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Il pendolo di Foucault 3 страница

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La torre muoveva su ruote, aveva una prima elevazione quadrata, delle finestre, una porta, un ponte levatoio, sul fianco destro, poi una sorta di balconata con quattro torricelle d'osservazione, ciascuna abitata da un armato con lo scudo (istoriato di caratteri ebraici) che agitava una palma. Ma degli armati se ne vedevan solo tre, e il quarto si indovinava, nascosto dalla mole della cupola ottagonale, su cui si elevava un tiburio, altrettanto ottagonale, e da questo spuntavano un paio di grandi ali. Sopra, un'altra cupola più piccola, con una torretta quadrangolare che, aperta su grandi archi retti da esili colonne, mostrava al proprio interno una campana. Poi una cupoletta finale, a quattro vele, su cui si imperniava il filo retto in alto dalla mano divina. Ai lati della cupoletta, la parola "Fa/ma", sopra la cupola un cartiglio: "Collegium Fraternitatis".

Le bizzarrie non finivano qui, perché da altre due finestre tonde della torre spuntavano, a sinistra, un braccio enorme, sproporzionato rispetto alle altre figure, che reggeva una spada, come se appartenesse all'essere alato rinchiuso nella torre, e a destra una grande tromba. La tromba, ancora una volta...

Ebbi un sospetto sul numero di aperture della torre: troppe e troppo regolari nei tiburi, casuali invece sui fianchi della base. La torre si vedeva solo di due quarti, in prospettiva ortogonale, e si poteva immaginare che per ragioni di simmetria le porte, le finestre e gli oblò che si vedevano su di un lato fossero riprodotti anche sul lato opposto nello stesso ordine. Dunque, quattro archi nel tiburio della campana, otto finestre in quello inferiore, quattro torricelle, sei aperture tra facciata orientale e occidentale, quattordici tra facciata settentrionale e meridionale. Addizionai: trentasei aperture.

Trentasei. Da più di dieci anni quel numero mi ossessionava. Insieme a centoventi. I Rosa-Croce. Centoventi diviso trentasei dava — conservando sette cifre — 3,333333. Esageratamente perfetto, ma forse valeva la pena di provare. Provai. Senza successo.

Mi venne in mente che, moltiplicata per due, quella cifra dava a un di-presso il numero della Bestia, 666. Ma anche quella congettura si rivelò troppo fantasiosa.

Mi colpì all'improvviso il nembo centrale, sede divina. Erano molto evidenti le lettere ebraiche, si potevano vedere anche dalla sedia. Ma Belbo non poteva scrivere su Abulafia lettere ebraiche. Guardai meglio: le conoscevo, certo, da destra a sinistra, jod, he, waw, het. Iahveh, il nome di Dio.
5

Le ventidue lettere fondamentali le incise, le plasmò, le combinò, le soppesò, le permutò e formò con esse tutto il creato e tutto ciò che c'è da formare nel futuro.

(Sefer Jesirah, 2.2)

 

Il nome di Dio... Ma certo. Ricordai il primo dialogo tra Belbo e Diotallevi, il giorno che avevano installato Abulafia in ufficio.

Diotallevi stava sulla porta della sua stanza, e ostentava indulgenza. L'indulgenza di Diotallevi era sempre offensiva, ma Belbo sembrava accettarla, appunto, con indulgenza.

"Non ti servirà a nulla. Non vorrai riscrivere lì sopra i manoscritti che non leggi?"

"Serve a classificare, a ordinare elenchi, ad aggiornare schede. Potrei scriverci un testo mio, non quelli degli altri."

"Ma hai giurato che non scriverai mai nulla di tuo."

"Ho giurato che non affliggerò il mondo con un altro manoscritto. Ho detto che siccome ho scoperto che non ho la stoffa del protagonista..." "...sarai uno spettatore intelligente. Lo so. E allora?"

"E allora anche lo spettatore intelligente, quando torna da un con-certo, canticchia il secondo movimento. Mica vuoi dire che pretende di dirigerlo al Carnegie Hall..."

"Quindi farai esperimenti di scrittura canticchiata per scoprire che non devi scrivere."

"Sarebbe una scelta onesta."

"Lei dice?"

