltre Pitagora, ai brahmani dell'India, agli ebrei, ai magi, ai gimnosofisti, e persino ai barbari dell'estremo nord, ai druidi delle Gallie e delle isole britanniche. I greci consideravano che i barbari fossero tali perché non sapevano esprimersi, con quei linguaggi che alle loro orecchie troppo educate suonavano come latrati. E invece in quest'epoca si decide che i barbari ne sapevano molto più degli elleni, e proprio perché il loro linguaggio era impenetrabile. Crede che coloro che danzeranno questa sera sappiano il senso di tutti i canti e nomi magici che pronunzieranno? Fortunatamente no, perché il nome ignoto funzionerà come esercizio di respiro, vocalizzazione mistica. L'epoca degli Antonini... Il mondo era pieno di meravigliose corrispondenze, di somiglianze sottili, occorreva penetrarle, farsene penetrare, attraverso il sogno, l'oracolo, la magia, che permette di agire sulla natura e sulle sue forze muovendo il simile con il simile. La sapienza è imprendibile, volatile, sfugge a ogni misura. Ecco perché in quell'epoca il dio vincente è stato Hermes, inventore di tutte le astuzie, dio dei crocicchi, dei ladri, ma artefice della scrittura, arte dell'elusione e della differenza, della navigazione, che trae verso la fine di ogni confine, dove tutto si confonde all'orizzonte, delle gru per elevare le pietre dal suolo, e delle armi, che mutano la vita in morte, e delle pompe ad acqua, che fanno lievitare la materia pesante, della filosofia, che illude e inganna... E sa dove sta oggi Hermes? Qui, lo ha visto sulla porta, lo chiamano Exu, questo messaggero degli dei, mediatore, commerciante, ignaro della differenza tra il bene ed il male."

Ci osservò con divertita diffidenza. "Voi credete che come Hermes con le merci, io sia troppo lesto nel ridistribuire gli dei. Guardate questo libretto, che ho comperato stamane in una libreria popolare nel Pelourinho. Magie e misteri del santo Cipriano, ricette di fatture per ottenere un amore, o per far morire il proprio nemico, invocazioni agli angeli e alla Vergine. Letteratura popolare, per questi mistici di colore nero. Ma si tratta di san Cipriano di Antiochia, su cui esiste un'immensa letteratura dei secoli argentei. I suoi genitori vogliono che egli sia istruito su tutto e che sappia ciò che c'è in terra, nell'aria e nell'acqua del mare e lo inviano nei paesi più remoti ad apprendere tutti i misteri, perché conosca la generazione e la corruzione delle erbe e le virtù delle piante e degli animali, non quelle della storia naturale, ma quelle della scienza occulta, sepolta nel profondo delle tradizioni arcaiche e lontane. E Cipriano si vota a Delfo ad Apollo e alla drammaturgia del serpente, conosce i misteri di Mitra, a quindici anni sul monte Olimpo, sotto la guida di quindici ierofanti, assiste a riti di evocazione del Principe di Questo Mondo, per do-minarne le trame, ad Argo viene iniziato ai misteri di Era, in Frigia apprende la mantica dell'epatoscopia e non c'era ormai nulla nella terra, nel mare e nell'aria che egli non conoscesse, né fantasma, né oggetto di sapienza, né artificio di alcuna sorta, neppure l'arte di cambiare per sortilegio le scritture. Nei templi sotterranei di Menfi impara come i demoni comunichino con le cose terrestri, i luoghi che aborrono, gli oggetti che amano, e come abitino le tenebre, e quali resistenze oppongano in certi domini, e come sappian possedere le anime e i corpi, e quali effetti ottengano di conoscenza superiore, memoria, terrore, illusione, e l'arte di produrre commozioni terrestri e di influenzare le correnti del sottosuolo... Poi, ahimè, si converte, ma qualcosa del suo sapere resta, si trasmette, e ora lo ritroviamo qui, nella bocca e nella mente di questi cenciosi che voi dite idolatri. Amica mia, poco fa lei mi guardava come se fossi un ci devant. Chi vive nel passato? Lei che vorrebbe regalare a questo paese gli orrori dei secolo operaio e industriale, o io che voglio che la nostra povera Europa ritrovi la naturalezza e la fede di questi figli di schiavi?"


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 34 | Нарушение авторских прав



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