Diotallevi e Belbo erano entrambi di origine piemontese e dissertavano sovente su quella capacità, che hanno i piemontesi per bene, di ascoltarti con cortesia, di guardarti negli occhi, e di dire "Lei dice?" in un tono che sembra di educato interesse ma che ín verità ti fa sentire oggetto di pro-fonda disapprovazione. Io ero un barbaro, loro dicevano, e queste sottigliezze mi sarebbero sempre sfuggite.

"Barbaro?" protestavo io, "sono nato a Milano, ma la mia famiglia è di origini valdostane..."

"Sciocchezze," dicevano loro, "il piemontese si riconosce subito dal suo scetticismo."

"Io sono scettico."

"No. Lei è solo incredulo, ed è diverso."

Sapevo perché Diotallevi diffidava di Abulafia. Aveva sentito dire che ci si poteva alterare l'ordine delle lettere, così che un testo avrebbe potuto generare il proprio contrario e promettere oscuri vaticini. Belbo tentava di spiegargli. "Sono giochi di permutazione," gli diceva, "non si chiama Temurah? Non è così che procede il rabbino devoto per ascendere alle porte dello Splendore?"

"Amico mio," gli diceva Diotallevi, "non capirai mai nulla. È vero che la Torah, dico quella visibile, è solo una delle possibili permutazioni delle lettere della Torah eterna, quale Dio la concepì e la consegnò ad Adamo. E permutando nel corso dei secoli le lettere del libro si potrebbe arrivare a ritrovare la Torah originaria. Ma non è il risultato quello che conta. E il processo, la fedeltà con cui farai girare all'infinito il mulino della preghiera e della scrittura, scoprendo la verità a poco a poco. Se questa macchina ti desse subito la verità non la riconosceresti, perché il tuo cuore non sarebbe stato purificato da una lunga interrogazione. E poi, in un ufficio! Il Libro deve essere mormorato in una piccola stamberga del ghetto dove giorno per giorno apprendi ad incurvarti e a muovere le braccia strette sulle anche, e tra la mano che tiene il Libro e quella che lo sfoglia non deve esserci quasi spazio, e se ti umetti le dita le devi portare verticalmente alle labbra, come se smozzicassi pane azzimo, attento a non perderne una briciola. La parola va mangiata lentissimamente, puoi dissolverla e ricombinarla solo se la lasci sciogliere sulla lingua, e attento a non sbavarla sul caffettano, perché se una lettera evapora si spezza il filo che sta per unirti ai sefirot superiori. A questo ha dedicato la vita Abraham Abulafia, mentre il vostro santo Tommaso si affannava a trovare Dio con i suoi cinque viottoli. La sua Hokmath ha-Zeruf era al tempo stesso scienza della combinazione delle lettere e scienza della purificazione dei cuori. Logica mistica, il mondo delle lettere e del loro vorticare in permutazioni infinite è il mondo della beatitudine, la scienza della combinazione è una musica del pensiero, ma attento a muoverti con lentezza, e con cautela, perché la tua macchina potrebbe darti il delirio, e non l'estasi. Molti dei discepoli di Abulafia non hanno saputo trattenersi su quella soglia esilissima che separa la contemplazione dei nomi di Dio dalla pratica magica, dalla manipolazione dei nomi onde farne talismano, strumento di dominio sulla natura. E non sapevano, come tu non sai — e non sa la tua macchina —che ogni lettera è legata a una delle membra del corpo, e se sposti una consonante senza conoscerne il potere, uno dei tuoi arti potrebbe mutar posizione, o natura, e ti troveresti bestialmente storpiato, di fuori, per la vita, e di dentro, per l'eternità."

"Senti," gli aveva detto Belbo proprio quel giorno, "non mi hai dissuaso, mi incoraggi. Dunque ho tra le mani, e al mio comando, come i tuoi amici avevano il Golem, il mio Abulafia personale. Lo chiamerò Abulafia, Abu per gli intimi. E il mio Abulafia sarà più cauto e rispettoso del tuo. Più modesto. Il problema non è trovare tutte le combinazioni del nome di Dio? Bene, guarda su questo manuale, ho un piccolo programma in Basic per permutare tutte le sequenze di quattro lettere. Sembra fatto apposta per IHVH. Eccolo, vuoi che lo faccia girare?" E gli mostrava il programma, quello sì, cabalistico per Diotallevi:

 

10 REM anagrams

20 INPUT L$(l),L$(2),L$(3),L$(4)

30 PRINT

40 FOR I1=1 T0 4

50 FOR I2=1 TO 4

60 IF I2=I1 THEN 130

70 FOR I3=1 TO 4

80 IF I3=I1 THEN 120

90 IF I3=I2 THEN 120

100 LET I4= 10-(I1+I2+I3)

110 LPRINT L$(I1);L$(I2);L$(I3);L$(I4)

120 NEXT I3

130 NEXT I2

140 NEXT I1

150 END

 

"Prova, scrivi I,H,V,H, quando ti chiede l'input, e fai partire il programma. Forse ci rimarrai male: le permutazioni possibili sono solo venti-quattro."

"Santi Serafini. E che cosa te ne fai con ventiquattro nomi di Dio? Credi che i nostri saggi non avessero già fatto il calcolo? Ma leggi il Sefer Jesirah, sedicesima sezione del capitolo quattro. E non avevano i calcola-tori. `Due Pietre costruiscono due Case. Tre Pietre costruiscono sei Case. Quattro Pietre costruiscono ventiquattro Case. Cinque Pietre costruiscono centoventi Case. Sei Pietre costruiscono settecentoventi Case. Sette Pietre costruiscono cinquemila e quaranta Case. Da qui in avanti vai e pensa a quello che la bocca non può dire e l'orecchio non può udire.' Sai come si chiama oggi questo? Calcolo fattoriale. E sai perché la Tradizione ti avverte che di qui in avanti è meglio che smetti? Perché se le lettere del nome di Dio fossero otto, le permutazioni sarebbero quarantamila, e se fossero dieci sarebbero tre milioni e seicentomila, e le permutazioni del tuo povero nome sarebbero quasi quaranta milioni, e ringrazia che non hai la middle initial come gli americani, altrimenti saliresti a più di quattrocento milioni. E se le lettere dei nomi di Dio fossero ventisette, perché l'alfabeto ebraico non ha vocali, bensì ventidue suoni più cinque varianti — i suoi nomi possibili sarebbero un numero di ventinove cifre. Ma dovresti calcolare anche le ripetizioni, perché non si può escludere che il nome di Dio sia Alef ripetuto ventisette volte, e allora il fattoriale non ti basterebbe più e dovresti calcolare ventisette alla ventisettesima: e avresti, credo, 444 miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di possibilità, o giù di lì, in ogni caso un numero di trentanove cifre."

"Stai barando per impressionarmi. Ho letto anch'io il tuo Sefer Jesirah. Le lettere fondamentali sono ventidue e con quelle, e solo con quelle, Dio formò tutto il creato."

"Per intanto non tentare sofismi, perché se entri in quest'ordine di grandezze, se invece di ventisette alla ventisettesima fai ventidue alla ventiduesima, ti viene fuori lo stesso qualcosa come trecentoquaranta miliardi di miliardi di miliardi. Per la tua misura umana, che differenza fa? Ma lo sai che se dovessi contare uno due tre e così via, un numero al secondo, per arrivare a un miliardo, dico un piccolissimo miliardo, ci metteresti quasi trentadue anni? Ma la cosa è più complessa di quanto tu credi e la Cabbala non si riduce al Sefer Jesirah. E io ti dico perché una buona permutazione della Torah deve usare tutte e ventisette le lettere. E vero che le cinque finali, se nel corso di una permutazione dovessero cadere nel corpo della parola, si trasformerebbero nel loro equivalente normale. Ma non è sempre così. In Isaia nove sei sette, la parola LMRBH, Lemarbah — che guarda caso vuol dire moltiplicare — è scritta con la mem finale nel mezzo."

"E perché?"

"Perché ogni lettera corrisponde a un numero e la mem normale vale quaranta mentre la mem finale vale seicento. Non è in gioco la Temurah, che ti insegna a permutare, bensì la Gematria, che trova sublimi affinità tra la parola e il suo valore numerico. Con la mem finale la parola LMRBH non vale 277 bensì 837, ed equivale così a `ThThZL, Thath Zal', che significa `colui che dona profusamente'. E quindi vedi che bisogna tener conto di tutte le ventisette lettere, perché non conta solo íl suono ma anche il numero. E allora torniamo al mio calcolo: le permutazioni sono più di quattrocento miliardi di miliardi di miliardi di miliardi. E sai quanto ci vorrebbe a provarle tutte, una al secondo, ammesso che una macchina, non certo la tua, piccola e miserabile, potesse farlo? Con una combinazione al secondo ci metteresti sette miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di minuti, centoventitré milioni di miliardi di miliardi di miliardi di ore, un poco più di cinque milioni di miliardi di miliardi di miliardi di giorni, quattordicimila miliardi di miliardi di miliardi di anni, centoquaranta miliardi di miliardi di miliardi di secoli, quattordici miliardi di miliardi di miliardi di millenni. E se avessi un calcolatore capace di provare un milione di combinazioni al secondo, ah, pensa quanto tempo guadagneresti, quel tuo pallottoliere elettronico se la caverebbe in quattordici-mila miliardi di miliardi di millenni! Ma in verità il vero nome di Dio, quello segreto, è lungo come tutta la Torah e non c'è macchina al mondo capace di esaurirne le permutazioni, perché la Torah è già di per se stessa il risultato di una permutazione con ripetizioni delle ventisette lettere, e l'arte della Temurah non ti dice che devi permutare le ventisette lettere dell'alfabeto ma tutti i segni della Torah, dove ogni segno vale come se fosse una lettera a se stante, anche se appare infinite altre volte in altre pagine, come a dire che le due hau del nome di Ihvh valgono come due lettere. Per cui, se tu volessi calcolare le permutazioni possibili di tutti i segni dell'intera Torah non ti basterebbero tutti gli zeri del mondo. Prova, prova con la tua miserabile macchinetta per ragionieri. La Macchina esiste, certo, ma non è stata prodotta nella tua valle del silicone, è la santa Cabbala o Tradizione, e i rabbini stanno facendo da secoli quello che nessuna macchina potrà mai fare e speriamo non faccia mai. Perché quando la combinatoria fosse esaurita, il risultato dovrebbe rimanere se-greto e in ogni caso l'universo avrebbe cessato il suo ciclo — e noi sfolgoreremmo immemori nella gloria del grande Metatron."

"Amen," diceva Jacopo Belbo.

Ma a queste vertigini Diotallevi lo stava sin da allora spingendo, e avrei dovuto tenerne conto. Quante volte non avevo visto Belbo, dopo le ore d'ufficio, tentare programmi che gli permettessero di verificare i cal-coli di Diotallevi, per mostrargli che almeno il suo Abu gli diceva la verità in pochi secondi, senza dover calcolare a mano, su pergamene ingiallite, con sistemi numerici prediluviani, che magari, dico per dire, non conoscevano neppure lo zero? Invano, anche Abu rispondeva, sin dove poteva arrivare, per notazione esponenziale e Belbo non riusciva a umiliare Diotallevi con uno schermo che si riempisse di zeri all'infinito, pallida imitazione visiva del moltiplicarsi degli universi combinatori e dell'esplosione di tutti i mondi possibili...

Ora però, dopo tutto quello che era successo, e con la stampa rosacrociana di fronte, impossibile che Belbo non fosse riandato, nella sua ricerca di un password, a quegli esercizi sul nome di Dio. Ma avrebbe dovuto giocare su numeri come trentasei o centoventi, se era vero, come congetturavo, che fosse ossessionato da quelle cifre. E quindi non poteva aver combinato le quattro lettere ebraiche perché, lo sapeva, quattro pie-tre costruiscono solo ventiquattro case.

Avrebbe potuto giocare sulla trascrizione italiana, che contiene anche due vocali. Con sei lettere aveva a disposizione settecentoventi permutazioni. Avrebbe potuto scegliere la trentaseiesima o la centoventesima.

Ero arrivato in casa verso le undici, era l'una. Dovevo comporre un programma per anagrammi di sei lettere, e bastava modificare quello già pronto per quattro.

Avevo bisogno di una boccata d'aria. Scesi in strada, mi comperai del cibo, un'altra bottiglia di whisky.

Risalii, lasciai í panini in un angolo, passai subito al whisky, misi il disco di sistema per il Basic, composi il programma per le sei lettere — coi soliti errori, e ci misi una buona mezz'ora, ma verso le due e mezzo il programma girava e lo schermo mi stava facendo sfilare davanti agli occhi i settecentoventi nomi di Dio.

Presi in mano i fogli della stampante, senza staccarli, come se consultassi il rotolo della Torah originaria. Provai con il nome numero trenta-sei. Buio completo. Un ultimo sorso di whisky e poi, con le dita esitanti, tentai col nome numero centoventi. Nulla.

Avrei voluto morire. Eppure ormai io ero Jacopo Belbo e Jacopo Belbo doveva aver pensato come stavo pensando io. Dovevo aver commesso un errore, uno stupidissimo errore, un errore da nulla. Ero a un passo dalla soluzione, forse Belbo, per ragioni che mi sfuggivano, aveva contato dal fondo?

Casaubon, imbecille — mi dissi. Sicuro, dal fondo. Ovvero, da destra a sinistra. Belbo aveva messo nel computer il nome di Dio traslitterato in lettere latine, con le vocali, certo, ma siccome la parola era ebraica l'aveva scritta da destra a sinistra. Il suo input non era stato IAHVEH –come non averci pensato prima —bensì HEVHAI. Naturale che a quel punto l'ordine delle permutazioni si invertisse.

Dovevo dunque contare dal fondo. Provai di nuovo entrambi i nomi. Non accadde nulla.

Avevo sbagliato tutto. Mi ero incaponito su un'ipotesi elegante ma falsa. Succede ai migliori scienziati.

No, non ai migliori scienziati. A tutti. Non avevamo osservato proprio un mese prima che negli ultimi tempi erano usciti almeno tre romanzi in cui il protagonista cercava nel computer il nome di Dio? Belbo non sarebbe stato così banale. E poi suvvia, quando si sceglie una parola d'or-dine si sceglie qualcosa che si ricorda facilmente, che venga spontaneo digitare quasi d'istinto. Figuriamoci, IHVHEA! Avrebbe poi dovuto sovrapporre il Notaríkon alla Temurah, e inventare un acrostico per ricordare la parola. Che so: Imelda, Hai Vendicato Hiram Empiamente Assassinato...

E poi perché Belbo doveva pensare nei termini cabalistici di Diotallevi? Egli era ossessionato dal Piano, e nel Piano avevamo messo tante al-tre componenti, i Rosa-Croce, la Sinarchia, gli Omuncoli, il Pendolo, la Torre, i Druidi, l'Ennoia...

L'Ennoia... Pensai a Lorenza Pellegrini. Allungai la mano e rigirai la fotografia che avevo censurato. Cercai di rimuovere un pensiero importuno, il ricordo di quella sera in Piemonte... Avvicinai la foto e lessi la de-dica. Diceva: "Perché io sono la prima e l'ultima. Io sono l'onorata e l'odiata. Io sono la prostituta e la santa. Sophia."

Doveva essere stato dopo la festa da Riccardo. Sophia, sei lettere. E perché poi occorreva anagrammarle? Ero io che pensavo in modo con-torto. Belbo ama Lorenza, la ama proprio perché è così com'è, e lei è Sophia — e pensando che lei, in quel momento, chissà... No, anzi, Belbo pensa in modo molto più contorto. Mi tornavano alla memoria le parole di Diotallevi: "Nella seconda sefirah l'Alef tenebroso si muta nell'Alef luminoso. Dal Punto Oscuro scaturiscono le lettere della Torah, il corpo sono le consonanti, il soffio le vocali, e insieme accompagnano la canti-lena del devoto. Quando la melodia dei segni si muove si muovono con essa le consonanti e le vocali. Ne sorge Hokmah, la Saggezza, la Sapienza, l'idea primordiale in cui tutto è contenuto come in uno scrigno, pronto a dispiegarsi nella creazione. In Hokmah è contenuta l'essenza di tutto quel che seguirà..."

E che era Abulafia, con la sua riserva segreta di files? Lo scrigno di ciò che Belbo sapeva, o credeva di sapere, la sua Sophia. Egli sceglie un nome segreto per penetrare nel profondo di Abulafia, l'oggetto con cui fa

all'amore (l'unico) ma nel farlo pensa contemporaneamente a Lorenza, cerca una parola che conquisti Abulafia ma che gli serva da talismano anche per avere Lorenza, vorrebbe penetrare nel cuore di Lorenza e capire, così come può penetrare nel cuore di Abulafia, vuole che Abulafia sia impenetrabile a tutti gli altri così come Lorenza è impenetrabile a lui, si illude di custodire, conoscere e conquistare il segreto di Lorenza così come possiede quello di Abulafia...

Mi stavo inventando una spiegazione e mi illudevo che fosse vera. Come per il Piano: prendevo i miei desideri per la realtà.

Ma siccome ero ubriaco, mi rimisi alla tastiera e digitai SOPHIA. La macchina mi richiese con cortesia: "Hai la parola d'ordine?" Macchina stupida, non ti emozioni neppure al pensiero di Lorenza.
6

Judà León se dio a permutaciones

De letras y a complejas variaciones

Y alfin pronunció el Nombre que es la Clave, La Puerta, el Eco, el Huésped y el Palacio...

(J.L. Borges, El Golem)

 

Allora, per odio verso Abulafia, all'ennesima ottusa richiesta ("Hai la parola d'ordine?") risposi: "No."

 

Lo schermo iniziò a riempirsi di parole, di linee, di indici, di una cateratta di discorsi.

Avevo violato il segreto di Abulafia.

Ero così eccitato per la vittoria che non mi chiesi neppure perché Belbo avesse scelto proprio quella parola. Ora lo so, e so che lui, in un momento di chiarezza, aveva capito quello che io capisco ora. Ma giovedì pensai solo che avevo vinto.

Mi misi a ballare, a battere le mani, a cantare una canzone da caserma. Poi mi fermai e andai in bagno a lavarmi la faccia. Tornai e misi in stampa per primo l'ultimo file, quello scritto da Belbo prima della sua fuga a Parigi. Quindi, mentre la stampante gracchiava implacabile, mi misi a mangiare con ingordigia, e a bere ancora.

Quando la stampante si arrestò, lessi, e ne fui sconvolto, e ancora non ero capace di decidere se mi trovavo di fronte a rivelazioni straordinarie o alla testimonianza di un delirio. Che cosa sapevo in fondo di Jacopo Belbo? Che cosa avevo capito di lui nei due anni in cui gli ero stato accanto quasi ogni giorno? Quanta fiducia potevo dare al diario di un uomo che, per sua propria confessione, stava scrivendo in circostanze eccezionali, obnubilato dall'alcool, dal tabacco, dal terrore, tagliato fuori per tre giorni da ogni contatto col mondo?

 

Ormai era notte, la notte del ventuno giugnò. Mi lacrimavano gli occhi. Dal mattino stavo a fissare quello schermo e il formicaio puntiforme prodotto dalla stampante. Vero o falso che fosse quello che avevo letto, Belbo aveva detto che avrebbe telefonato la mattina seguente. Dovevo attendere lì. Mi girava la testa.

Andai barcollando in camera da letto e mi lasciai cadere vestito sopra il letto ancora sfatto.

 

Mi risvegliai verso le otto da un sonno profondo, vischioso, e da principio non mi rendevo conto di dove fossi. Per fortuna era rimasto un barattolo di caffé, e me ne feci alcune tazze. Il telefono non squillava, non ardivo scendere per comperare qualcosa, temendo che Belbo chiamasse proprio in quegli istanti.

Tornai alla macchina e incominciai a stampare gli altri dischi, in ordine cronologico. Trovai giochi, esercizi, resoconti di eventi di cui sapevo ma, rifratti dalla visione privata di Belbo, anche quegli eventi mi apparivano ora in una luce diversa. Trovai brani di diario, confessioni, abbozzi di prove narrative registrate col puntiglio amaro di chi le sa già votate all'insuccesso. Trovai annotazioni, ritratti di persone che pure ricordavo ma che ora assumevano un'altra fisionomia — vorrei dire più sinistra, o più sinistro era solo il mio sguardo, il mio modo di ricomporre accenni casuali in un tremendo mosaico finale?

E soprattutto trovai un intero file che raccoglieva solo citazioni. Tratte dalle letture più recenti di Belbo, le riconoscevo a prima vista, quanti testi analoghi avevamo letto in quei mesi... Erano numerate: centoventi. Il numero non era casuale, oppure la coincidenza era inquietante. Ma per-ché quelle e non altre?

 

Ora non posso rileggere i testi di Belbo, e la storia intera che mi riportano alla mente, se non alla luce di quel file. Sgrano quegli excerpta come grani di un rosario eretico, e pur mi accorgo che alcuni di essi avrebbero potuto costituire, per Belbo, un allarme, una traccia di salvezza.

O sono io che non riesco più a distinguere il buon consiglio dalla de-riva del senso? Cerco di convincermi che la mia rilettura è quella giusta, ma non più tardi di questa mattina qualcuno ha pur detto a me, e non a Belbo, che ero pazzo.

 

La luna sale lentamente all'orizzonte oltre il Bricco. La grande casa è abitata da strani fruscii, forse tarli, topi, o il fantasma di Adelino Canepa... Non oso percorrere il corridoio, sto nello studio di zio Carlo, e guardo dalla finestra. Ogni tanto vado in terrazzo, per controllare se qualcuno si avvicini salendo la collina. Mi sembra di essere in un film, che pena: "Essi stanno venendo..."

 

Eppure la collina è così calma in questa notte ormai d'estate.

 

Come era più avventurosa, incerta, demente, la ricostruzione che tentavo, per ingannare il tempo, e per tenermi vivo, l'altra sera, dalle cinque alle dieci, ritto nel periscopio, mentre per far circolare il sangue muovevo lentamente e mollemente le gambe, come se seguissi un ritmo afro-brasiliana '

Ripensare agli ultimi anni abbandonandomi al rullio incantatorio degli "atabaques"... Forse per accettare la rivelazione che le nostre fantasie, iniziate come balletto meccanico, ora in quel tempio della meccanica si sarebbero trasformate in rito, possessione, apparizione e dominio dell'Exu?

L'altra sera nel periscopio non avevo alcuna prova che ciò che mi aveva rivelato la stampante fosse vero. Potevo ancora difendermi col dubbio. Entro mezzanotte mi sarei forse accorto che ero venuto a Parigi, che mi ero nascosto come un ladro in un innocuo museo della tecnica, solo perché mi ero introdotto stolidamente in una macumba organizzata per turisti e mi ero lasciato prendere dall'ipnosi dei perfumadores, e dal ritmo dei pontos....

E la mia memoria tentava volta per volta il disincanto, la pietà e il sospetto, nel ricomporre il mosaico, e quel clima mentale, quella stessa oscillazione tra illusione fabulatoria e presentimento di una trappola, vorrei conservare ora, mentre a mente ben più lucida sto riflettendo su quello che allora pensavo, ricomponendo i documenti letti freneticamente il giorno prima, e la mattina stessa all'aeroporto e durante il viaggio verso Parigi.

Cercavo di chiarire a me stesso il modo irresponsabile con cui io, Belbo, Diotallevi eravamo arrivati a riscrivere il mondo e — Diotallevi me lo avrebbe detto — a riscoprire le parti del Libro che erano state incise a fuoco bianco, negli interstizi lasciati da quegli insetti a fuoco nero che popolavano, e sembravano rendere esplicita, la Torah.

Sono qui, ora, dopo aver raggiunto — spero — la serenità e l'Amor Fati, a riprodurre la storia che ricostruivo, pieno di inquietudine — e di speranza che fosse falsa — nel periscopio, due sere fa, per averla letta due giorni prima nell'appartamento di Belbo e per averla vissuta, in parte senza averne coscienza, negli ultimi dodici anni, tra il whisky di,Pilade e la polvere della Garamond Editori.
3

BINAH

Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo.

(Stanislaw J. Lec, Aforyzmy. Fraszki, Kraków, Wydawnictwo Literackie, 1977, "Mysli Nieuczesane")

 

Iniziare l'università due anni dopo il sessantotto è come essere ammesso all'Accademia di Saint-Cyr nel novantatré. Si ha l'impressione di avere sbagliato anno di nascita. D'altra parte Jacopo Belbo, che aveva alméno quindici anni più di me, mi convinse più tardi che questa è una sensazione che provano tutte le generazioni. Si nasce sempre sotto il segno sbagliato e stare al mondo in modo dignitoso vuoi dire correggere giorno per giorno il proprio oroscopo..

Credo che si diventi quel che nostro padre ci ha insegnato nei tempi morti, mentre non si preoccupava di educarci. Ci si forma su scarti di saggezza. Avevo dieci anni e volevo che i miei mi abbonassero a un certo settimanale che pubblicava a fumetti i capolavori della letteratura. Non per tirchieria, forse per sospetto nei confronti dei fumetti, mio padre tendeva a svicolare. "Il fine di questa rivista," sentenziai allora, citando l'insegna della serie, perché ero un ragazzo scaltro e persuasivo, "è in fondo quello di educare in modo piacevole." Mio padre, senza alzare gli occhi dal suo giornale, disse: "Il fine del tuo giornale è il fine di tutti i giornali, e cioè di vendere più copie che si può."


Дата добавления: 2015-12-01; просмотров: 34 | Нарушение авторских прав



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